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Volume Quinto
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PENSIERI
GIACOMO LEOPARDI
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PENSIERI
DI
VARIA FILOSOFIA E DI BELLA LETTERATURA
GIACOMO LEOPARDI
Volume Quinto
FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIElì
1900
A^
Sono riservali tulli l diritti di proprietà letterària»
Nociuta Tipoijralka Fini tutina, via 8. dallo, 33,
PENSIERI.
' * È massima molto comune tra' filosofi, e lo fa spe-
cialmente tra' filosofi antichi, che il' sapiente non si
debba curare, né considerar coinè beni o mali, né ri-
porre la sua beatitudine nella presenza o nell'assenza
delle coso che dipendono dalla fortuna, quali ch'olle
si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle
che dipendono interamente e sempre dipenderanno da
lui solo. Ondo (2801) conchiudono che il sapiente, il
quale suppongono dover essere in questa tale dispo-
sizion d'animo, non è per veruna parte suddito della
fortuna. Ma questa medesima disposizione d'animo,
supponendo ancora ch'ella sia più radicata, più abi-
tuale, più continua, piti intera, più perfetta, più reale
eh' ella non è mai stata effettivamente in alcun filo-
sofo, questa medesima disposizione, dico, già piena-
mente acquistata, ed anche, per lungo abito, posse-
duta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si
sono mai veduti de' vecchi ritornar fanciulli di mente
per infermità o per altre cagioni, l'offetto dello quali
non fu in balia di coloro l'impedirò o l'evitare? La
memoria, l'intelletto, tutte le facoltà dell'animo no-
stro non sono in mano della fortuna, come ogni altra
cosa cho ci appartenga? Non è in sua mano l'alte-
rarle, l'indebolirle, lo stravolgerle, l'estinguerle? La
nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia
Lkopabpi — Pontieri, V. I
2
PENSIERI
(280 1-2802-2803)
della fortuna? Può nessuno assicurarsi o vantarsi (2802)
di non aver mai a perder l'uso della ragione, o per
sempre o temporaneamente, o per disorganizzazione del
cervello, o per accesso di sangue o di umori al capo, o
per gagliardi a di febbre, o per i spossamento straor-
dinario di corpo ohe induca il delirio o passeggero o
porpotuo? Non sono infiniti gli accidenti esteriori im-
prevedibili o inevitabili elio influiscono sullo facoltà
doli' animo nostro siccome su quelle del corpo? E di
questi, altri che accadono od oporano in un punto o
in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore
improvviso, una malattia acuta; altri a poco a poco
e tontamente, come la vecchiezza, l'indebolimento dol
corpo, e tutte le malattie lunghe e proparato o inco-
minciate già da gran tempo dalla natura ec. Perduta
o indebolita la memoria non è indebolita o perduta la
scienza, e quindi 1' uso e 1' utilità di essa, e quindi quella
disposizion d'animo che n' ò il frutto, e di cui ragiona-
vamo? Ora, qual facoltà dell'animo umano è più labile,
(2803) più facile a logorarsi, anzi più sicura d'andar col
tempo a indebolirsi od estinguersi, anzi più continua-
mente, inevitabilmente e visibilmente logorantosi in cia-
scuno individuo cho la memoria? Insomma, se il nostro
corpo è tutto in mano della fortuna, e soggotto por ogni
parto all' aziono delle cose esteriori, temeraria cosa è
il dire cho 1' animo, il quale è tutto e sempre sog-
getto al corpo, possa essere indipendente dalle cose
esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso
perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale
mai non esistette, quale non può essere se non im-
maginario, tale ancora sarobbo interamente suddito
dolla fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe
interamente quella stessa ragione sulla quale ogli fon-
derebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima
(21 giugno 1823).
* Altro è il timore altro il terrore. Questa è pas-
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sione molto più forte e viva di quella, e molto più
avvilitiva dell'animo e sospensiva dell'uso della ra-
giono, anzi quasi di tutte le facoltà dell'animo, ed
anche de' sensi dol corpo. (2804) Nondimeno la prima
di questo passioni non cade nell'uomo perfettamente
coraggioso o savio, la seconda si. Egli non teme mai,
ma può sempre ossoro atterrito. Nessuno può debita-
mente vantarsi di non poter ossoro spaventato (21
giugno 1823).
* Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte
il coro. Pel qual uso molto si è dotto a favore e con-
tro. ') Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene stava di
sbandirlo a tutto ciò eh' è moderno. Io considero que-
st'uso corno parte di quel vago, di quell'indefinito
eh' è la principal cagione dello charme dell'antica
poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa
piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile Il bello e
il grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito
non si poteva introdurre sulla scena, se non introdu-
cendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla
moltitudine è rispettabile, bench'olla sia composta d' in-
dividui tutti disprezzabili. Il pubblico, (2805) il po-
polo, l'antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi
e belli, perché rapprosentano un'idea indefinita. Ana-
lizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la
più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Lo massimo
di giustizia, di virtù, d'eroismo, di compassione,
d? amor patrio, sonavano negli antichi drammi sullo
bocche dol coro, cioè di una moltitudine indefinita, o
spesso innominata, giacché il poeta non dichiarava
in alcun modo di quali persone s'intendesse composto
il suo coro. Esse erano espresse in versi lirici, questi
si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica
degl' istrumenti. Tutte queste circostanze , cho noi
') Vedi il Viag'jio <l' AnacarH, cap. 70.
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PENSIERI (2805-2806-2807)
possiamo condannare quanto ci piace corno con travio
alla vorisimiglianza, come assurdo ce, qual altra im-
pressione potevano produrre, se non un' impressione
vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta
bella, tutta poetica? Quelle massime non erano poste
in bocca di un individuo, che le recitasse in tuono
ordinario e naturale. (2806) Per grande e perfetto elio
il poeta avesse finto quosto individuo, la idea mede-
sima d ! individue è troppo determinata e ristretta, per
produrre una sensazione o concezione indeterminata ed
immensa. Queste qualità contrastano con quello, o
quelle avrebbero direttamente impedita questa conce-
zione, non che potessero produrla. Gli uditori avreb-
bero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le av-
venturo di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre
quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di 'Xebe, uccisore
del padre, marito della madre, e cose simili. La na-
zione intera, la stessa posterità compariva sulla scena.
Ella non parlava come ciascuno do' mortali elio rap-
presentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici
o pieni di poesia. TI snono della sua voce non era
quello degl'individui umani: egli era una musica,
un' armonia. NegF intervalli della rappresentazione
questo attore ignoto, innominato, quosta moltitudine
di mortali, prondeva a far delle profonde o sublimi
riflessioni (2807) sugli avvenimenti ch'erano passati
o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore,
piangeva lo miserie dell'umanità, sospirava, maledi-
ceva il vizio, eseguiva la vendetta dell'innocenza e
della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in
quosto mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la
posterità gli oppressori delle medesime; esaltava l'eroi-
smo, rondeva merito di lodi ai benefattori degli uomini,
al sangue dato per la patria (vedi Orazio, Arte Poetica,
v. 193-201). Questo era quasi lo stesso che legare sulla
scena il mondo reale col mondo ideale e inoralo, come
essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente,
(28 0 7-28 0 8-28 09 ) PBNSUffil
5
cioè recando questo legamo sotto i sensi dolio spetta-
tore, secondo l'ufficio e il costume dol poeta dramma-
tico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare
quello che è. Questo era personificare le immagina-
zioni del poeta e i sentimenti degli uditori e della
nazione a cui lo spettacolo si rappresentava. Gli av-
venimenti erano (2808) rappresentati dagl'individui;
i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti
eh' essi producevano o dovevano • produrre nello per-
sone posto fuori di essi avvenimenti erano rappre-
sentati dalla moltitudine, da una specie di ossero idealo.
Questo s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'uti-
lità che si cava dall'esempio di quelli avvenimenti.
E per certo modo gli uditori venivano ad udirò gli
stessi sentimenti che la rappresentazione ispirava loro,
rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi
trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro parte;
0 imitati dal coro, non meno che si fossero gli eroi
imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche
quando il coro prendeva parte diretta all'azione, que-
sto fare agir nel dramma la moltitudine era più poe-
tico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto,
che il divider tutta l'azione fra pochi individui, come
noi facciamo.
Da queste considerazioni si argomenti se (2809 1
sia giusto il dire che 1' uso del coro nuoce all' illu-
sione. Qual grata illusione senza il vago e l' indefi-
nito? E qual dolce, grande e poetica illusiono doveva
nascere dalle circostanze sovra esposte! (21 giugno
1823). Nelle commedie la moltitudine serve altresì
all'entusiasmo e al vago della gioia, alla $aw/sià, a dar
qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sem-
pre vano o false che noi abbiamo di rallegrarci e
godere, a strascinare in certo modo lo spettatore nel-
l' allegrezza o noi riso, come accecandolo, inebbrian-
dolo, vincendolo col l'autorità della vaga moltitudine.
Vedi pag. 290S,
6
]'KXSIt ; :i:l
(2809-2810)
* Io non so quali abbiano ragiono intorno all' ori-
gine dol verbo latino accuso, o quelli che lo dori-
vano da causa, e quelli che lo fanno venire da un
verbo cuso continuativo di cuderc, del qual cuso non
recano però nessuno esempio ( vedi Porcellini , voo.
accuso, fine e voo. cuso). Forse a questi ultimi potrebbe
esser favorevole il nostro antico cusarc, il quale, se
venisse da cuso e non da causavi, o se non fosse uno
storpiamento d' accusare, sarebbe ut antichissimo tema
perduto o disusato nel latino scritto, o conservato
nell'italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti
accuso, incuso, excuso, recuso. E da notare però che il
nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo
causare nel significato appunto del nostro antico cur-
sore e del latino causari, cioè in sonso. non di ca-
gionare, ma di recava per cagione o come (28 10) cagione,
accagionare: l'usa, dico, in questa frase avverbiale
causando che, cioè atteso che, poiché. Il qual signifi-
cato di causare e il qual modo avverbiale non è no-
tato dalla Crusca, ma trovasi puro usato da Lorenzo
de' Medici nella famosa lettera a Giovanni de' Medici
cardinale suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine,
dove però nella raccolta di. Prose, stampata' in To-
rino, 1753, voi. II, p. 782, trovo cagionando che per cau-
sando che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentis-
simi huomini, raccolte dal Dolce, Venezia, appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari et fratelli, 1554, p. 303,
e nelle Lettere volgari di diversi moltissimi huomini
et eccellentissimi ingegni, stampate da Paolo Ma-
nuzio in Venezia, 1544, carte 6, p. 2 (in ogni modo
anche la frase avverbiale cagionando che manca nella
Crusca). Nelle Lettere di Xlll Huomini ìllustri,Yemzia,
per Coniin da Trino di Monferrato, 1561, p. 485,
trovo pensando che. Vodi il Magnifico di Roscoe,
dove quella lettera è riportata.
Del resto, il verbo accuso o accado o cudo-cusus
semplice ha il suo continuativo o frequentativo a coti-
(2810-2811-2812) pensieri
7
sito (23 giugno 1823). Se accuso è quasi accauso,
tanto e tanto è da notare quosto continuativo, che
sarà quasi accaus ito, dal participio accamatus. (2811)
* Alla p. 2775. Il verbo 8*t!fco ohe oggi sì pone
corno toma, non è certamente che reduplicazione di un
tema più semplice, il che è dimostrato si dalla voce
Moc,, si dal verbo Sii» presso Omero, si dalla voce
Ssìoftai usata più volte da Plutarco per temere. ) An-
che in latino titillò è fatto per duplicazione da tiXXo).
E altre tali duplicazioni alla greca si trovano puro
in latino (come quelle de' perfetti rnemini, cecidi oc)
sieno veramente latino di origina, o greche, o comuni
anticamente ad ambe le lingue ec. eo. (23 giugno 1823),
* Institutum autem oius (Mceridis in 'Attwtafg) est
annotare et inter se conferve voces quibus Attici, et
quibus Graeoi in aliis dialectis, maxime illa v.otv-jj
utobantur; interdirai notat et x&ivòy vulgi, illudque di-
vorsuni facit non modo ab Attico sed etiam IXVvjvtwj» ,
ut in HtXXetV, eò^Jiet, xàtHjao, Xé[ijJ.a, olSticquv, olae, ayia-
tov. ^abrichis, Biblwthem Graeca, odit. vet., 1. V, c. 38,
§ 9, num. 157, voi. IX, p. 420 (23 giugno' 1823).
* Alla p. 2776, margino. Lo stesso discorso si può
fare di fivAì^u), il quale è pur verbo espri mento un
suono, e fatto por imitazione di questo suono; il qual
suono, come è similissimo a quello di cosi non
ha niente che fare con paSCw. Ma questa e simili in-
terposizioni della lettera C (2812) e d'altre tali sono
state fatte o per evitare l' iato o per altro diverse
cagioni, nel processo della lingua, quando già non
v' era pili bisogno che il vocabolo, per essere in-
teso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo
') Kzf/xof^i )(ap)(3p<0t, *ap%xf\Hi (In xmìssu P« reilnplioaziono,
6iri7TT!Ùw ilu ìxteìu. filjjflioj ila ptjivtj o (la §ì$ii. Vedi p. 4109.
8
•KXMKItl
(2812-2813)
suono l' oggetto significato, ma egli era già inteso
generalmente per se e non per virtù della sua ori-
gine; e quando già nella lingua si guardava più alla
dolcezza co. che alla necessità ce, ne' quali modi le
parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla
forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel
suono rappresentativo ohe prima avevano e sul quale
furono modellati e ereati, e nel quale da principio
consisteva la ragione della loro significanza. I latini
dal tema Saéco o bauara fecero baubari, interponendo
un b (il quale in questo caso è più adattato all' imi-
tazione) invece del (. Noi baiare, che per verità po-
trebb' essere appunto quello stosso originalo fjvAm oh' è
affatto perduto nella lingua greca e nella latina
scritta; o ben si potrebbe credere ohe fosse totalmente
(2813) vogo antica latina, conservata nel volgare; dal
che si dedurrebbe, primo, cho l'antico latino e di
poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il
verbo originale ($«6<ó (giacché l' t> m latino antico
ora risponde a un ti, ora ad un ì), quantunque non si
trovi nel latino scritto; verbo inusitato affatto nel-
l'antica e moderna grecità nota; secondo, che questo
antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato
nel greco, perduto, ossia alterato nel latino scritto,
conservasi ancora purissimo e soiiz' alterazione al-
cuna nell'italiano, e vedi la pag. 2704. Si potrebbe
anche erodere cho i primi latini e il volgo, invece
di baubari, dicessero bauari (appunto Bafctv j , e che la
mutazione dell' u in ì (vocali che spessissimo si scam-
biano, per esser le più osili, come ho detto altrove)
seguisse nell' italiano e nel francese ec. Ovvero che
gli antichi dicessero bauari e poi il volgo baioni (24
giugno 1828).
:f: I continuativi latini tutti (so non forse visere da
visus di . ìlici) co' suoi composti inviso reviso ec, e
forse qualche altro, che io chiamorò continuativi ano-
(28 1 3-28 14-281 5) pensieri
9
mali) appartenenti alla prima eongiugazione, sono fatti
dal participio o dal supino del verbo originalo, conio
ho dimostrato. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi,
pur della prima maniera, i quali sono evidentemente
fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno
una significazione evidentemente continuativa della
significazione di questi, ma non sono fatti da' loro
participi i. Quelli che io ho osservati sono, 1°, cubare,
co' suoi composti aeeubare, incubare, decubare, secu-
bare, recubare oc, il significato de' quali è manife-
stissima mente (2814) continuativo di quello di cum-
bere (inusitato, fuorché nella voce evìnti ec. e cubitum
che ora s'attribuiscono a cubare), incumbere, accum-
berc ec, tanto che ogni volta che si dee esprimere azione
continuata si usano immancabilmente quelli e non
questi (come anche viceversa nel caso opposto), e
appena si troverà buono esempio del contrario, quale
potrebb'esser quello di Virgilio, Aen., II, 513-14, Ingens
ara fuit; juxtaque veterrima lauru.s Jneumbenx arac,
invece A' incubane. 2", edrtaare, continuativo di educere
quanto al significato. 3°, jugare parimonto di fungere,
o cosi coniugare, abiugare, deiugare, e s'altro composto
ve n'ha. 4", dicare similmente di dicere, o cosi i com-
posti judkare, di ius dicere, dedicare, praedicare, abdi-
care ec. Vedi p. 3006. 5", labaro di labore inusitato,
cioè labi deponente. È noto che questi verbi della terza
hanno anche i loro continuativi formati regolarmente
da' loro participii, ma con significato diverso da quollo
de' soprascritti verbi dolla prima, sebbene anch' esso
continuativo; come dicere ha pur dieta-re e dictitare;
ducere, onde educere, ha duclare e ductitare; j ungere
ha nel basso latino e nello spaglinolo junctare (noi
volgarmente aggiuntare, i francesi ajouter); labi o
labore ha pur lapsare. C'ubitare, aceubitare oc. pos-
sono venire da acmbatux (2815) inusitato e da ac-
cubitus oc o quindi ossere derivativi, cosi di accum-
bere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi
10
!"KNSI151tJ
(28 15-28 16)
fratelli o col suo semplice cubo, non ha del pro-
prio né il preterito perfetto né i tempi cbe da
questo si formano, né il participio in US, né il su-
pino, ma li toglie in prestito da accumbcre, reévm-
bere , incumberc ec, facendo né pili né meno come
fan questi, accubui, accubUus i, accubitum ec. Vedi
però la p. 3570, 3715-7. Incubare ha anche incubavi,
incubatum. Cubare ha anche cubavi o certo cubasse.
Notate che se talvolta troverete ne' lessici o ne' gram-
matici ec. degli esempii di accubare, incubare, ec.
adoperati nel preterito o nel supino ec. che non vi
paiano di senso continuativo, dovete credere ch'ossi
sieno male attribuiti a quei verbi, o spettino ad in-
cumberc, accumbcre, occumbere ec. Vedi a questo pro-
posito p. 2930, 2935, Forse a questo discorso apparten-
gono eziandio auspicar o suspico ed auspico o auspico)-,
da spedo, seppur quello non viene piuttosto da suspicio
onis, o questo da auspiciurn o da auspex auspicis.
Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecio,
de' quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro
modo. Da pleeto-plexus si fanno tinche i continuativi
ampkxor e compierò. E notate che si trova anche
amplector aris in luogo di amplector eris ; il che per altra
parte confermerebbe che picelo is fosse un continua-
tivo anomalo di plico, come mi pare aver detto al-
trove. Vedi p. 2903 (24 giugno, di del Battista, 1823).
Vodi p. 2996.
* Sono molti verbi formati da' participii in «s i
quali non esprimono azione continuata, né costume
di fare quella tale azione, o non l'esprimono sempre,
e nondimeno anch'essi, ed anche in questo caso, sono
veri continuativi, e il Porcellini e gli altri che li
chiamano frequentativi sbagliano ed usano una voce
impropria, parlando (2816) con tutto rigore ed esat-
tezza. Per esempio, iactarc nel luogo dell'inette, II,
459, ed exceptare nelle Georgiche, III, 274, sopra i
(2816-2817)
PENSIERI
11
quali luoghi lio disputato altrove, non ' esprimono
azione continuata per se stessa, giacché 1' azione di
lanciare o quella di rioovcr l' aria col respiro non
sono azioni continue, ma si concepiscono conio istan-
tanee; né anche significano costume di lanciare o di
ricovero; ma moltitudine continuata di questo tali
azioni, cioè di lanciamenti, per cosi dire, e di -rice-
vimenti, che senza interruzione e per lungo tempo
succodono l' uno all' altro. Questa è idea continua, o
bene, in questo caso, si chiameranno continuativi
quei tali verbi, e non potranno per nessun modo chia-
marsi altrimenti con proprietà. Malissimo poi si chia-
meranno frequentativi, giacché ben altro è il fare
una cosa frequentemente od altro il ripetere per un
corto maggiore o minor tempo una stessa azione con-
tinuamente, quando anche quest' azione per se non
sia continua e si fornisca nell'istante. Questa è con-
tinuità di faro una stossa azione, ben diversa dalla
frequenza di fare una stessa azione. La qual fre-
quenza suppone e considera dogi 'intervalli, maggiori,
(2817) minori e più o meno numerosi che si e no, du-
rante i quali quell'azione non si fa, laddove la detta
continuità non li suppone, ed ancorché, come è natu-
rale, sempre vi sieno, pure, siccome minimi, non li
considera. Avendo l' occhio a queste osservazioni si
vedrà quanto gran numero di verbi latini detti fre-
quentativi lo sieno impropriamente, e quanto signi-
ficazioni credute frequentative, e che tali paiono a
prima vista, perché rappresentano ripetizione di una
stessa azione, con tutto ciò non lo sieno, ma sieno
vcramonte continuative. Bisogna sottilmente distin-
guere, come abbiamo mostrato, e non credere che
qualunquo verbo esprime ripetizione di una stessa
azione, sia frequentativo, né che questa ripetizione
sia sempre lo stesso che la frequenza d' essa azione.
La successione di più. azioni di una stessa specie è
ben altra cosa cho la frequenza di esse. E con questo
PENS1E1U
(2817-2818)
criterio, siccome cogli altri che abbiamo dati in varii
luoghi circa le diverse signilic azioni do' verbi fatti
da parti eipii in us, si correggeranno infiniti errori
de' grammatici e lessicografi; rettifìcherannosi infi-
nite loro definizioni, conoscerassi o distinguerassi
paratamente il vero spirito e la vera e varia pro-
prietà e forza de' verbi formati da' suddetti parti-
cipii; e vedrassi come il senso frequentativo. (2818)
eh' è solamente l'uno dei tanti che ricevono essi verbi,
sia stato male scelto o preso a denotaro e denominare
e definire tutti questi verbi, ed anche considerato
come 1' unico loro proprio senso. Il che è lo stewsu
che porro la parte per il tutto. E quando ciò s'abbia
a fare, meglio converrà a questi verbi il nomo di
continuativi, il qual nomo abbraccia un assai più
gran numero delle varietà proprie del significato di
questi verbi. Le quali varietà non ancora considerate
né dai grammatici né dai filologi né dai filosofi, e nondi-
meno necessarissime a considerarsi e distinguersi por
ben penetrare noli' intima proprietà ed eleganza, ed
anche noli' intimo e vero senso o valore della lingua
latina, e nell' intelligenza dell' efficacie, dolio bellezze
oc. dei passi degli scrittori, noi abbiamo procurato
di dichiarare ed esporro, si ai grammatici e filologi,
corno ai filosofi e a' letterati (25 giugno 1823).
* Un continuativo anomalo o somianomalo si è hie-
tare fatto da hiatus, quasi da kktus, participio à'biare.
Dove la mutazione dell'» in e viene; 1°, dal voler evi-
tare il cattivo suono d' hiatare, del qual suono sempre
evitato nella formazione de' continuativi fatti da verbi
della prima ho detto altrove; ') 2°, da questo, che seb-
') Salvo no' continuativi de' tomi monosillabi, por esempio dato,
flato, nato ce, corno altrove. A questo proposito il ubilo molto cLe bettre
0 bUtre o bitire aia un continuativo anomalo (come nfeo »«) ili 9n ba dal
greco ficMi), come no da vio, do da S'M, e altri tali tomi monosillabi ialini
Slitti da tali verbi Riooi cosi f onti atti. Èbito amebbo ix^mva ex-eo. Vedi
Foroelllnl in ììelu. Vedi p. 3694.
(28 1 8-28 1 9-2820) pensieri
13
bene i latini in questa (2819) ootal formazione solevano
cambiar l'ultima a dol participio in i, facendo, per
esempio, da wussattw mussitare invece di rnussatare,
qui non poterono far cosi, stante 1' altro i che prece-
deva, onde avrebbero fatto lattare che riusciva di tri-
sto suono e difficile alla pronunzia (25 giugno 1828).
* Bnhulcitare dinota forse un antico verbo bubulco,
dal cui participio esso sia formato. Cosi credo io, se-
condo l'ordinaria ragione osservata da' latini nella
formazione de' verbi, secondo la qual ragiono e pro-
prietà non mi par verisimile che buhulcitarc sia fatto
a dirittura da babulcus (19 giugno 1823).
* Subvento da subvenio, eoe/ito da empio, voeito da
voco, tornito o cenito da conno, dormito da dormio, ster-
nuto da sternuo, observito da obse.rvo, perito da pereo
(come ito ed itito da eo), adiuio (onde aiutare, ayudar,
aitare, aider, atare), e adiutor aris da adiuvo, eiulitare
da eiulare, clamìtare (dedamitare oc.) da clamare. Ci-
cerone nota che declamitare era voce nuova al suo
tempo. Vedi Porcellini Fugito da fttgio, ed altro da
fugo. Flato da fio-fl(dvs, onde fiatare. Vedi Porcellini
e il glossario. Volito da volo-volatus. Strepito da stre-
po-strepitns. Spanno (onde sposare, épouser eo.) o de-
sponso da spondeo e despondeo, e notate la significa-
zione continuativa e durativa di quelli a paragone
del significato di questi. Responso e responsito da
respondere (25 giugno 1823). (2820)
* Frequentativi. Cantito. Symipiìto o sumtito. Da
cano-eantus, e da numo-sutnptus o sumtus (25 giu-
gno 1823). Missito da mìtto-missus (26 giugno 1823).
Accessito.
* Il verbo eo i$ è forse e sonza forse il solo che,
avendo un continuativo desinente in ito, cioè appunto
(tare, abbia anche un frequentativo pare in ito, di-
Ì4 pensieri (2820-2821)
stinto dal continuativo e l'orinato col raddoppiamento
della ìt, cioò ititare, il che fu schivato da' latini in
tutti gli altri verbi dovo sarebbe potuto accadere,
corno ho dotto altrove, onde questi verbi non ebbero se
non un solo o continuativo o frequentativo o l' uno e
l'altro insieme, desinente nel semplice ito. "Voro è che
il verbo itltare non ha noi Porcellini che un solo
osonipio, o secondo me poco sicuro (26 giugno 1823).
* Alcuni continuativi o frequentativi composti sono
fatti dal continuativo semplice, a dirittura, senza che
il verbo padre del continuativo abbia i composti cor-
rispondenti. Di ciò mi pare d'aver detto altrove Veg-
gasi la pag. 3619. Per esempio, recito e suscito sono
continuativi composti di cito, il qual è continuativo
di cica che non ha né recito né suscieo né i participi!
recìtus né suscìtus. Dico di cieo, (2821) non di ciò,
che ha pur lo stesso significato, ma il suo participio
è cìtus, o di cieo cìtas, onde citare, e quindi axeitare,
incitare, concitare ec. che hanno la sillaba ci breve,
vongono tutti da ciao. Da ciò, o vogliamo dire da excio,
vorrebbe il verbo exctto appresso Stazio, se fosse
genuino e sincero. Vedi Porcellini (20 giugno 1823).
* Nexo nexas è continuativo regolare, come si vede,
di nmto-nexus. Nexo nexis (vedi Porcellini) sarebbe
anomalo, sul? andare di viso visis da video-visus, e po-
trebbe forse conformare quello che mi par di aver
detto altrove circa plecto is, o altro simile, da me sti-
muto continuativo, benché, come tale, anomalo (2(5 giu-
gno 1823). Vedi p. 2885, ed osserva anche la p, 2934-5.
* Verbi in tare i quali sono continuativi, benché
paiano tutt' altro, e non apparisca a prima vista que-
sta loro qualità. Confutare, reputare ec. sono conti-
nuativi o composti da futare o derivati da confun-
dere ec. E futare viene dal participio di fundere, il
(2821-2822-2823) pensieri lo
qual participio ora è fusus, ma anticamente futus.
Vedi Porcellini in Confido, initio vocia, in Fido oc.
Da altro participio pur di fundo, e pure antico e inu-
sitato, cioè fundiiuSj viene fiwditare (20 giugno 1823).
Vedi p. 3585, 3625.'
* Un altro futara dice Festo che fu usato da Ca-
tone per saepius fuisse. Questo dimostrerebbe un an-
tico participio (2822) futus del verbo sostantivo latino.
Dico del verbo sostantivo, c non dico del verbo sum.
Questo è originalmente il medesimo elio il greco elju,
ovvero e che il sascrito asham, e il suo participio
in ws dovette essere situs o stus o sutus (giacché è
notabile il nostro «litico suto, vero e proprio partici-
pio del verbo essere, laddove stato cho oggi s'usa in
vece di quello, è tolto in prestito da stare), come ho
detto altrove. *) Ma il participio futus, onde fiutare,
non potè essere so non di quel verbo da cui il verbo
sum tolse in prestito il preterito perfetto fui colle
voci cho da quosto si formano, cioè fueram, f itero ec.
Il qual verbo fiuo non ha che far nionte in origine
con sum né con etju , ma è lo stesso che <p<5«, e vedi
Fornellini in fiuam e in sum. Di questo dunque dovotto
osistoro ancho il participio futus, il quale dimostrasi
col verbo futara che ne deriva. E notisi che Festo
dico il verbo fiutare essere stato usato da Catone per
saepius fuisse, e non per saepius esse, onde paro che
questo verbo appresso Catone conservasse una certa
corrispondenza e similitudine e analogia collo voci
fui, finisse ec. tolte in prestito da sum, le quali
tutte indicano il passato, e che aneli' osso denotasso
il passato di natura sua, ed avesse (2823) significa-
') Il francese Ut è lo stesso che M, giacché gli antichi dicevano
etti, e quell' e tonami e animilo pei dolcezza ili lingua avanti la i im-
pura noi principio della parola, corno in e&pérer, ettjmugnr (ora épuuMr),
ilei olio lio doti» altrove. Ora il participio tti sarebbe appunto rttff In
latino.
PENSIERI
(2823-2824)
zione preterita. Del resto, come il vèrbo fatare è
diverso da stare, cosi il participio futus, da cui quello
deriva, è diverso da situa o stus da cui vien questo, e
come futus è participio di fuo e stus di mm, cosi fu-
ture è continuativo di fuo e s/are, di .swn. E l'esi-
stenza del particiò futus dimostrata dal verbo futare,
non nuoce a quella che io sostengo dol participio stus,
giacché sum e fit«, che ora fanno un sol verbo ano-
malo composto e raccozzato di duo difettivi, furono a
principio due verbi ben distinti e per origine e per
forma materiale, e probabilmente completi tutti e due,
c mm difettivi come ora (2*1 giugno 1823).
* K notabile come il nostro volgo e il nostro di-
scorso familiare conservi ancora l' esattissima etimo-
logia e proprietà do' verbi stupeo, stupeseo, stupefaeio,
stupejìo oc, che diciamo anche stupire, stupefare, stu-
pefarsi. In luogo do' quali vorbi diciamo sovente ^re-
stare o rimanere o divenire o diventare di stoppa por
grandemente maravigliarsi, che sono precisissimamonte
il significato proprio o l'intenzione metaforica de' pre-
detti verbi latini. (2824) Cosi penso assolutamente io,
sobbono altri li derivano da stipes, e forse niuno ha
pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa.
Il che forse è avvenuto perché non dovettero sapore
o avvertire quella nostra frase familiare che ho notata.
Che in alcuni manoscritti si trova anche stipeo ed obsti-
peo, ciò non vale, perché stupa si disse anticamente
stipa, secondo Servio che lo deriva da stipare. Potrebbe
anche osser la stessa voce che storcti da atùf u>- 1 ) E 1'»
greco, siccome ho detto più volte, cambiasi nel latino
ora in i ora in u, e questo due vocali i ed w si scam-
biano sovente fra loro e nel latino e nelle altre lin-
') Chi sa eli» lo stesso stipare non venga apposto <ln c;tO?« pio
tosto cho da ot.i?»? Vedi Fornellini in etipa, «tfpo, stuppa ce. (Ieri
»• egli ha ohe faro con ttupa o stipo, eMO viene da intesta voce, o non i
contrario, come vuol Soi-vio.
(2824-2825)
17
guo, come ho pur detto altrove; ed osservate infatti
che Fu francese e bergamasco e 1' » greco, è appunto
un misto e quasi un composto d'ambedue queste vo-
cali i ed w, e non si sa a qual più. dolio duo rasso-
migliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini o si-
mili ed amiche tra loro, cho s'accozzano insieme a
l'uro (sulla bocca di molti e diversi popoli) una sola
vocale, dove ninna delle due viono a prevalere. Quindi
s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si
scambino l'una coli' altra nella pronunzia (2825) umana,
anche ip uno stesso tempo e popolo, nonché in diversi
tempi e nazioni' e (dirai. Simulare da sìmllis, onde
anche limitare, e noi simigliare e somigliare, assiviu-
lare v'assimilare, maximus, optimus e maoeumns, optu-
mus, amantissimus e amantissumus. Vedi Perticai!,
Apologià di Dalile, p. 156, cap. XVI, verso il fine, lu-
bens, decumus, reeiperare e recuperare, carnufex (26
giugno 1823).
* Foréwnatianus, in Honorii (Augustodunonsis, De
luminaribus Ecdesiae) Codicibus, lib. I, cap. 98, vitiose
Fo-rtunatius, natione Af'er. Aquilejensis Episcopus, in-
torfuit Concilio Sardiconsi, An. 347, et p. 179, teste Hic-
ronymo (J)e scriptoribus Ecctcsiasticfs) cap, U7, scripsit
Oommentarios in Evangelia, titulis (ut apud Hilarium
fit) ordinatiti, breviqtie et rustico sermone. Do rustico
sermone Latino singularem se libellum conscribere
proposuisse testatus est V. C. Christianus Falsterus
ad Gelili XIII, 6, parte 3. Amoenitatum l'hilologi-
carum, p. 280. De Fortunatiano hoc, qui ad Arianos
denique deflexit, plura Tillemontius, tomo VI, momo-
riarum, pag. 364-419. Fabricius, Biblioth. Lai. med.
et inf. aetat., ed. Mansii, Patav., 3 754, t. II, p. 178-179,
lib. VI, art. F ortunatianus (26 giugno 1823).
* Alla p. 2776. Da aòio o aoitu, su>£tu. Notate che l'etimo-
logi co dice esprossamente che otùCiu deriva da <jJku (e
LKOi-AitLi. — Pensieri, V. B
18 PSiNSÌÈRl (2825-2826)
non viceversa), ed aggiungo, corno !£<b sedere facÀo,
seu colloco, pono, da !<u colloco, statuo. Cosi i£u> sedere
facto, in sede, colloco, eh' è lo stesso verbo che 5£«>, come
dico Eustazio, (2826) è fatto da Iu>. risTÓ-O pando
explico da imàcu idem. ') Anche da ne-iai^ai si trova
fatto Kz-à^.'/.i nei frammenti dol 'l'osiwÀi-j-o; d' Epifa-
nio pubblicati dal Mustoxidi e dallo Scinà nella Col-
lezione di vari, aneddoti greci (i quali frammenti però
credo che non fossero, comò gli editori stimarono, ine-
diti). Vedi l'ultima pagina delle annotazioni degli
editori a essi frammenti , nel fine, e, se vuoi, la
p. 2780, margine. E forse buona parte di questi tali
verbi mancavano originariamente del £, aggiunta poi
per proprietà di pronunzia o di dialetto, per evitar
l' iato ee. Da yàsv.<u y//av.a£u). Ma questa è un' altra
formazione, che cambia in eerto modo il significato
e lo rende più continuo ec. Cosi potrebbe essere 'j-^tm^uì
da Spreto e non da àpitàto. KuìjjihO sembra voniro da
v,ii>|j.o; a dirittura, non da xcd|ak<j>; e cosi molti altri.
Da ppùio Bpoafoi (26 giugno 1823).
* E da notare che la nostra ben distinta teoria
della formazione grammaticale de' continuativi e fre-
quentativi giova ancora a dimostrare evidentemente
l'antica esistenza ed uso de' participii o supini di
moltissimi verbi che ora no mancano affatto, mentre
però esistono ancora i loro continuativi o frequenta-
tivi, come fagliare dimostra fuijilits o fugitum di fugio
che altrimenti non si conoscerebbe, e cosi cent' altri;
ovvero di participii e supini divorai da quelli che ora
si conoscono, come agitare dimostra il participio affi-
ti** diverso da actus, noscitare noscitim diverso da no-
tus, future e funditarc, futus e funditus, ambedue di-
versi da fusus (vedi la p. 2928 segg., 3037), quaeritarc
quaeritus, diverso da quaesitus cho non è di quaero, ma
') I>:i x£/.<z(o reJ.ifu, Tignar.)- TSX«à?Oi àviàu- -iviiiw, ÌTi|iàu-
ìtijjwìJu, T(u- itlju, *pf(j- npi^u, }&>$ia~iZa.
1!>
Hi quaeso, benché a quello s'attribuisca, o simili. E
servo ancora ad illustrare e mettere in chiaro l'antico
uso e regola seguita (2827) da' latini nella formazione
de' partieipii in us e de' supini, come ho fatto vedere
altrove in proposito di agitare; e la vera origine di
molti participi! più moderni, come actus, e la loro ra-
gione grammaticale; o spiega e scioglie molte anomalio
apparenti oc. oc. ec. (27 giugno 1823).
* Alla p. 2795, margine. Cambiata la pronunzia dolla
lingua greca, doveva necessariamente mutarsi il
modo di produrre l'armonia eolla collocazione delle
parole (giacché le parole collocate all'antica o pronun-
ziate diversamente non potevano più rendere l'antica
armonia) o quindi variarsi affatto la struttura del-
l' orazione, e prendere un altro giro il periodo; ed ol-
tre a ciò mutarsi ancora l'armonia risultante dalla
eolloeaziono delle parolo modornamente pronunziate,
giacché di diversi elementi, cioè di parole diversa-
mento pronunziate era quasi impossibile che no ri-
sultasse uno stesso offetto per mezzo della varia col-
locazione, cioè che le parole pronunziate alla moderna
e distribuito perciò diversamente dal modo antico
producessero l'armonia stossa che producevano col-
l'antica pronunzia e collocazione. Quindi diversa
struttura e giro di orazione e di periodo, o nel (2828)
tempo stesso diversa armonia. Assai più gran cosa
elio non paro si è il cambiamento della pronunzia in
una lingua. E parlo qui solamente della pronunzia
che spetta alla quantità, cioè alla brevità o lunghezza
delle sillabe ed all' accentazione, senza entraro punto
in quella pronunzia che spetta alle stesse lettere ed
dementi dolla favella , la quale pronunzia come in-
fluisca sulle lingue e come basti a diversificarle l'una
dall' altra, e sia principal causa si della moltiplica-
zione si della continua alterazione do' linguaggi, è
cosa già dimostrata. Ma quella pronunzia che spetta
20
alla semplice quantità delle sillabe ed agli accenti,
par cosa del tutto estrinseca alla lingua. Infatti
ella non altera in nessun conto il nifiterialo delle
parole comò fa l 1 altra. Ed appunto eli' è veramente
estrinseca ed accidentale allo parole. Nondimeno il
cambiamento di questa pronunzia, che nulla influisce
su ciascuna parola, influisce sulle più intrinseche
parti della favella, ed arreca essenzialissimi cangia-
menti alla composizione e all' ordine delle parolo, e
quindi al giro ed alla forma della dicitura, e quindi
alla vera indole della favella. Vedi p. 3024.
Oltre di che, quando anche a' tempi bassi si fosse
potuta dare all' ora/iono l'antica armonia, quando an-
che quest 1 armonia si fosse ben conosciuta (2829) (che
già non si conosceva), il mutato e corrotto gusto non
lasciavano poteva lasciar di stendersi anche all'armonia.
Onde quell'armonia antica non sarebbe piaciuta, senza
cadenze, senza strepito, senza ritornelli, senza eco, senza
rimbombo, senza sfacciataggine di ritmo, dolcemente e
accortamente variata ec. Tutte le contrarie qualità
piacevano e si celebravano a quei tempi. Leggansi le
orazioni o declamazioni o proginnasmi ec. e l'epistole
stesse de' sofisti Libanio, Imorio, Coricio ec.- Questo
ancora gli obbligava a dare alle parole un giro diverso
dall' antico. Di più, quando anche non fosse mancata
loro la volontà, sarebbe mancata l'arte che infinita si
richiede alla retta economia ed uso de' numeri. Quindi
essi sono sempre insolentemente monotoni oc. (27 giu-
gno 1823).
* Ho detto altrove che il greco moderilo è senza
paragone pili similo al greco antico che non l'italiano
al latino. Fra lo altre moltissime particolarità basti
osservare che una dello coso che massimamente di-
stinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra que-
ste l'italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le
moderne mancano dei casi de' nomi; il che (2830) ba-
(2830-2831)
PENSIERI
21
starebbe quasi per se solo a diversificare il gonio e
lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche.
Ora. il greco moderno conserva gli stessi casi del-
l' antico. Conserva ancora l'nso dolla composizione
fatta coi vocaboli semplici e colle preposizioni e par-
ticelle. Ma già non v' è bisogno d'altra prova che di
gittar l'occhio sopra ima pagina di greco vernacolo
correttamente scritto, per conoscere la visibilissima e,
dirci quasi, totale somiglianza eh' esso ha coli' antico,
e quanto ella sia maggiore, and di tntt'altro genere
che non è quella, che passa tra 1 J italiano e il latino,
giacché questa consiste principalmente nel materiale
de'vooaboli e delle radici, e quella, oltre di ciò, in
grandissima parte doll'indole e dello spirito. Ho dotto
correttamente scritto, perché corto fra il greco mo-
derno scritto o parlato da un ignorante e quello scritto
da un uomo cólto ci corre tanto divario quanto fra
questo e il greco antico. Vedi il contratto in groco
moderno barbaro pubblicato da Chateaubriand nel-
l' Minerario. Ma ciò è naturalo, e succede in tutte Je
lingue e nazioni, e certo il greco antico parlato, anche
dai non plebei, e scritto (283!) dagl' ignoranti era ben
diverso da quello che scrivevano i dotti, come il la-
tino rustico dall'illustre Vedi la pag. 2811. Il greco
moderno cólto, giacché ed ogni lingua può esser cólta,
e mima lingua non cólta può valer nulla, potrebbe
certo divenire una lingua bella, efficace, ricca, potente
e forse, per la gran parte che conserva si delle ric-
chezze come delle qualità e della natura dell'antico,
una lingua superiora o a tutte o a molte delle mo-
derne cólte o t'ormate (27 giugno 1823).
* Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse
volte la grazia o delle formo o delle maniere deriva
da una bellezza e convenienza nelle cui parti non
esiste veramente nessun contrasto, ma che però re-
sulta da certe parti che non sogliono armonizzare e
•22
imstamu (2831-2832-2833)
convenire insieme, bonché in questa tal bellezza e in
questo tal caso convengano; ovvero da parti che non
sogliono trovarsi riunito insieme, benché, trovandosi,
sempre armonizzino : onde essa bellezza è diversa
dalle ordinario, bonclié sia vera bellezza, cioè intera
convenienza ed armonia. In t;il caso il contrasto
12832) è estrinseco ed accidentale, non intrinseco: in
tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza,
ma non dalla bellezza in quanto bellozza, bonsi in
quanto bellezza non ordinaria e di genero diversa
dallo altro; cosi che la grazia anche in questo caso
deriva dal contrasto, non dolio parti componenti il
bello, ma del tatto, cioè di questo tal bello, col bello
ordinario; o dalla sorpresa cho 1' uomo prova vedendo
o sentendo una bellezza diversa da quella ch'egli
suole considerar come tale, il che produce in lui un
contrasto colle suo idee. Questo caso, da cui nasce la
grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie. o quelle
forme di persona, perfettamente armonizzanti, e con
tutto ciò non ordinarie, o nelle quali non si suol tro-
vare armonia, o insomma di genere diverso dal più
dello fisonomie e forme belle sono per qualche parte
graziose. E il caso è più frequente e più facile
nello manioro, lo quali ammettono più varietà che le
forme materiali e naturali, e possono armonizzare in
molti più modi cho le dotte forme. (2833)
La grazia, anche in quosti casi, è sempre rela-
tiva, cioè secondo il contrasto che fanno quelle tali
forme o maniere colle assuefazioni e colle idee che lo
spettatore ha intorno al bollo. Il qua! contrasto può
esser maggiore in una persona, minoro in un' altra,
e in un' altra nullo : e quindi produrre un senso di
maggiore o minor grazia ; ovvero questo senso non
esser prodotto in niun modo. E questa varietà può
anche essere in una medesima persona in diversi
tempi e circostanze, assuefazioni ed idee. Onde può
succedere che ad una medesima persona in altro tem-
98
pò, o ad un' altra persona nel tempo stesso, riosoa
grazioso in questi casi appunto il contrario di quello
ch'orale già riuscito, o che riesce a quell' altra per-
sona. E questa, grazia di cui discorro può esser tale
per un maggior o minor numero di persone, per la
l'ili parte o per pochi, per quelli d'una città q na-
zione o por quelli d'un' altra, per la gente di cam-
pagna o di città ; secondo che lo straordinario di quella
tal bellezza e armonia è maggioro o minoro, più o
meno visibile, rispettivo a quello (2834) che i pili
riconoscono per bellezza o a quello che pochi oc. Seb-
bene io abbia qui considerato questa grazia applican-
dola alle forme e manioi-e delle persone, il medesimo
discorso si potrà e dovrà fare intorno a tutti gli al-
tri oggetti capaci di bellezza e di grazia, in molti
do' quali sarà molto più frequente o pili facile il caso
della grazia figlia della bellezza diversa dall'ordina-
rio, eh' esso non è nelle forme e manioro degli uomini
(27 giugno 1823). Vedi p. 3177.
• Dovunque non cado bellezza, non cade grazia.
Dico relativamente agli uomini, perché bellezza e
bruttezza cade in qualsivoglia cosa, ma gli uomini
non ne giudicano, o non ne ricevono il senso se non
in certe. E in queste solo, dov'essi possono riceverò
il senso della bellezza, possono anche ricever quello
della grazia e concepirla. E viceversa similmente, do-
vunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che
P una non possa esser senza V altra. Ma quel genere
eh' è capace dell' una è capace dell' altra. E per bel-
lezza intendo quella eh' è propriamente e filosofica-
mente (2835) tale, cioè quo! la eh' è convenienza, non
1' altre impropriamente chiamato bellezze C27 eineno
1823). k b
* Pcuscitare da paxeitas antico participio di pasco
poi contratto in pashis, come mseitcsre da nosdtus poi
(2835-2836)
ristretto in notux (siccome da suesco suetus ec.) del
qual verbo noscitare \io detto altrove (28 giugno 1823).
* JCmpUto o tmtito frequentativo da cmo-emplu», etn-
tu#. Non vi sarobbe chi appresso Pianto, Cos., IT, 5, 3£>,
leggesse ernpsitem per empiitevi se si fosso ben posto
mento alla teoria eri alla formazione grammaticale
de' frequentativi in ito, ed alla loro derivazione dai
participii o supini, o non d' altronde (28 giugno 1823) .
*Ho recato altrove, in proposito dei sinonimi, al-
enili esempi di voci che nelle lingue figlie della latina
son passati ad aver per proprii de' significati ben lon-
tani da quelli che avevano nella latina, e tra quosto il
verbo quaerere (quarer) che nella lingua spagrmola si-
gnifica velie. Aggiungete 1' esempio del verbo latino
creare (criar) che in ispagnuolo significa allevare, edu-
care, si esso come i suoi derivati, crianza, criddo ec.
(28 giugno 1823). (2836)
* Solati communes nato.*, consortia teda Urbis habent
(apes), magnisque agitakt xuh legibUs àevum. Geor-
giche, 1. IV, v. 153-154. Qui il verbo agito non può es-
ser] pili continuativo di quel eh' egli è; e veramente
non so chi possa avere il coraggio di dire ch'egli in
questo e ne' simili luoghi sia frequentativo (28 giugno
1823).
* Ho mostrato altrove che i poeti e gli scrittóri
primitivi di qualunque lingua non potevano mai os-
sero eleganti quanto alla lingua, mancando loro la prin-
cipal materia di questa eleganza, che sono lo paróle
e modi rimoti dall'uso comune, i quali ancora non
esistevano nella lingua, perché scrittori e poeti non
v'erano stati, da' quali si potessero tórre, ci quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in
uso. Onde quando una lingua comincia ad essere
(2836-2837-2838) pensieri 25
scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell'uso
comune: tutto quello ohe già fu in uso, e olio poi ne
cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo con-
servasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi
sono stati. Togliere pili che tante parole o forme da
quella lingua la cui letteratura serve di modello alla
nuova (come gl'italiani avrebbero potuto fare dalla
lingua latina), è pericoloso in quei principii molto più
che nel séguito (contro quello che si stimano i pe-
danti), anzi non si può, porche, quando nasce la let-
teratura (2837) di una nazione, questa nazione è na-
turalmente ignorante, e poro lo scrittore o il poota,
cosi facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non
prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non
crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più
il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo pro-
posito la p. 3015. Questo medesimo vale anche porle
parole della stessa lingua, rimote più che tanto dal-
l' uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore
stosso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando
fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra ca-
gione. Bisogna considerare che la nazione in quel
tempo è ignoranto, e non istudia, e non leggerebbe
quella scrittura o quel poema, benché scritto in vol-
gare, le cui parolo o modi non fossero alla sua portata
0 egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E
poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o di forme
basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoran-
ti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt' altro
avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che
1 poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti e sem-
pre o per lo phi, si nella lingua si nello stile, tirano
al familiare. E questo viene, si p 0r adattarsi' alla
capacita della nazione, si perché, mancando loro, corno
s e detto, la principal materia dell' eleganza (2838) di
lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica
e rimessa, e non volendo che questa ripugni e di-
86
PENSIERI
(2838-2839)
sconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere
anehe questo, per così dire, a mezz' aria, e di fami-
liarizzarlo. Ondo accade che questi tali poeti o scrit-
tori sappiano di familiare anche ai posteri, quando
lo loro parole e forme, gi;'i divenute abbastanza lon-
tane dall' uso comune, hanno puro acquistato quel che
bisogna ad essere elegantissime, pori oche già elle come
tali s' adoprano dagli scrittori e poeti della riaziono
ne' più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti
a' tempi di que' poeti e scrittori, questi dovettero as-
sumere un tuono e uno stile adattato a parole non
eleganti, e un' aria, ima, maniera, nel totale, dome-
stica o familiare, le quali cose ancora restano, e que-
ste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, ben-
ché 1' eleganza sia sopravvenuta alle loro parole o
a' loro modi che non P avevano, com' è sopravvenuta,
e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni
si possono fare, e questi effetti si scorgono, massi-
mamente ne' poeti, non solo perché gli scrittori pri-
mitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
(2839) sono per lo più poeti, ma perché, mancaiido ad
essi la detta materia dell' eleganza, niente meno ohe
a' prosatori, questa mancanza o lo stilo familiaro che
ne risulta è molto più sensibile in essi che nella,
prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto
l'imoto dall' uso comune per esser elegante di quella
eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche
poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del
Boccaccio, benché familiare anch' esso, massime ad
ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci
rende più il senso dell' eleganza e della squisitezza
che quello del Petrarca, c dimostra meno sprezzatura,
eh' è poro nel Petrarca bellissima. Cosi è : la condi-
zione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto
ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la
stessa (a difforonza de' tempi nostri che abbiamo a
poco a poco acquistato un linguaggio poetico tutto
(2839-2840-2841) pensieri
distinto) : il prosatore si trova dunque aver poco
meno del suo Insogno, e quasi anche tanto che gli
basti a una certa eleganza : il poeta che non si trova
aver niente di più bisogna ohe si contenti di uno stile
e di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti
è benissimo definita (2840) la familiarità che si sente
ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza es-
sore però basso, porclié tutto in loro è ben proporzio-
nato o corrispondente, tieno «lolla prosa. Come fa
l' Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure, essondo stato quasi un primo tentarne
di poema eroico in. questa lingua, che ancora non n' ora
creduta capace, coni' osso medesimo scrive, può dirsi
primitivo in certo modo noi genere e nello stile eroico.
Tutto quosto discorso sui poeti e scrittori primi-
tivi di una lingua si devo intender di quelli che me-
ritano veramente il nome di poeti o di scrittori, e
non di quei primissimi e rozzissiini, ne' quali non cade
sapore né di familiarità né d'eleganza, né d'altra cosa
alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuor-
che d' insipidezza, non avendo essi né lingua, né stilo,
né maniera, né carattere formato, sviluppato, costante
e uniformo. E il sopraddetto discorso ha massima-
mente luogo, e i sunnotati effetti avvengono princi-
palmente nel caso che sui principii di una lettera-
tura compariscano tali e cosi grandi ingegni che o la
creino (2841) quasi in un tratto, o tanto innanzi la
spingano dal luogo ove la trovano, ch'essa paia poco
mono che opora loro. Il qual caso avvenne alla lette-
ratura greca e alla italiana. Anche gli antichi e primi
scrittori latini hanno sapore e modo tutto familiare,
si poeti come Ennio e i tragici, di cui non s'hanno che
frammenti, Lucrezio ec; si prosatori, corno Catone,
Ciucio ed altri cronichisti di cui pur s' hanno fram-
menti ec. Perciocché quando la letteratura si va for-
mando a poco a poco e con tanta uniformità di pro-
grossi, che mai un suo passo non sia fuor d'ogni
l'KXSIKKl
(28+1-2842)
proporzione cogli antecedènti; i summentovati effetti
sono manco notabili, e manco facili a vedere, tro-
vandosi 1' ologan/a delle parole e dei modi già fatta
possibile coli' abbondanza degli scrittori e l'arricchi-
mento dolla lingua che dà luogo alla scelta; o la na-
zione già capace e cólta e studiosa, prima ohe la let-
teratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che
un grande ingegno faccia uso dell'una e dell'altra
disposizione, cioè di quella della lingua, e di quolla
de' suoi nazionali (28 giugno 1823). Vedi p. 3009, 3413.
* Partieipii in us di verbi attivi o neutri, non de-
ponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli
do' deponenti. Dissimulatus a um,pranxus a um, impran-
sus a um, coenatus a um, incoenattts a wwi, potus a um
(dall'antico po o poo, di cui altrove), appotus a um,
iuratus a um, coniuratus a um, iniuratus e simili, solir
tue a um, insolitus a um, mietuti a um. co' suoi composti,
hausus (Foroollini, haurio, fino) .Vedi lap. 2904. line, 3072 ;
esus a um, vmtus a um (2842), appresso Plauto, gavisus
a um (ijavìsus min, per l'antico gavisi), óbsiineUm a um,
obituà a um e altri composti di eo, come fatfevihià a um,
praeteritus, a um. Placito» a um, comò gavisus. Vodi
Porcellini. Vedi il Porcellini si in questi partieipii,
si ne' verbi loro, specialmente in coeno, edo, vento ec.
(28 giugno 1828). Vedi p. 3060.
* Continuativi delle lingue figlie della latina. Di-
ventare italiano da devenio-deventus. S'épultar spagnuolo
da sepelio-sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato
da Venanzio fortunato, poeta e scrittore italiano del
sesto secolo, Carm., lib. Vili, llymno de vìtae wtcrnae
gaudiis (glossario Cang). Gazar spagnuolo da gaudeo-
gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus gausus, onde
gosus, onde gosare e gazar. Ovvero di gavisus gavìmre,
gausare, gasare, gazar. Trovasi nello antiche glosse
latino-grocho gaviso ^atpw. Vedi il glossario Cang. in
(2842-2843)
PF.NfSIF.ni
29
Mavisci, ed anche in Gavi$io,Gausida (goduta sostantivo)
e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita dovo trovi già
il 'A di. gazar. Da questo, o da gaviaio, gausio gonio,
anzi da gavinus us gansus, gomiti, credo io che sia fatto lo
spagnuolo gozo, godimento, piuttosto che da garulium.
Gozar assai spesso, come il nostro godere e il fran-
cese jouir, è vero continuativo di gaudere, non mono
per il significato cho por la forma, equivalendo a
fruì. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent oc. dee
esser venuto similmente da gavisare, prima che questo
fosso mutato in (284-3) gausare, e ne sparisse la ì cho
manca in gozar, ma con tutto ciò ò pili sfigurato.
Cosi dite di joie, jouissance, joyeux ec. e di gioia, gioire
ec. che di là vengono. Pressare, presser, prensar, appres-
sare , oppresse, soppressore, expressar o da premo-pres-
sws.Vedi il glossario. Tritare da tero-irvtus. Il glossario
Tritare, Frequenter terere, Joh. de Janna cioè genovese,
del secolo XIII, autore di un lessico edito. Cantare
incantare da caveo-cautus. Vedi il glossario. Pranzare o
pranzare italiano da pransus di prandeo, ondeilfrequen-
tativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro
incaptare, come pensa Giordani nel principio della
lettera a Monti, Proposta, voi. I, parto 2, ma appunto
da un inceptare, mutato 1' a di captare, in e per virtù
della composizione, come in attrectare, contrectare, da-
trectare, obtreetara ec. da tractare o da detractus ec. di
dutraho. in affettare ec. da affectus di affido, il quale
viene da facto, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da
conieetwi di coniicio cho viene da iacìo, in descendo, ascendo
ce. da seaiido, in accento da occentus di occino da vano,
in aggredior oc. da gradior, in accendo, incendo, succendo
da eandeo o dall'inusitato «andò (vedi p. 3298), e in
molti simili, benché pivi generalmente o regolarmente
Va della prima sillaba de' verbi dissillabi ') si muti
per la composizione in i (e puoi vedere la p. 2890; .
') Vedi pag. 3351,
so
PENSIKW
(2 843-2844)
liieepto àa ìneeptus d' incipio è tutt' altro verbo.
Da capto, o certo da copio, vengono exeepta, re-
eepto, acceplo, intercettare, discepto ec, i quali paro
mutano l' a in e,, e con fanno excaj)to, recapto ec.
Vedi p. 3850 , fine , 3900 , fine. Avvinare nel suo
senso proprio (vodi la Crusca in avvisare, § 1, 2, 3)
è verissimo continuativo di avvedere noi senso suo
primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo ita-
liano, il quale lia per participio avvisto o avveduto,
non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di ad-
videre, il quale verbo oggi non si trova nella ottona
latinità. Puoi vedere la p. 3034. Trovasi però nolla
bassa il verbo advidere in senso di avvertire che io
credo metaforico, (2844) e in questo e simili sensi il
verbo advimra e avisare. Vedi il glossario Gang. Anello
i francesi e gli spaglinoli, cho non hanno il verbo
avvedere, hanno aviser e avisar, ma l'usano in quei
sensi metaforici no' quali l'usiamo anello noi. Nel
senso proprio nel qualo egli è più dirittamente con-
tinuativo del suo verbo originale advidere non credo
eh.' egli si trovi so non nella nostra lingua, e princi-
palmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche
avvistare, od equivale a un di presso ad avvisare, nel
senso proprio, o nel più simile a questo. Vedi p. 3005.
Advidere dovette propriamente significare adspicere,
oeidòB advertere, e quindi anche animuw, advertere
(nell'esempio che ne porta il glossario non mi ri-
solvo s' ei voglia dire animadvertere o commonere,
corno il glossario spiega). Nel qual senso avvisare,
preso nel significato proprio, è suo vero continuativo,
osprimondo la stessa azione, ma più durevole. Si può
dir simile ad adspectare. Noi non usiamo advidere
so non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in
significato simile ai sopraddetti o che questo sia re-
lativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo
che considera e conosce. Olii vuol ridere o nuova-
mente vedere quanti spropositi abbia fatto dir la poca
(2844-2845-2846) pensieri
33
notizia finora avutasi della formazione do' verbi (2845)
latini e latino-barbari da' partieipii o supini d'altri
verbi, vegga la bella etimologia di advimre cho dà
l? Hickesio presso il Cango noi glossario. Vedi la Cru-
sca anche in avvieamento, § 3 e in awistttwa (29 giu-
gno, mio di natale, 1823). Vodi p. 3019.
* Vantano che la lingua tedesca è .di tale e tanta
Capacità o potenza, che non solo può, sempre che vuolo,
imitare lo stile e la maniera di parlare o di scrivere
usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia autore,
in qualsivoglia possibile genero di discorso o di scrit-
tura: non solo può imitare qualsivoglia lingua, ma
può effetti voiiiCuilG trasformarsi in qualsivoglia lingua.
Mi spiego. I tedeschi 'hanno traduzioni dal greco, dal
latino, dall'italiano, dall'inglese, dal francese, dallo
spaglinolo, d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di
Lopo, di Oalderon oc, lo quali non solamente conser-
vano (secondo che si dice) il carattere doli' autore e
del suo stilo tutto intero, non solamente imitano, espri-
mono, rappresentano il genio e l'indole della rispet-
tiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola poi-
parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni,
all' ordino preciso (2846) delle parole, al numero dolio
medosime, al metro, al numero e al ritmo di ciascun
verso o membro di periodo, all' armonia imitativa, alla
cadenza, a tutte le possibili qualità estrinseche come
intrinseche cho si ritrovano nell'originale: di cui per
conseguenza elle non sono imitazioni, ma copio cosi
compagno coni' è la copia d : un quadro di tela fatta
in tavola, o d'una pittura a fresco fatta a olio, o la
copia d'una pittura fatta in mosaico, o tutt' al più in
rame inciso colle med esimissime dimensioni del quadro.
tìo questo è, che certo non si può negare, resta
solamente che si spieghi con dire che la lingua todo-
sca non ha carattere proprio, o elio il suo proprio ca-
rattere si è "di non averne alcuno oltre i cui limiti
S2
PBNSEBBX (2846-2847-2848)
non possa passare, il che viene a dir lo stesso. Che
una lingua per ricca, varia, libera, vasta, potente, pio-
glievole, docile, duttilissima ch'ella sia, possa rice-
vere, non solo l'impronta di altre lingue, ma, per cosi
dir, tutte intiere in se stossa tutto le altre lingue;
eh' olla si rida della libertà, della infinita moltiplicata,
della immensità della lingua greca, e dopo averla tutta
abbracciata ed ingoiatone tutte lo innumcrabili forme,
ella si trovi ancora tanta capacità come per lo in-
nanzi, o possa ricevere e riceva, sempre che vuole,
tutte le forme (2847) delle lingue lo più inconciliabili
colla stessa greca (che con tante si concilia) e fra loro;
dello lingue teutoniche, slave, oriontali, americano, in-
diane, questo, dico, non può umanamente accadere, se
non in una lingua che non abbia carattore; non è ac-
caduto alla greca eh' è stata ed è la più libera, vasta e
potente e la più diversissimamente adattabile di tutte
le lingue formate elio si conoscono; non è accaduto e
non accade, che si sia mai saputo o si sappia, a nes-
sun' altra lingua perfetta di questo mondo.
Io doteranno il mio ragionamento cosi. Ogni na-
zione ha un suo carattere proprio e distinto da quello
di tutto le altre, come lo ha ciascuno individuo, e tale
che niun altro individuo so gli troverà mai perfetta-
mento uguale. Ogni lingua perfetta è la più viva, la
più fedele, la più totalo immagine e storia del carat-
tere della naziono che la parla, o quanto più ella e
perfetta tanto più esattamente e compiutamente rap-
presenta il carattere nazionalo. Ciascun passo dulia
lingua verso la sua perfezione è un passo verso la
sua intera conformazione col carattere do' nazionali.
Ora domando io: i tedeschi non (2848) hanno carat-
tere nazionale ? corto che 1' hanno. Porse non ancora
sviluppato, di modo, ch'essendo tuttavia informe, è
capace d'ogni configurazione, o non ben si distinguo
da quollo degli altri popoli ? Anzi sviluppatissimo,
perché la civiltà loro è già in un alto grado, l'orso
(2848-2849)
l'EKSlEKI
cosi vario, cosi sfuggevole, cosi pieghevole, cosi adat-
tabile ad ogni sorta di qualità, ch'esso abbracci tutti
i caratteri delle altre nazioni, e a tutti questi si possa
conformare? tutto l'opposto, porche il carattere della
Dazione tedesca è benissimo marcato e cosi costante,
che forse il suo difetto ó di piegare alla roidewr, a
una certa rigidezza e durezza, e di mancare un poco
troppo di mollezza e pieghevolezza. Ma quando anche
fosse appunto il contrario (come sarebbe fino a un
certo sogno negl' italiani), a me basterebbe ohe la na-
zion tedesca avesse pure un qualunque carattere, che
offrisse abbastanza tratti di distinzione per non po-
torio confondere con un altro, e molto meno con qualsi-
voglia altro. Or dunque se la nazione tedesca ha un
carattere proprio, so essendo civile non può non averlo,
se tutte le nazioni civili lo hanno, e non possono man-
carne, (2849) la lingua tedesca s'ella è formata, e più,
s'ella è perfetta, dev'essere una fedelissima e com-
pleta immagine di questo carattere, e per conseguenza
avere aneli 'essa un carattere, e determinato e costante,
o tale che non si possa confondere con quello di un'al-
tra lingua, né ella possa ammettere il carattere di
un'altra lingua, ancorché simile a lei, né molto mono
scambiare il suo proprio carattere con questo. Ma la
lingua tedesca, senza far violonza alcuna a se stessa,
ammette le costruzioni, lo forine, lo frasi, l'armonia,
non solo delle lingue affini, non solo delle setten-
trionali, ma delle più alieno, ma delle antichissime,
delle meridionali, delle formate e delle informi, di
quelle' che appartengono a nazioni per costumi, per
opinioni, per governi, per costituzione corporale, por
climi, per leggi eterne della natura dispartissimo, ed
oziandio contrarissimo al carattere proprio o costantis-
simo e certissimo della nazion tedesca, insomma di
tutto le possibili lingue passate e presenti e per cosi
dir futuro. Dunque la lingua todosca non è formata,
non è determinata, e molto meno perfetta.
Lkoi'audi. — Panieri, V. S
PENSIERI
(28+9-2830-2851)
Parlando dell'adattabilità o pieghevolezza, e della
varietà e libertà (2850) di una lingua, bisogna distin-
guere l'imitare dall'agguagliare, o rifare le cose dalle
parole. Una lingua perfettamente pieghevole, varia,
ricca e libera, può imitare il genio e lo spirito di
qualsivoglia altra lingua, e di qualunque autore di
ossa, può emularne e rappresentarne tutte le varie
proprietà intrinseche, può adattarsi a qualunque ge-
nere di scrittura, e variar sempre di modo, secondo
la varietà d'essi generi, o dello lingue e degli autori
che imita. Questo fra tutte le lingue poi-fotte antiche
e moderne potò sovranamente fare la iingna greca, e
questo fra le lingue vive può, socondo me, sovrana-
mente la lingua italiana. Perciò io dico che quésta e
quella sono piuttosto ciascuna un aggregato di più lin-
gue che una lingua, non volendo dire ch'elle non abbiano
un carattere proprio, ma un carattere composto o capace
di tanti modi quanti lor piaccia. Questo è imitare,
corno chi ritrae dal naturale noi marmo, non mutando
la natura del marmo in quella dell'oggetto imitato;
non è copiare né rifaro, uomo chi da una figura di
cera ne ritrae un'altra tutta (2851) compagna, pur
di cera. Quolla è operazione pregevole, ancho por la
difficoltà d' assimulare un oggetto in una materia di
tutt' altra natura; questa ò bassa o triviale porla molta
facilità, che toglie la maraviglia; e in punto di lin-
gua è dannoso, perché si oppono alla forma o natura
ed essenza propria ch'olla o ha o dovrebbe avere. Imi-
tando in quel modo s 5 imitano le cose, cioè lo spirito ec.
delle lingue, dogli autori, dei generi di scrittura; imi-
tando alla tedesca s'imitano le parole, cioè le forme
materiali , le costruzioni , 1' ordino de' vocaboli di
un'altra lingua (il che una lingua perfetta, anzi pure
tonnata, non dee mai potei' faro,, né può por natura
fare) e probabilmente s'imitano queste, e non le cose;
cioè non s'arriva ad esprimer l'indole, la forza, la
qualità, il genio della lingua e dell'autore originalo
(2851-2852-2853) pensieri
(benché protendano di si), appunto perché in un'altra
e diversissima lingua so ne imitano, anzi copiano lo
parole: e madama, di Stael ancora è di questo senti-
mento in un passo, che ho recato altrove, della prima
lettera alla Biblioteca Italiana, 1810, n. 1. (2852)
Una traduzione in lingua greca fatta alla ma-
niera tedesca, una traduzione dove non s' imita, ma
si copia, o vogliamo dire s'imitano le parole, doven-
dosi nelle traduzioni imitar solo lo cose, si è quella
de' libri sacri fatta da' Sottanta. Ora, la medesima lin-
gua greca, quella cosi immensamente pieghevole e
libera, nondimeno, percioch' ella è pur lingua formata
e perfetta, riesco in quella traduzione (fatta certo in
antico o buon tempo) affatto barbara o ripugnante a
se stessa, e non greca, e di più, quantunque noi non
possiamo per la lontananza do' tonipi o la scarsezza
delle notizie grammaticali ec. e la diversità de' co-
stumi o dell'indole, ìieppur leggendo gli originali
ebraici, pienamente giudicare e sentire qual sia il
proprio gusto do' medesimi, e il vero genio di quella
lingua, nondimeno possiamo ben esser certissimi cho
questo gusto e questo genio non ò por niente rappre-
sentato dalla vorsion de' Settanta, che non è quello
dio noi vi sentiamo leggendola, che non ve lo sentirono
i greci contemporanei o posteriori, e eh' ella insomma
fu ben lontana dal l'are ne' greci lo stesso effetto, né
di gran lunga simile, neppure analogo a (2853) quello
che facevano ne' lettori ebrei gli originali '). Oh' è
appunto il fine che dovrebbero avere le traduzioni, e
che i tedeschi pretendono di pienamente e squisita-
inente conseguire col loro metodo. Aggiungasi dopo
) Seppure la lingua ebraica ha genio o ultra indolo elio quella ili
non averne veruna. E certo la lingua ebraica, por essere informe, può forse
esser bene rappresontata o imitata con una traduzioni! in qualsivoglia lin-
gua, elio por esser troppo esatta sia aneli' essa informe. 11 che non acca-
dranno in vet un altro caso. Vedi la p. 2903, 2911), (ine - 2913. Vedi anche
una giunta :l queata pagina uellu p. 2913.
36
PENSIERI
(2853-2854)
tutto ciò che la traduzione de' Bottali ta, barbara por
troppa conformità estrinseca coli' originale, non le è
di gran lunga cosi scrupolosamente od onninamente
conforme, come le vantate traduzioni tedesche agli
originali loro.
Una lingua perfetta che sia pienamente libera ec.
collo altre qualità dotto di sopra contiene in so stessa,
per dir cosi, tutto le lingue virtualmente, ma non mica
può mai contenerne neppur una sostanzialmente. Ella
ha quello che equivale a ciò che le altre hanno, ma
non già quello stesso precisamente che le altre hanno.
Ella può dunque colle sue forme rappresentare e imi-
tare l'andamento dell'altro, restando però sempre la
stessa, e sempre una, e conservando il suo carattere
ben distinto da tutte; non già assumere l'altrui forme-
per contraffare, l'altrui andamento; dividendosi e mol-
tiplicandosi in mille lingue, e mutando a (2854) ogni
momento faccia e fisonoinia por modo che o non si
possa mai sapere e determinare qual sia la sua propria,
o di questa non si possa mai fare alcuno argomento
da quelle eh' ella assume , né in queste raffigurarla.
Ella è cosa più cho certa e conosciuta che i po-
poli meridionali differiscono per tratti essonzialissimi
e decisivi di carattere da' popoli settentrionali e gli
antichi da' moderni, per non dire delle altro seconda-
rie suddivisioni e suddift'erenze nazionali caratteri-
stiche. Ella è cosa ugualmente inconcussa cho il ca-
rattere di ciascuna lingua perfetta si è precisamente
quello della nazione che la parla, e viceversa. La
stessa verità è indubitata e universale intorno alla
letteratura. Or dunqne cho una lingua settentrionale
possa senza menomamente violentarsi né differir da
se stessa, non solo imitare, anzi copiare, il carattere,
ma assumere indifìoron temente le forme, l'ordine, le
costruzioni, le frasi, l'armonia di qualunque lingua
meridionale come di qualunque settentrionale, che una
lingua moderna possa altresi lo stesso indilìoronte-
(2854-2855-2856) pensieri
87
monte con qualunque lingua antica (2855) siccome con
qualunque moderna; questo in rerum natura, e se i
òrinoipii della logica universale vagliono qualche cosa
ne' nasi particolari, è impossibile quando questa lin-
gua sia veramente formata e determinata, o molto pili
nella supposizione che sia perfetta. Questo medesimo,
oltre di ciò, secondo tutte le regole e teorie specula-
tive della letteratura, secondo tutti gl' insegnamenti
dati finora dall' osservazione e dall' esperienza in que-
sto materie, è contraddittorio in se stesso, non essondo
possibile che una tal lingua, contraifaeendo esattamente
10 forme e frasi proprie e speciali d'un' altra lingua
caratteristicamente divorsa, no rappresenti il genio e
11 carattere, e'ne conservi lo spirito, essendosi sempre
voduto no' casi particolari, e confermato colle ragioni
speculative generali, che da tal causa risulta contra-
rio effetto, e contrario totalmente, anche trattandosi
di lingue ailini e somiglianti di carattere. Ma la-
sciando questo, e tornando alla prima impossibilità,
dico che il carattere proprio di una lingua è sempre
per sua natura esclusivo degli altri caratteri, siccome
lo è quello (285G) di una unzione, quando sia formato
e completo; che quello eh' è impossibile alla nazione
ò impossibile alla lingua: cho so la nazione tedesca
non può assumere per natura il preciso e proprio ca-
rattere do' francesi, se non può assumerne i costumi
e le maniere senza nuocere al carattere nazionale, senza
guastarsi, senza rendersi affettata e dimostrarsi com-
posta di parti contraddittorie, e produrrò il senso della
sconvenienza, dello sforzo, della violenza fatta alla
propria natura, cosi la lingua tedesca, s' ella ha già
forma propria e certa, s'ella ha carattere, s'ella e per-
fetta, non può per natura contraffare c ricopiare il
Carattere delle altre lingue, non può senza gl' incon-
venienti sopraccennati e anche maggiori, rinunziando
alle l'orme proprio, assumere nelle traduzioni lo formo
delle lingue straniere.
38 rasssnfrà (2856-2857-2858)
Astraendo da tutto questo, dico olio in una lingua
la quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni
di quel genere, che i tedeschi vantano, meritano poca
lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca (2857)
come una cera o una pasta informe e tenera, è disposta
a riceverò tutte le figure e tutte le impronte che se
le vogliono dare. Applicatele lo forme di una lingua
straniera qualunque e di un autore qualunque. La
lingua tedesca le riceve e la traduzione è fatta. Quo-
st' opera non è gran lode al traduttore perché non ha
nulla di maraviglioso; perché né la preparazione della
pasta né la fattura della stampa oh' egli vi applica
appartiene a lui, il quale per conseguenza non è che
un operaio servile e meccanico; perché dov'è troppa
facilità quivi non è luogo all' arte, né il pregiò del-
l' imitazione consiste nell' uguaglianza, ma nella simi-
glianza, né tanto è maggiore quanto l'imitante più
s'accosta all'imitato, ma quanto pili vi s'accosta se-
condo la qualità della materia in cui s' imita, quanto
questa materia è più degna; e quel che è più, quanto
v'ha più di creaziono nell'imitazione, cioè quanto più
v'ha di creato dall'artefice nella somiglianza cho il
nuovo oggetto ha coli' imitato, ossia quanto questa so-
miglianza vien più dall'artefice che dalla materia, ed
è più nell'arte (2858) che in ossa materia, e più si
deve al genio che alle circostanze esteriori. Neanche
una tal opera può molto giovare alla lingua, né ser-
vire ad arricchirla o a variarla ó a formarla e de-
terminarla, si perdi' ella deo perderò queste impronto
e queste forme colla stessa facilità con cui le riceve
e por la ragione stessa per cui cosi facilmente le ri-
ceve; si perché queste nella loro moltiplicifcà nocciono
1 una all' altra, si scancellano e distruggono scambie-
volmente e impediscono l'ima all'altra l' immedesi-
marsi durabilmeuto o connaturarsi colla favella; si
perché questa moltiplicità immoderata è incompatibile
con quella tal quale unità di carattere che dee pur
(2858-2859-2880) raiNsrrciii
89
avere mia favella ancorché immensa, massimo eli' elle
sonn diversissime l' une dall' altre, o ripugnano scam-
bievolmente; si perdio gran parte di questo formo 0
impronte essondo allenissimo o affatto contrarie al ca-
i-attore nazionale de' tedeschi, o a quello della loro
letteratura, non possono se non nuocere alla lingua
e guastarla, o impedire o ritardare oh' olla prenda e
fortemente (2859) abbracci o ritenga quella sola forma
e carattere che le può convenire, cioè quella che sia
conformo al carattere della nazione e della nazionale
letteratura, senza la qual forma perfettamente deter-
minata e da loi perfettamente ricevuta por cos tanta-
mente conservarla, essa lingua non sarà mai compiuta
e perfetta.
Conchiudo che so i traduttori tedeschi (grandis-
simi letterati e dottissimi, e spesso uomini di gonio)
fanno veramente quegli effetti che ho ragionati nel
principio di questo pensiero, il ohe pienamente credo
quanto alle cose ohe appartengono all' estrinseco ; se
con ciò non fanno alcuna violenza alla lingua, nel che
credo ascili ma assai meno di quel elio si dice; se in-
somma la lingua tedesca quanto allo qualità sopra di-
scusso è tale quale si ragiona, nel cho non so che mi
credere, la lingua tedesca, come applicata assai tardi
alla letteratura, e come appunto vastissima e immen-
samente varia, si per l'antichità della sua origine, si
per la moltitudine dogi' individui, e diversità de'popoli
i-In' la parlano, non è ancora né perfetta né formata e
sufficientemente (2860) determinata; ch'ella è ancor
troppo mollo per troppa freschezza; eli'' ella col tempo
e l'orso presto (per l'immenso ardore, attività e infati-
cabilità letteraria di quella nazione) acquisterà quella
sodezza e certezza che conviono a ciascuna lingua, e
quella partieolar forma e determinato e stalli! carattere
e proprietà, e quel genere di perfezione ohe conviene
a lei, con quel tanto di unità caratteristica eh' è inse-
parabile dalla perfezione di qualunque lingua, siccomo
pensieri (2860-2861-2862)
di qualunque nazione, o forse di qualunque cosa, se
non altro, umana; che allora ella potrà essere e sarà
liberissima, vastissima, ricchissima, potentissima, pie-
ghevolissima, capacissima, immensa, e immensamente
varia, pari in queste qualità astrattamente considerate,
e superiore eziandio, se si vuole e so è possibile, non
che all'italiana ma alla stessa lingua greca, ma non per
tanto olla non avrà o non conserverà per niun modo
quelle facoltà stravaganti e senza esempio divisate di
sopra; oquello traduzioni ora lodate e celebrate piuttosto,
cred'io, per gusto matematico che letterario, piuttosto
come curiosità che come opere di genio, (286 1 ) piuttosto
corno un panorama o un simulacro anatomico o un au-
toma, che come una statua di Canova, piuttosto misu-
randolo col compasso, che assaporandole e gustandole
e paragonandole agli originali col palato, quelle tradu-
zioni, dico, parranno ai tedeschi non tedesche, e nel
tempo stesso non capaci di dare allo nazioni la vera
idea degli originali, aliene dalla lingua e proprio di
un'epoca d'imperfezione e immaturitìt (29-30 inujnio
1823).
* In ciascun punto della vita, anche mìl' atto del
maggior piacere, tinche nei sogni, P uomo o il vivente
è in istato di desiderio, e quindi non v' ha un solo
momento nella vita (occetfo quelli di totale assopi-
mento e sospensione dell' esercizio do' sensi e dì quello
del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel
quale l' individuo non sia in istato di nona, tanto
maggiore quanto egli o per età o per carattere e na-
tura o por circostanze mediate o immediate o abi-
tualmente o attualmente, è in istato di maggior sen-
sibilità ed oaereizio della vita, e viceversa (30 giu-
gno 1823). Vedi p. 3550. (2862)
* L amicizia, non elio hi piena ed intima confidenza
tra' fratelli, rade volte si conserva all' entrar che que-
(2862-2863)
l'KNKlKUl
LI
sti fanno noi mondo, ancorché siano stati allevati
insieme, ed abbiano esercitato 1' estremo grado di que-
sta confidenza sino a quel momento; e di più seguano
ancora a convivoro. E pure se l' uomo è capace di
pi oua ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe con-
servarla perpetuamente verso qualcuno , questo do-
vrebb' essere verso i fratelli coetanei ed allevati con
Ini nella fanciullezza: e dico dovrebb' ossero, non per
forza naturale della congiunzione di «angue, la qualforza
è nulla o immaginaria, e niente ha che fare nel produr
quella confidenza o nel conservarla, ma per forza natu-
rale dell'abitudine e dell' abitudine contratta nel primo
principio delle idee e dolio abitudini dell'individuo,
e nella prima capacità di contrarle, e conservata tutto
quel tempo clie dura la maggioro intensità e dispo-
sizione ed ampiezza e il maggior esercizio di questa
capacità. Nondimeno quosta confidenza cosi fortemente
stabilita e radicata si perdo per la varietà che s' in-
troduce nel carattere de' fratelli mediante il commer-
cio cogli altri individui della società. Ma se questo
(2863) commercio non uvesse avuto luogo, quella con-
fidenza sarebbe stata perpetua, coni' ella non è mai
cessata fino a quell'ora. Glie vuol dir ciò, se non che
nei caratteri degli uomini novantanove parti son
opera doliti circostanze? e per diversissimi eh' essi'
appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in
questa diversità non è opera della natura , so non
una parte cosi menoma ohe saria stata impercettibi-
le? È quasi impossibile il caso elio tutte le minute
circostanze e avvenimenti che incontrano all' un
de' fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro,
o sieno uguali a quello che incontrano all'altro, an-
corché postogli da vicino. Questa diversità diversifica
due caratteri che parevano affatto, ed orano, quasi af-
fatto, compagni, e coni' ella è inevitabile, cosi la di-
versificazione di questi caratteri nella società non
può mancare. E ho detto lo minute circostanze, con-
l'fiXSIJi]; '
(28G3-2864)
tentandomi di questo, perché anche la somma di coso
minutissime basta a produrre grandissimi c visibi-
lissimi effetti sul? indole dogli uomini, massime allora
eh' eglino sono principianti del mondo, o che in essi
la capacità delle abitudini o delle opinioni, ossia la
formabilità dell' indole, è ancor (2864) molta e grande
e in buon essere (30 giugno 1823).
* Diminutivi che nelle lingue figlie della latina
sono passati in luogo dei positivi latini, del cho ho
ragionato altrovo, sia che questi positivi non esistano
più in esse lingue, sia cho questi diminutivi sieno
latti loro .sinonimi. Fratello, sorella , figliuolo italiano,
orilla da ora, cioè estremità, spaglinolo. Vedi il glos-
sario, il Porcellini o i dizionarii spagnuoli quanto
alle tre suddetto voci italiane (30 giugno 1823). Orec-
chia, oreja, orcillr, da aurìcula, pepóhia, aveja, abeilte, da
apinda o apecula, come vulpémld. Flagellimi s'usava
anche nell'antico latino pel suo positivo flagrwn,
siccome ora flagello, jléau oflagrum è perdute ; scalpello
e sealpro. Vedi p. 2974, 3001, 3040, 3264.
* .Proprietà comnne alle tro figlie della lingua la-
tina. Aggiungere pleonasticamente por idiotismo, e per
proprietà di lingua V aggettivo plurale altri o altre ai
pronomi plurali nos e vos. Noi altri, voi altri; nmts
autres, vous autres; nosotros, vosotros. Nel che l' ita-
liano e il francese è libero di farlo o non farlo, lo
spagnuolo no ec, E presso i primi, massimamente i
francesi, par che quest' nsaàssa sia del dir familiare.
Ella è pi-esso noi della scrittura familiare, frequen-
tissima nel discorso domestico, e quasi continua in
quello del volgo, corno nello spagnuolo, quando voi ha
significato veramente plurale. Vedi p. 2891 (30 ma-
gno 1823). V °
* Nostri plurali femminini o neutri, in a, da nomi
(2864-2865)
PENSIERI
di singolaro mascolino o neutro, del elio lio detto al-
trove in proposito dalla voce plurale fusa por fusi
usata da Simmaco. Le peccata, le foia, le calcagna, U
cervella, le fila, le oigliu. Questi plurali corrispondono
(2865) ai rispettivi latini. Le risa : risum. i non si
trova né nel Porcellini né nel glossario. Cosi né
anclie le anclla ; anellum i. Le latta. Trovasi leetum i
in Ulpiano. Vedi il glossario in lectumstratum (30
giugno 1823).
* Altronde per altrove (del che ho detto, se non
erro, parlando di un lnogo di Floro o dolio spagnuolo
donde, cioè nude, detto, come ora si dice, per ubi)
trovasi in Giusto de' Conti, son. 22 e canz. 2, st. tilt.,
in Angelo di Costanzo, son. 44, e in molti altri, si
osso, come onde o donde per dove ec, massime ne' tre-
centisti, in alcuno do' quali espressamente mi ricordo di
aver trovato uno o più di tali esempi ultimamente.
E vedi la Crusca in altronde. § 2 ec. (30 giugno 1823).
* Buppeditare se viene da sub e pedes (vedi Por-
cellini), donde si ha ,tolta quella giunta e desinenza
ix tiare? To lo credo fatto da qualche participio,
e però continuativo d' altro verbo perduto (1 luglio
1823). Cioè da suppedio-suppeditus, conformo a impedio-
impeditm, expedìo, praapedio ec. che pur vengono da
pés, ma non hanno il t nel tema, perché non son
fatti da participio È da notare però che l'idi sup-
pedito è breve, e in suppeditus sarebbe lunga. Ma
credo v'abbiano molti altri esempi di questo, che l'i
de' verbi in ito sia sempro breve, ancorché fatti da
participii in itus lungo. Certo da' participii in atus
si fa ito breve. Vedi la p. 3619.
* Gli spaglinoli usano l' avverbio luego, cioè subito,
nel principio delle enumerazioni o massime quando
S' hanno a recare più d'un argomento, o recasi il
44
PESSjlBRJ
(28G5-2866-2867I
primo, dicono luego, che vale primieramente. Pretto
grecismo. I greci (2866) in casi simili, e spocial-
mente noi caso predetto, usano elcgantoinonte aòuv.a,
cioè subito, in principio di periodo, come gli spa-
gnuoli lueyo, ed anche luego al punto in stilo più
familiare o burlesco. San Giovanni Crisostomo, o chiun-
que sia l' autore dei due sermoni sulla preghiera
iwpl itpojsoxvj;, nel semi. 2, che incomincia 5xt (aèv naviò?
à-jadoò, sul principio : Eàft&s toìvov sxetvo (lé^tatov ifspì
s'-iceìv s'/ojaev, St; s. ).. Vedi Piato, de Ecp., T, t. IV,
p. 82, voi. ult., dove «ì>n%«non serve all'enumerazione,
ma vale ecco qua subito, pronto e come senza cercare o
senza andar lontano. E cosi i greci spessissimo. Noi
dirommo te prima cosa avverti., prima di tutto, in
primo luogo; i latini primum o principio (vedi Geor-
giche, II, 8, IV, 8) ec. (1 luglio 1823).
:; Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha,
por cosi dire, il suo vocabolarietto proprio. Ciò vaio
non solamente in ordine all'usare ciascun d'essi
sempre o quasi sempre quelle tali parole per espri-
mere quelle tali cose, laddove gli altri altre n' usano,
o in ordine ai loro modi e frasi familiari e con-
suete, ma eziandio in ordine al significato delle
stesse parole o frasi che anche gli altri usano, o che
tutti usano. Perocché chi sottilmente attende e guarda
negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi
presso un autore hanno un senso, e presso un altro
un altro, e ciò non solamente trattandosi di autori
vissuti in diverse epoche, il che non sarebbe strano, ma
eziandio di autori contemporanei, e compatriota ancora,
come, per esempio, di Senofonte e (2867) Platone, i
quali furono di più condiscepoli, e trattarono in parte
le stesse materie, e la stessa socratica filosofia. Dico
che il significato delle parole o frasi in ciascuno
autore è divergo: ora più ora meno, secondo i termini
della comparazione c secondo la qualità d'osse pa-
(2867-2868-2869) pensieri
45
role; c per Io più la differenza ò tuie che i poco ac-
corti ed esercitati non la veggono, ma ella pur v 1 è,
benché picciolissima. Un autore adoprerà sompre una
parola nel significato proprio, e non mai no' metafo-
rici. Un altro in un significato simile al proprio, o
forse proprio ancor esso, e non mai negli altri sensi.
Un altro l' adoprerà in un senso traslato, ina con
tanta costanza, che. occorrendo di esprimere quella
tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella e,
adoprando questa voco, non la piglierà mai in altro
senso, ondo si può dire che presso lui questo signi-
ficato è il proprio di quella voce (come accade che i
sensi metaforici de' vocaboli pigliano spesse volte as-
solutamente il luogo del proprio, che si dimentica), e
questo caso è molto frequento. Un altro adoprerà quella
voce colla stessa costanza, o con poco manco, in (2868)
un altro senso traslato, più o mono diverso, e tal-
volta vicinissimo o similissimo, ma che pur non è quel
medesimo. E tutta questa varietà (con altre molte
differenze simili a queste) si troverà nell'uso di uno
stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso av-
verbio in autori contemporanei o coinpatriotti. Alla
qua! varietà, corno ben sanno i dotti in questo ma-
torio, è da por mentei assai, e da notar sempre in
e insinui autore, massimo no' classici, qual' è il preciso
senso in cui ogli suole o sempre o per lo piti ado-
perare ciascuna parola o frase. Trovato c notato il
quale, si rendo facile la intelligenza dell' autore e se
ne penetra la proprietà o l' intendimento vero dolio
espressioni e sì spiegano molti suoi passi che senza
la cognizione del significato da lui solito d'attribuirsi-
a certe parole non s'intenderebbero; com'è avvenuto
a molti interpreti o grammatici oc. che, spiegando
questi passi secondo l' uso ordinario di quello tali
parole o frasi, o non considerandole in quello parti-
colare eh' osso sogliono aver presso quello scrittore, o
inni hanno saputo (2869) strigarsi o si sono ingan-
Mi
(2869-2870)
nati. E cosi accade anche ai ben dotti, elio però non
ahbiano pratica di quel tale autore e vi sieno prin-
cipianti o elio no leggano qualche passo spezzato.
Certo non prima si arriva a pienamente e propria-
raento intendere qualunquo autor greco elio si abbia
prosa pratica, del suo particolar vocabolario e de' si-
gnificati di questo : e tal pratica è necessario di farla
in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo
lungo intervallo a leggere : benché in alcuni costa
più in altri meno, e in certi costa tanto, che solo i
lungamente esercitati e familiarizzati colla lozione
e studio di quel tale autore sono capaci di bene in-
tenderne e spiegarne la proprietà delle voci e frasi,
e della espressione si generalmento, ai in ciascun
passo. Insomma, questi soli conoscono la sua grecità,
la quale, si può dire, in ciascuno autor greco più o
meno è diversa (1 luglio 1823).
* Non è maraviglia che la scrittura francese sia
cosi diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto,
a tutte lo ortografie delle lingue figlie della latina, ed
anche, almeno in parte, della inglese o della tedesca,
servi (2870) di modello e di guida la scrittura latina,
che apparteneva all'unica letteratura che si conoscesse
quando prima si cominciarono a formare e regolare le
moderno ortografie, anzi era altresì quasi l'unica scrit-
tura nota, perché le lingue moderne poco fino allora
s'erano scrìtte, e quando conveniva scrivere s'era pol-
lo più scritto in latino, benché barbaro. Ora la pro-
nunzia francese è tra le pronunzie delle lingue nato
dalla latina quella che più s' è discostata dal latino.
Ond' è che la lingua francese è altresì fra quoste lin-
gue la pili diversa dalla madre, cosi di spirito, di co-
sti-unioni , di maniere, di frasi, o di assai vocaboli,
corno di suoni. *) Egli è certissimo che da principio
la lingua francese si pronunziava noi modo stesso che
') Vedi pag. 2989
(2870-2871-2872)
PENSIERI
47
ai scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nello pa-
role francesi corrispondeva al valore che avevano nel-
1' alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano.
I versi che si trovano ancora de' poeti provenzali,
pronunziavansi indubitatamente in quosto modo o con
poca differenza, come ne fa fede la loro misura, le loro
rimo ec. che si perderebbero l'ime c l'altra pronun-
ziando quei vorsi altramente o alla moderna. Ma le
irruzioni e i commerci de' settentrionali (2871) avendo
cangiata la pronunzia francese, o diradata di vocali
e inspessita di consonanti o resa più aspra, e cosi di-
versificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo
della francoso mutata eziandio la provenzale (vedi
Perticari, Apologia di Dante, cap. XI, principio, p. 206,
fino — 208, princìpio, e cap. XII, principio, p. 111-112
e ivi line, p. 119 e cap. XVI, fine, p. 158), la lingua
fiancose si allontanò sommamente dalla latina, si per
li nuovi vocaboli e forme che acquistò da popoli che
non avevano mai parlato latino, si per li suoni di cui
vesti o con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti
dal latino ch'ella avova, e cho tuttora conserva. Quindi
poi- due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir
diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè
perche, non avendovi scrittura nota o almeno scrit-
tura appartenente a lingua lotterata e formata, fuori
della latina, l'ortografia francese dovette pur pren-
dere, come l'altre, por suo modello la latina, ed es-
sendo già la pronunzia francese fatta diversissima
dalla latina, e certo assai più diversa cho non erano
o non furono poi la spagnuola e l'italiana, (2872) per-
ciò la scrittura, francese dovette molto più differire
dalla pronunzia, cho non differiscono la spagnuola e
l'italiana che presero e usarono lo stesso modello. Se-
condo : questa diversificazione e sottentrionalizzaziouc
di pronunzia avendo avuto luogo o acquistato forza
ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più tro-
vandosi che i poeti di -cui la Provenza abbondò seri-
48
pensieri (2872-2873-2874)
vevano il provenzale, stato già tutt'uno col francese,
od allora tuttavia analogo, ina più latino (vedi Per-
ticari, 1. e, p. 107, principio) lo scrivevano, dico, in
modo similo ed analogo al latino; ed essendo cosi vero
come naturale ohe i primi che scrissero qualche cosa
in francese riguardarono ai provenzali e so li pro-
posero por guide, come quelli eli' erano in quei tempi
i più dotti forse della Francia ed avevano contribuito
a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dolio
scrivere in volgare; da tutto questo ne segui che la
scrittura francese si accostò al latino, come ci si ac-
costava la scrittura o pronunzia provenzale; ci si ac-
costò dico, non ostante che la pronunzia francese ogni
di più se ne scostasse, con che si venne anche a sco-
stare dalla scrittura. (2873)
Perciocché veramente si può dire che la pronun-
zia francese da so, o inovondosi essa, si allontanò e
divise dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla
pronunzia. Benché veramente sia debito do' buoni e
filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunquo
modo tonga sempre dietro alla univorsalo pronunzia,
regolata o riconosciuta per regolare; e non far che la
scrittura stia forma, c lasci andare Questa tal pronunzia
al suo viaggio, senza darsene alcun pensiero. Ma que-
sti discorsi non si potevano né fare ne seguire in quei
primi e confusi tempi e ignoranti, né, dopo fatti, sono
stati effettuabili, avendo preso piede l'usanza contraria
in modo che non si potea più scacciare, né mutare;
abbisognando olla di troppe e troppe grandi ed essen-
ziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi acciden-
tali come no abbisognò e ne ricevette l'usanza italiana.
Da tutto questo cagioni e andamenti a' è seguito
questo curioso effetto: che la lingua francese scritta
è talora uguale, spessissimo somigliante alla latina,
o quasi sempre riconoscihìle por figlia (2874) di lei;
ma la lingua francose pronunziata, eh' ò pure insomma
quanto diro la vera lingua francese, n' è tanto di-
(2874-2875)
PENSIERI
49
versa, anzi dissimile, ohe appena si può riconoscere
questa figlino] anza. E degli stessi vocaboli latini ohe
i francesi conservano, e sono assaissimi, gran parte
e forse la maggiore, pronunziati, riescon tali, elio
Spiarci ancloli nella sola pronunzia non s' indovinerebbe
mai la loro origine, né mai si piglierebbero por nati
da tali o tali vocaboli latini; laddove questa origine
si riconosco a prima vista leggendo quei vocaboli
scritti. E veramente se la scrittura francese non fosse
cosi diversa dalla, pronunzia, io credo che oramai la
notizia della più parto dello origini di questa lingua
si moderna sarebbe perduta, o in preda delle disser-
tazioni, delle congetturo o delle favole. Mentre ella si
conserva per solo benefizio della diversità e irregola-
rità anzi assurdità della scrittura, e in questa si con-
serva chiarissima e certissima e visibilissima, o tanto
più visibile quanto la scrittura più è diversa dalla pro-
nunzia, perché tanto più è simile al latino. Tanto si è
mutata la lingua latina sulle bocche francesi per l'uso
avuto co' popoli settentrionali, e forso ancora in gran
parte ancor prima, per la natura del (2875) clima stesso,
oltre la origino settentrionale di molti do' medesimi
parlatori, cioè de' Franchi di origine. Quantunque né
l'origine gotica o longobardica di molti italiani, né la
vandalica né la moresca di tanti spagnuoli abbiano
prodotto di gran lunga effetti simili o proporzionati a
questi nelle lingue di questi due popoli.
Somiglianti condizioni dovettero certamente con-
tribuire a fare che le scritture inglese e tedesca siano
riuscite meno conformi alle pronunzie, e queste meno
corrispondenti al valor delle lettere no' rispettivi alfa-
beti, e meno costanti nelle regolo medesime loro' (clic
hanno, almeno in francese, tante eccezioni e sottecce-
zioni) che non sono lo scritture e pronunzie italiana e
spaglinola. Perocché 1' alfabeto inglese è il latino, e il
todesco originarianionto non è altro: laddove le loro
lingue sono e originariamente e presentemente tutt'al-
Ltoi-aiiui. — Pemieri, V. 4
PENSIERI (2875-2876-2877)
tre ohe la latina. Di più, ossondo pervenuta la lettera-
tura e scrittura latina, e 1' OSO oziandio della medesima,
anello dove non pervenne l'uso di questa loquela, corno
in Inghilterra o in Germania,, anche i tedeschi e gl'in-
glesi regolarono primieramente o abbozzarono la loro
ortografia e scrittura col solo o quasi solo et empio della
latina avanti gli occhi. E dopo preto piede le prime
regole o i primi abbozzi non si è più in caso di distrug-
gerli, e (2876) neppur si è tempre in caso di fare che
il resto, scimene ancor non sia fatto o non abbia preso
piede, non gli corrisponda; almeno non sempre si può
riuscire ad impedirlo porfottamente, o a far che, impe-
ditolo, la macchina cammini bene e regolarmente e
senza imbarazzi e contrapposizioni e disturbi ec, disor-
dini, effetti contradittorii ec. (1 luglio 18215),
* L' nomo si rassegna a soffrire passivamente o a
non godere, ma ninno si rassegna a faticare invano o
senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da
nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz' al-
cun frutto. Quindi è cho dall' abito dolla rassegnazione
sompre nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inat-
tività, e filialmente pigrizia e torpidozza e insensibi-
lità, e quasi immobilità (2 luglio 1823).
* Dico altrove che l'uso di crear giudiziosamente e
parcamente nuovi composti fu mantenuto dagli autori
latini, e massime da' poeti, non solo fino alla intera
formazione della lingua e della letteratura, ma nello
stesso secolo d'oro della latinità e nel tempo che
immediatamente gli succedette. Di quest' uso parla
Macrobio, (2877) Saturri., VI, 5, mostrando cho alcuni
epiteti composti che si credevano fatti da Virgilio
sono di fabbrica più antica. Segno qui alenili compo-
sti latini de' quali, eh' io sappia, non si trova esempio
nogli autori antoriori al secolo aureo. E saranno tutti
composti di due nomi, 1' uno sostantivo e V altro
addiottivo, o tutti e due sostantivi ec. o d'un nome
(2877-2878)
PENSIERI
5.1
0 d' un verbo o participio o verbale ee. che sono i com-
posti più rari; lasciando stare i nomi o verbi oc, com-
posti con preposizioni o particelle, de'qualj si potrebbero
addurre al caso nostro esempi in troppa abbondanza.
AUpes, aliger, arrnifer, armipotens, armisomts, aeri-
pes, aerisonus, aerifer , aerifodina , aeqitaevus , aequi-
distans presso Frontino ed altri, algificus presso Gellio,
aequilatio presso Vitruvio, aequilateralis presso Censo-
ri no. aequilaterus presso Marziano Capella, aequilibris
oc, aequinoctium, della qual voce vedi Pesto appo il
Forcellini in aequidiale, aequipedus ed aequìpolUns
presso Apuleio ; aequipondiwm presso Vitruvio, aequi-
erurius presso Marziano Capella, altieinctus, altitonanti,
altitomis, altivolus presso Plinio il vecchio, anguitenena,
aegisonus, auricornutt, aurifer, aurifex, awifodina
presso Plinio il vecchio, aurigi-Ma, auriger, aaripigmen-
fum presso Plinio e Vitruvio, (2878) auriscalpiuni
presso Marziale e Scribonio, bijuguts e bijugis (ma qui
c'entra un avverbio) o altri tali composti con bis,
equifhus ed equisètum presso Plinio il vecchio, fon-
tigena» di Marziano, ignigena, ignipotenti, ignipes, gemel-
lipara, mellifer, mellificium, ■mellificua presso Colnmella,
mellifico o melligenus presso Plinio il vecchio, nidifico
presso il medesimo e Colnmella, nidijivium presso Apuleio,
nidifieus presso Seneca tragico, nodifer e simili, nvbifer,
nubifugus di Colnmella, ftoriparus d'Ausonio, securifer,
securiger, nubivagus presso Silio, nubigena (in proposito
del quale è da notare che Macrobio nel citato luogo, che
mei itad'ossor veduto, volendo provare come molti epiteti
creduti fatti da Virgilio sono pi u antichi, recita quel
dell Emide, VIII,293. Tu nubigenas, invicte, Umembres,
e mostra che bimembri* è di Comincio, ma di nubigena
non dice niente, sicché pare che lo concoda per mo-
derno, e veramente nel Porcellini non se ne trova
esempio se non d' autori posteriori a Virgilio, il quale,
appresso il medesimo Forcellini, in questa voce non è
citato), penatiger d' Ovidio, solivagus presso il Porcol-
52 pensieri (2878-2879-2880)
lini, i cui esempi son tolti da Cicerone, e presso il mede-
simo Cicerone, de republica, I, 25, p. 70, edizione roma-
na, 1822; ed altri tali moltissimi (2 luglio 1823). (2879)
* Notate la radice monosillaba di caput (Forcel-
lini, oeps), secondo quello che ne ho congetturato
altrove, e dì tutti i suoi derivati, ancora in dein-CEVS^)
della qual voce vedi Porcellini (2 luglio 1823).
■ i: Che il v, presso gli antichi latini non sia stata
che una spocie di aspirazione, o non una consonante,
e che tale in verità sia la sua natura, di tener cioè
dell' aspirazione o di svanir sovonte dalle voci se-
socondo T indole delle varie pronunzie. Dionigi d' Ali-
carnasso, Arrhaeol. roinan., 1. I, c. 35, parlando del-
l'origino del nomo Italia. 'KXXAvoios Si ó Aiogiós ip-rjotv
'Upr/.vXéa tàs r-f|puovoD [ioù; àraXauvovta sì? Wp-jo;, Hv.r/ri
v.i ostai}» SaiJ.aXi; àKOQV.ipi'f]W.<; xvj? frf«Xf>,« »V 'lutXi'/ Sy»
■fiS-f) ipéu-fiuv òi-jjps tt|v èxt-f]v, nòti tòv (j.e™?ù Siavr)4«fi.E-
vo? nóptìv rfji *a).ó.50Ti; sì; SkueXUrt ^(fi'.xeto , Ipó^svov
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icoXXò'. tò jcapanX*rj<3tov jtétcovìHv è v '> [). « T « v. Da Ubo
noi diciamo levo, e 2>eo, tolte la lettera v, beve e 6ee,
beendo , bere, da 6euer«, tolto il », e contratto beere in
bere ec.Vcdi il Corticclli, e il Buommattei, Trattalo. XII,
c. 40, fine. Cosi da debeo devo e deo, devi e dei ec. Vedi i
grammatici e 1' uso volgare. Dal latino pavo diciamo
pavone e paone, paonessa, paoncino ec. Diciamo altresì
pavonaszo e paonazzo. E in cento altre parolo leviamo
(2880-2881-2882) feksiew
53
0 inseriamo il v a nostro piacere, o eli' esso veramente,
secondo 1' etimologia, appartenga loro o che no, e tal-
volta l' inseriamo sempre o costantemente ili voci a cui
esso non appartiene, o lo passiamo pur sempre e costan-
temente sotto silenzio in quelle voci dov'esso dovreb-
b'eseere ed era. E in questo parti colare v'è frequentissima
discordanza tra le pronunzie e dialetti dello provinole,
città, individui d'Italia, tra gli antichi autori e i
moderai, tra 1' antico parlare e il moderno, tra il
moderno parlare e lo scrivere ec. (2 luglio 1823). (288 1)
* Traduzione del passo soprascritto di Dionigi d'Ali-
carnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera al
Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi
trovato dall'Abate. Mai. Milano, per Giovanni Silvestri,
.1817, li. 30-31. «Ma Ellanico Lesbiése dice che Ercole
menando ad Argo i buoi di Gorione, e già trovandosi
in Italia, poiché un Ime sbrancatosegli della greggia
fuggendo corse tutta la spiaggia, e notando per lo
strotto del mare in Sicilia arrivò; esso Ercole inter-
rogando i paesani, dovunque nel correr dietro al bue
passava, se alcuno lo avesse veduto; e quelli poco
intendendo la favella greca, e per gl'indizi ch'Ercole
ne dava chiamando ossi quoll' animalo nella nativa
lor lingua Vitulo (come anch' oggi si chiama) : accadde
cho dal vocabolo di quella bestia, tutto il paese eh' ella
corse fosse nominato Vitulia (il greco dice ch'Ercole
medesimo cosi nominollo, e dice Vitalia). Che poi il
nome col tempo si mutasse nella prosente forma, non
è da maravigliare, quando molti de : vocaboli greci co-
siffatte mutazioni patirono » (2 luglio 1823). (2882)
* E notabile corno lo spagnuolo atar abbia conser-
vato il proprio o primitivo significato di apiarc, cioè
legare, significato che, benché proprio e primitivo, pur
non è molto frequente negli autori latini, anzi un
esempio che faccia veramonte al caso non mi pare
:>.(
i>K.\siT!ni
(2882-2883)
che sia so non quello d' Amuiiano nel Porcellini,
voc. aptatUS. Ora Ammiano è pur di bassa latinità.
Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo
uso di questo verbo, più degli scrittori eleganti, che
l'hanno piuttosto adoperato metaforicamente. Del resto,
se mai si potesse dubitare che il verbo optare venisse
da aptus, il cui proprio senso è legato ec, e che Pesto dice
ossore participio di apo, lo spagnuolo atar, che vale
legare, congitmgere, finirebbe di mandare a terra qua-
lunque dubbio. Il nostro aliare, adattare, adapter ec.
ha por proprio il significato metaforico ordinario di
apto, adapio ec. Vedi noi Porcellini osoinpi di cooptare,
coaptalio, waptatuts (òto/àicitlv), in senso di collegato ec,
tutti di 8. Agostino, il quale certo non pigliava que-
sto buono e primitivo uso di tali parole da' più anti-
chi padri della scrittura latina, né dagli scrittori auroi
che non le usano, ma dal parlar del volgo, che tut-
tavia conservava quel significato, come ancora lo con-
serva in Ispagna. E cosi dite di Ainmiano. (2883) È
chi sa che aptare in questo senso non sia l'origine di
attaccare, attacher oc? Vedi il glossario Gang, princi-
palmente in attachiare, cioè vincìrc ec. Ma siccome
questa voce si trova massimamente usata nelle scrit-
turo latino-barbare d'inglesi e scozzesi, cosi non voglio
contrastare che la sua origine non possa probabilmente
essere teutonica ec. come si afferma nel medesimo
glossario, voc. 2, Tasca (3 luglio 1823). Vedi p. 2887.
• Io provo presentemente un piaoere, io vorrei che
la condizione di tutta la mia vita, di tutta l' eternità,
fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo mo-
mento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai né può
dire di buona fode, noppur per un solo momento, nep-
pure nell'atto del maggior piacere possibile. Ora, se egli
in quel momento provasse in verità un piacer presente
e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli do-
vrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre,
(2883-2884-2885) pensieri
55
perché il fine dell'uomo è il piacere; e quindi desiderare
che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel mo-
mento, o di più desiderare di viver sempre, per som prò
godere. Ma egli è certi esimo che (2884) nessun uomo
ha concepito né formato mai questo desiderio nemmeno
nel punto più felice della sna vita, e nemmeno durante
quel solo punto: egli ò certissimo che non ha concepito
ne mai concepirà questo desiderio per un solo istante
neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini
ha provato o è per provare il massimo po:. sibilo piacere.
E ciò perché nommeno in quel punto ninno mai si trovò
pienamente soddisfatto, né lasciò né sospeso ponto il
desiderio, né anche la speranza di un maggiore ed assai
maggior piacere. Con che egli non venno in quel punto
a provare un vero e predente piacere. Bensì dopo pas-
sato quel tal punto l'uomo spesso volte desidora che
tutta la sua vita fosso conforme a quol punto, ed esprime
questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona
fede. Ma egli ha il torto, perché ottenendo il suo de-
siderio lascerebbe di approvarlo ec. (8 luglio 1328).
* Quanta barbarie avesse introdotto anche noli' or-
tografia italiana durante il quattrocento l'eccessivo mo-
dellarla sulla latina, onde, se si fosse perseverato in (2 8 85)
quella forma, anche noi scriveremmo diversissimamente
da quel che pronunzieremino, come si può credere che
allora avvenisse, se pur la pedanteria di quoi tempi, o
piuttosto i pedanti (perché di tutti non ò credibile), non
pronunziavano come scrivevano ; vedi alcuni esempi
nelle Lezioni sulle doti di una cólta favella dell'Abate
Colombo, Parme, 1820, lez. HI, p. G9-70 e il C'omento
di Pico Mirandolano sopra, la Canzone, d' amore di Gi-
rolamo Eenivioni con essa Canzone ec., Venezia, 1522,
dove si scrive sempre ad per a avanti consonante,
anche seguendo il d, come ad dir (st. 1 della canz.,
v. fi, a carte 41); advenire ec. Durò questo pessimo uso
anche noi principii del cinquecento. Nel citato libro
r>c>
(2885-2888)
si scrive tribola per tavola, egloge per egloghe ec. oc,
oltre philosopho, admìrando, cui pena por appena ec.
(3 luglio 1823).
¥ Alla p. 2821. Altresì farebbe a «posto proposito
il verbo nido is detto (se però mai fu detto, e vedi
il Porcellini) per nido as, (o nictàr aris), il quale è
verbo continuativo fatto dall' inusitato niveo, e dimo-
stra si l'antica esistenza di questo nìveo. eh' è anche
dimostrata dal suo composto conniveo, si il participio
o supino di quello o di questo, che ora ne manca, il
quale anche (2886) sarobbo dimostrato dal nome nktvs
MSj secondo i ragionamenti da me fatti altrovo, se
però quosta ò voce vera, e se, e quando significa
nictatio, e non nisus. Perocché anche nifins pare ch'ella
possa significare, secondo il Porcellini, e in quosto
senso ella servirebbe altrcsi a comprovare V antico
participio nictus di nitor en$, usato già in veco di
nixus e di nisUs; dal quale nictus di nitor nasce al-
tresì' il continuativo nietari, il quale io credo total-
mente diverso da meto di nìveo, o non tutt'uno, come
vuole il Porcellini ec, giacché i due significati non
hanno la monoma analogia, e d'altra parte l'origino
dell'uno e dell'altro verbo è pianissima, porche, se v ! è
conniveo, dovette esservi nìveo, e facendosi da conniveo
eonnixi deve farsi nel supino connictutn, come da dixi
dietum, e quindi da niveo nietum, e quindi nietare ;
e quanto a nictor di nitor il Porcellini medesimo non
la metto in dubbio. Anzi io credo che nicto as sia di
niveo solamente, e niciov aria solamente e propria-
mente di nitor, benché in duo luoghi dì Plinio trovisi
nietari per connivere ec., il che potrebb' essere fallo
degli scrivani (e infatti in un di quei luoghi v'e chi
legge nietare), e fallo eziandio dello stesso Plinio che
confondesse l'uno coli' altro verbo, osscndo ambedue
antichi e poco al suo tempo usati : nel qual proposito
vodi quello che dicono il Perticari noi Trattato degli
(2886-2887-2888) pensieri
57
Scrittori del Trecento, e Giordani nella Lettera a Monti,
voi. IL par. 1, della Proposta, sopra la voce fastus ee.
Del resto da (2887) nixus di nitor (che forse non è
differente da nictus por ninna ragione grammaticale,
ma per sola diversità di pronunzia) si fa altresi il
suo continuativo, cioè nixor aris *) (3 luglio 182;5).
f Alla p. 2883. So ad alcuno non paressero suffi-
cienti le testimonianze che si hanno dell'esistenza del-
l' antico verbo apo, consideri che si la forma estrinseca
si la significazione vera e propria e il primitivo uso
di aptus sono al tutto di participio. E se aptus è par-
ticipio, dovrà esser participio di apo o d'altro tal verbo,
quale eh' essi vogliano, dal qnal verbo dovrà esser ve-
nuto fOT-ecj e optarti. So non vogliono che aptus sia par-
ticipio, sarà pur sempre incontrastabile che opto sia
stato fatto da aptus. E se questo è, dunque fimsiv, eh' è
lo atesso che apio, sarà pur venuto da aptus, o so non
altro da una radico simile a questa, la quale sarà stata
nella lingua madre della greca e della latina, e conser-
vatasi nella latina, cioè nell'aggettivo aptus, si sarà
perduta nella greca. Che aptus venga da Sntetv o da
SitttoSw, come vuol Servio un aggettivo da un verbo, è
fuor d'ogni vorisimiglianza, perché è contrario (2888)
ad ogni usata norma di derivazione, si por la forma
materiale comparata dei detti verbi e del detto agget-
tivo, si per la ragiono grammaticale, analogia ec. che
in tal derivazione ninna si troverebbe. Che poi aptus
venga da optare (come Perticai! credova che arso ve-
nisse da arsure: vedi p, 2688) sarà anche meno verisi-
mile a quelli cl>e avranno ben considerata la nostra
teoria della formazione do' vorbi in tare da' participi!
in tus, i ichiarata ed esposta e provata con tanti esempi.
A tutti i quali parrà, molto pi l'i probabile cho optare sia
un continuativo fatto da un participio in tus ec. che
') Vengasi la p»g. 2929.
58
pensieri (2888-2889-2890)
non può esser so non aptus (il quale, come ho detto, ha
tutto quanto del participio) o questo da apo ec. Che
aptus sia sincope di aptatus, il qual participio esiste,
ed è ben diverso da aptus, è cosi credibile come che
jarhts di jacio sia sincope di jactatus participio di
jactare, e altri tali spropositi, molti de' quali sono
stati detti e creduti per non aver posto mente alla
formazione do' verbi ec, che noi illustriamo (4 lu-
glio 1823). (2889)
* Da i£u>, dor. etc, èSuj, o da sZo\>.m, fut, é&o0|jwt|
st'diìu, o cosi da Zhoc, so; o da £8pa a? scdes e simili.
Da àlooi saltus (4 luglio 1823).
* A quello che altrove ho detto circa la formazione
dei verbi in no o in uor dai nomi verbali, o qualun-
que, della quarta declinazione, o dai nomi della se-
conda desinonti in wts, e circa i nomi in uosus fatti
da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi prae-
sumptuosus, praesumptuose ; presuntuoso, pvesontuoso ,
prosuntuoso, prosontuoso, presuntuósamente, presuntuo-
sità oc; presumptuoso ec. Bpagnuólo, da sumptus us
Mutuar arìs da mutuus. A quel che in questo proposito
ho dotto di monstruosus, mostruoso ec. aggiungi che
gli spaglinoli in verità dicono momtruo, non monstro,
ondo ben si deduce, non monstrosus, ma monstruosiis.
Quaestuosus da quaastus us. Ructuo, ructuosus da ruetus
us. Eructuo, vedi l'orcellini in Eructo, fine. Evacuo da
vacuus, e cosi vacuo as (4 luglio 1823). Vedi p. 3263.
* Dico altrove delle sillabe latine che non sono
dittonghi, e pur sono composte di più vocali. Tra
queste è notabile la seconda sillaba di eheu, la qual
voce non è trisillaba, ma dissillaba, benché composta
di tre vocali e benché cu non si conti fra 1 dittonghi
latini. ') (2890) Ed è dissillaba non per licenza o
l ) Niui'twui-cburiwB.
(2890-2891)
59
figura poetica , ma per regola, e trisillaba non po-
trebb' essere o non senza licenza. Cosi dite di hei, heu,
auge, eugepae, ungane us oc. ec. (i luglio 1823).
* Non è fuor di ragione né arbitrario e gratuito
quello eh' io dico circa la formazione doi continuativi
da' participi! in atus, che mutano l' a in ì ec. Peroc-
ché questa mutazione è ordinarissima e solenne nelle
derivazioni e composizioni della lingua latina. Onde
da copio, frango, tango, sapio, facto, iacìo, tacco ec. ec.
si fa in composi/ione elpio, fringo oc, cioè, per esom-
pio, aeeipio, ejfdngo, attingo, insipienti, resipio, desipio,
affido, adjicio, conticesco, reticeo ec. e cosi nelle deri-
vazioni ec. Ancbo la c si muta in i: per esempio, da
teneo, sedeo, spedo, rego, lego ec. contmeo, insideo,
aspieio, corrigo, colligo ec. ') (5 luglio 1823).
* Ho detto altrove che presso Omero il nome •Jjp.ap
serve a una perifrasi, corno JìLa , in modo' che por se
stesso non vuol dir nulla, ma significa quello che
occorre unitamente al nome eoi quale è congiunto ;
per esempio, visupov 4)|tap, il di del ritorno, vuol diro
il ritorno & non (2891) altro. J_ J fù esempi di quest'uso
d'Omero vedili nell'iredeas vocabulorum Homeri del
Sobero, in ^«p cuoiuov (5 luglio 1823). Vedi p. 2995.2
* Alla p. 2864, margine. È indubitato, secondo me,
che quest' uso nacque dall' altra pessima usanza, in-
trodotta nel latino fin dai primissimi tempi dell' im-
pero, di dar del voi, alle persone singolari. Onde è
probabile che allora, o poco dipoi, o eerto nel vol-
gar latino quando ohe sia, s' introducesse questo co-
stume di aggiungere l'aggettivo altri al voi e al noi
(giacché il noi anche negli ottimi tempi in latino e
in greco si usava in senso singolare) quando questi
') Puoi vednro la p. 2843.
60
rKNSiEEi (2891-2892-2893)
pronomi avevano ad aver senso plurale, por distin-
guerli da quando avevano ad avorio singolare. E cosi
introdotto quest' uso nel volgar latino passò in tutto
tre le lingue figlie. E con ragione; perché in esse
ancora si mantonova o si mantiene quelli altra pessima
usanza die, secondo me, lo produsse. Stante la quale.
1' uso di questo idiotismo è quasi necessario per evitar
mille equivoci e dubbi si nello scrivere, si nel par-
laro, quando molte persone sono presenti o (2892)
quando nello scrivere si suppongono ec. (come si vede
tuttodì por esperienza, massime nello scrivere, dove
per iscrupolo di esser troppo familiare, e perché non
si sa piò la lingua ec. ormai generalmente si trala-
scia questo idiotismo). Infatti, noi noi parlar l'ami-
liare non lo abbandoniamo quasi mai, né gli spa-
gnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spaglinoli
tacciono Yotros se parlano a persona singolare, o di
so stessi singolarmente, ne' quali casi dicono vos e
non. Lo tacciono ancora quando il vos e il nos fa
ufficio dolio nostre particelle o pronomi ci e vi, come
rtOUS e vom in francese. Del resto, in nessuna delle
tre linguo si direbbe voi altri o noi altri in senso
singolare. E notabile che V uso di nos in senso sin-
golare fu più proprio delle lingue antiche che dello
modorno, nelle quali anzi, quanto al parlare o allo
scrivere familiare, a cui solo spetta il noi altri, esso
uso è intieramente abolito. Vedendosi dunquo elio pur
tutte tre queste linguo usano familiarmente questo
idiotismo di noi altri senza abbisognarne punto poi-
distinzione, conformasi eh' osso idiotismo derivi dalla
lingua latina, la quale ne avea bisogno per distin-
guere il nos plurale dal nos singolare (5 luglio 182B).
Altri è qui ridondante come 5Uo? in greco ec, del elio
spesso altrove. (2893)
* A proposito del vario significato e del figurato
uso de' tempi dell' ottativo in latino, dolio scambio
(2893-2894) pbksibki 81
d'ossi tempi tra loro, e con quelli d'altri modi oc,
vedi Orazio, Epist., I. 1. 2, v. 3, 4, dovo peccem, rno-
fer stanno per peecarmn, morarer (5 luglio 1823). *)
Circa quello ohe altrove ho detto de' participii
guaesitm e quaeritus e del verbo quaeritare ed fran-
cesi hanno querir da quaerere, e quMer, anticam. quester,
da quaesitus di quaesere, onde noi chiesto o gli spa-
gnuoli quisto. Chéri è il querido degli spagnuoli da
quaeritus di quaerere . E chérir è lo stosso quercr spa-
glinolo nel significato, che questo pure ha, di voler
Itine. Il nostro cherere è il quaerere latino, in signi-
ficato però di volere, come lo spagnuolo gwerer, e an-
dino di domandare, come il nostro chiedere eh' è il
latino quaerere (vedi p. 2995), siccomo il suo participio
chiesto è il latino quaesitus, per sincope quaestus, Acqué-
Hr e conquérir francesi, adquirir spagnuolo sono i
latini acquirere e conquirere. Acquèter, antic. acquester,
o 1' antico conquèter o conquester ì ) francesi, lo spa-
gnuolo conquistar e l' italiano acquistare (2894) e con-
qyàstare sono continuativi fatti da acqxiisitus o con-
quisiti, detratta la seconda ì (vedi il glossario se ha
nulla in tutto queste e simili voci) (5 luglio 1823).
Questa detrazione fatta, come si vede, in tante
voci, o derivate o composte da quaesitus, o che non
sono altra voce se non questa medesima, conferma
la mia opinione che da situs participio di sum si fa-
cesse stare, detratta la i, come appunto da conquisitus
conquistare, o cosi da quaesitus quisto e chiesto ec. La
qual detrazione non è solamente propria dolio lingue
moderno (dico cisca questo vocabolo quaesitus ap-
punto), giacché la stessa lingua latina ne fa liso nella
*) Cosi Virgilio, Georg., IV, 11G-7.
! ) Uahptertr, malquerido, malquixto, «ioo v „i era 0 mlìtl(1 maU .
t-hesta, Mhesta nutaattTi, per «Meo* tfeludtre rtchttto -
intinerere, rfeMmn, cioè in;ui,en:, ,-rr,uirrrr ™„ ( .„ ilsi aeqtuu ;
r«fs per «collii-ere, con altro schiso.
62
voce quaestus us, la quale, comò altrove ho dato per
regola circa tali verbali, e formato appunto da quaesi-
tus, e dovrebbe regolarmente dire quaasitus us, la
qual vooo ancora si trova effottivanionte. Siccome vi
sono le voci quaesitìo, quacMtor, quaesìtura, di cui sono
contrazione quaestio, quacstor, quacstum, voci fatte da
quelle per detrazione della. /, come per tal detrazione
son fatte quaestorius, quacvtuosus ec., boncbó non si
trovi quaesitorius, (2895) quaeMtuoxus ec. Cosi da po-
siiùs, postus, repostus oc. ec. E della soppressione della
i in moltissimi parti cipìi latini, come docitus-doctvs,
hgitus-legtus-lectus ec, soppressione divenuta, lino ab
antico, comune, anzi univorsalo, vedi ciò che dico altrove.
E vedi a questo proposito la p. 2932 e 299 1-2. 3032, sogg.
* Del rosto, il nostro antico suto è lo stesso che lo
spagnuolo sido e che il latino situs da me supposto:
è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la so-
lita affinità fra la lettera u c 1' del che ho detto
più. volte, e fra l'altre p. 2824-5, principio (e se n'ha
appunto un esempio nolla voce quaesumus di quaesere,
detta per quaesimus. Vedi Forcellini). Stante il quale
scambio e affinità si può credere o che gli antichi
latini dicessero cosi sutus come situs (maxumus o ma-
ximus, lubem e libens) o prima l'ima di queste, e poi
col tempo V altra, o che l' italiano antico mutasso la
pronunzia latina facendo «veto da situs, o viceversa lo
spagnuolo facendo sido da sutun. giacché questo scambio
tra u ed i ebbe luogo frequontemente anche nei prin-
cipii delle moderne lingue (vedi Pertieari, Apologia
dì Dante, c. XVI, vors'o il lino, p. 156) siccome lo ha
tuttodì (5 luglio 1823). Vedi p. 3027.
* Quanto sia facile l' imparare a parlare, quanto
poco tempo debba esser corso innanzi che il genere
umano (2896) arrivasse primioramonte ad accorgersi
di avere organi capaci di formare e articolare varii
(2896-2897) pensieri 68
suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali
suoni, o finalmente a crear col loro diverso accozza-
mento una serie di voci di convenuta significazione,
che fosse bastante a potersi scambievolmente oommu-
nicaro i proprii sensi, e più ancora innanzi che il ge-
nere umano arrivasse a portar questa serio al punto
di poter ossero chiamata lingua e di servire a tutti
i bisogni doli' espressione; si consideri nel muto. Il
quale, convivendo pur tutto giorno con uomini i quali
parlano ed usano una lingua già perfetta, non arriva
mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima
/delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avore or-
gani capaci di suoni articolati: giacché, seppure egli
manda fuori alcun snono di voce, questo è mono ar-
ticolato e meno vario che non sono le voci delle be-
stie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda.
E egli possibile ohe se la natura aveva espressamente
destinato l'uomo a parlare, so, come dico Dante, opera
naturale è eh' uom favella, essa natura lasciasse tanto
da fare all' uomo per (2897) arrivare ad eseguire que-
st' opera naturale, o debita alla sua essenza, e propria
di essa, quest' opera senza la quale egli non avrebbe
mai corrisposto alla sua natura particolare, né all'in-
tenzione della natura in generale, o condannasse espros-
samento tanta moltitudine e tante generazioni d'uomini,
quante dovettero passaro prima che fosso trovata una
lingua, altre a non sapere né potere in alcun modo
faro, altre a non poter faro sò non se imperfettissi-
mamente, quello che 1' nomo doveva pur sapere e po-
tere eompiutamonto faro per sua propria natura ? E
poiché l'uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai
del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il
principale e più necessario istrumento col quale egli
ha operato od opera quollo che si chiama suo perfe-
zionamento ; (ì se d'altronde tanto è por ciascuna cosa
il ben essere, quanto l' esser perfetta, né si dà per
veruna specie di onti felicità voruiia senza la porfo-
pensieri (2897-2898-2899)
ziono conveniente ad essa specie; è egli possibile che
se questa che si chiama poi-lezione dell' nomo fosse
veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa na-
tura noi formar l'uomo (2898) l'avesse posto cosi mi*
raliil mori tri lontano Hallo perfeziono da lèi voluta e
destinatagli, ed a lui necessaria, die egli non avesse
ancora né potesse avere nemmeno nna prima idea del-
l' istrumonto, col quale dopo lunghissimi travagli e
lunghissimo corso di generazioni e di secoli la sua
specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna
parte di questa perfezione?
Certo, se quosto è voro, perché diciamo noi che
l'uomo è per natura il più per-fetto degli esseri ter-
restri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre re-
lativa a quella tale specie in che ella si considera.
Ma paragonando pur 1' uomo colle altro specie di que-
sto mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice,
come non si dovrà sostenere che l'uomo ò por natura
la più imperfetta Hi tutte le coso? Perocché tutte lo
altre cose hanno da natura la perfezione che loro si
conviene, e però sono tutte naturalmente cosi perfette,
come debbono essere, elio è quanto dire perfettissimo.
Solo 1' uomo, secondo il presupposto cho abbiamo fatto,
è por natura cosi lontano dallo stato che gli conviene,
che più, quasi, non potrebb' essere, e quindi, laddove
tutte (2899) l'altre cose sono in natura perfettissime,
l'uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie
umana, lungi da esser la prima in natura, è anzi l'ul-
tima di tutte le specie conosciute.
Questa conseguenza deriva dal supposto principio:
ma come il principio è falso, cosi essa non è vera; e
questa proposizione, considerata ancora in se sola, si
riconosce agevolmente por f'alsissima. Poiché, relati-
vamonte all'ordine delle cose terrestri, l'uomo, come
l'essere più ai tutti conformabile, è il più perfetto
di tutti.
Se però nel detto ordine delle coso terrestri, con-
(2899-2900-2901)
"PENSIRltl
65
(adorando la perfeziono di ciascheduna specie in modo
comparativo, cioè relativamente 1' mia all' altra', non
vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero una
scala parte ascendente e parta discéndente. E nella
estremità inferiore dolla prima porre gli esseri affatto
o più di tutti gli altri in organi zza. ti. Indi, salondo lino
alla sommità, porre gli osseri più organizzati, fino a
quelli cho tengono il mezzo della organizzazione, della
sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il
sommo (2900) grado della scala, cioè della perfe-
zione comparativamente considerata, come quelli che
forse sono per natura i più disposti a conseguire La
propria particolare o relativa felicità, e conservarla.
Da questi in poi sempre discendendo, giù giù per gli
esseri più organizzati, sensibili e conformabili, porre
nell'ultimo e pili basso grado doli' altra parte della
scala l'uomo, come il più organizzato, sensibile o con-
formabile degli esseri terrestri.
Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o
ripiegando cosi la scala, troveremmo che l' uomo è
veramente nella estremità non dolla perfezione' (come
ci parrebbe so facessimo una scala sola o semplice e
retta), ma della imperfezione; e in una estremità più
f>assa ancora di quella olio è dall'altra parte dalla
scala. Perocché dalla comparativa imperfezione degli
esseri posti in quel grado, non ne seguo ai medesimi
alenila infelicità laddove all'uomo grandissima.
E voramente io cosi penso. L' uomo non è per
natura infelice. La natura non ha posto (2901) in lui
nessuna, qualità che lo renda tale per se medesima,
nessuna che tal qnal è naturalmente, si opponga da
ninna parte !tl suo ben essere; e però la natura diret-
tamente non ha prodotto l' uomo né infelice, né tale
e i ei debba necessariamente divenirlo. Perocché l'uomo
Potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro,
"te gli a it r i esseri si eonsei-vano nel loro, e conser-
Wiclocisi, sarebbe cosi felice, o cosi non infelice, come
Lhomuiii. - Penule)/., V. 1 «
pensieri (2901-2902-29031
gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando
nel naturale stato. Sicché la natura in ordine all'uomo
non ha violato per nimi conto né trapassato le sue
universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua
propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla
felicità che gli conviene, e nulla che por se lo sforzi
alla infelicità. Ma l'eccessiva o, diciamo meglio, la
suprema conformabilità e organizzazione dell' uomo,
che lo rende il più mutabile e quindi il più corrutti-
bile di tutti gli esseri terrestri, lo rendo eziandio per
conseguenza il più infelicitabile, benché non lo renda
per se stessa e naturalmente ini'elice, cioè lo rende il
(2902) più disposto a potersi, e più d' ogni altro es-
sere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi
dalla sua propria perfeziono e quindi dalla sua fo*
licita ; perdi' essa stessa confomiabilità umana è
più d' ogni altra disposta e facile a poter perdere
il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e
simili. Talché diffìcilmente l'uomo si conserva in ef-
fetto nel suo naturalo o primitivo stato, e però diffi-
cilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le
quali considerazioni, e stante appunto la somma con-
fomiabilità e organizzazione dell' uomo, metafisica-
mente considerata in ordine alla vera e metafisica
perfezione, diremo che l'uomo è il più imperfetto degli
esseri terrestri, anche per natura, in quanto però so-
lamente ella è naturale in lui una disposizione, mag-
giore che in qualunqu' altro essere a perdere il suo
stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione,
neppure in ordine all' uomo, si può trovare propria-
mente nella natura ; l' uomo non è imperfetto né in
natura, né per natura ; anzi, se volete, in natura e per
natura egli è il più perfetto degli esseri, ma (2903)
in natura e per natura egli è più di tutti disposto a
divenire imperfetto; e ciò per ragiono appunto della
somma sua porfezione naturale; come quelle macchino
o quei lavorìi compitissimi e perfettissimi, che per
(2903-2904)
PENSTERT
67
esser tali sono minutamente lavorati, e qiiindi deli-
catissimi, e per la somma delicatezza pili facilmente de-
gli altri si guastano, e perdono l'essere e l'uso loro.
Ma ad ossi pi trovano l'orse artefici che possono
ripararli, a noi, guasti e snaturati una volta, non si
trova mano che ci riponga nel primo stato (né da noi
medesimi siamo atti a farlo). Poiché né la natura ci
ripiglia in mano per riformarci, come 1' artefice il suo
lavoro sconciato, né altra potenza v' ha che ci possa
restaurare corno un nuovo artefice il lavoro altrui (6
luglio 1823).
* Alla p. 2815, margine. Auspico e suspicò, vedi
p. 3686. da spedo, sono come aedifico, vivìfico, sacri-
fico, amplifico , gratifico, veli-fico, significo , vocifieo (s s è
vero), magnifico, mellifico, e tali altri non pochi, da fa*
ciò, i quali hanno la forma e la coniugazione mutata
dalla loro origine o per esser fatti da nomi, come, per
esempio, aedifichtm, Sacrificium , unagnificus , ampli-
ficus '), ciré di Frontone, viv {ficus oc, o per accidente
e virtù della composizione, quando (2904) anche sieno
fatti direttamente dal verbo originale faeio. E notate
cho i composti di questo verbo, fatti con preposizione o
particella, non hanno questa forma, ma solo quelli
tatti con nomi ec. A ogni modo, siccome questi tali
verbi, se ben li" guardi , hanno per lo più un signifi-
cato continuativo, 8 ) giacché altro e meno è, per esem-
pio, mei facete, altro e più mellificare, si potrobbo forse
credorc che la loro inflessione in are mutata da quella
della terza coniugazione non fosso a caso né senza
ragione e che essi appartenessero alla categoria di
verbi della quale al presente discorriamo, cioè di con-
tinuativi appartenenti alla prima coniugazione , ma
non formati da' participii, e diversi da quelli che ne
1 ) Voggusi 111 pajf. 2998 a 3007.
) Lubrificare — Lucri/accre. Senefaccre — Hemfieare Italiano. Tm-
atfacore — Ludificare.
68
rEHSiETix (2904-2905-2906)
sono formati, comò noi caso nostro, da faeio facto, la-
ìic.facto ec, da spedo specto , suspeeto (a cui appartiene
mspectio ch'equivale a auspicio e dà cui il nostro .so-
spettare e ]p spagnuolo sospechar (come perito da pectm)
elio vagliono suspicari. Soupconner è quasi suspiciona-
re, da xoupeon, suspicio onis ec). Suspieo potrebbe an-
che essere fatto da suspicio is, il qual verbo trovasi appo
Sallustio in senso di sospettare, ed al quale appai-tiene
il participio Buspecius che vale per lo più sospetto, ag-
gettivo. E forse in questo senso si disse anche siispi-
cior erte, onde poi suspicor lt giacché trovasi swspectus
per sospettoso (cosi anehe in italiano sospetto) e Apu-
leio l'adopra (2905) espressamente coll'àccusativo, come
participio d'un verbo depononte, invece di suspicatn$.
Ma vedi la pag. 2841-2 (7 luglio 182B).
■J! Alla pag. 2809. Nelle nostre opere serie e buffe
l'effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere
serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener
quel personaggio, e quindi dal muovere quello illu-
sioni e far quegli offetti che faceva nelle tragedie
antiche : ond'è ch'esso riesce forse meglio nello opere
buffe, quanto all'effetto morale, giacché muove pure
all'allegria, e fa, come l'uffizio, cosi l'effetto che pro-
duceva nelle antiche commedie, né il muovere all'al-
legria, ch'è pure una passione, è piccolo effetto' mo-
rale. Laddove nelle opere serie esso non interessa
quasi che gli occhi e gli orecchi, e. ninna passiono,
ancorché menoma, nó desta né pur tocca. Ma questo
è pur troppo il general difetto di tutta l'opera, e mas-
sime della seria, e nasce dal far totalmente servir lo
parole allo spettacolo e alla musica, e dalla confes-
sata nullità d'esse parole, dalla qual necessariamente
deriva la nullità de'personaggi, e (2906) cosi del coro,
e quindi la mancanza d'effetto morale, ossia di pas-
sione; se non altro la molta scarsezza, rarità, lan-
guidezza e poca durevolezza dell'uno o doll'altra.
(2906-2907)
PENSIERI
69
Del resto, i pochi moderni che hanno introdotto
il coro ne' loro drammi regolari, come Racine nel-
l'JSster, non avendogli dato le condizioni ch'esso avea
negli antichi, niu.no o quasi niuno effetto hanno pro-
dotto. Ed anche la natura d'essi drammi, si moral-
mente parlando, e si anche matorialmonto (poiché la
scena si fingo per lo più in luogo coperto e chiuso,
con altre tali circostanze che restringono e impicco-
liscono e circoscrivono e depoctizzano lo ideo) , non
era adattata né al coro degli antichi né a's'uoi effetti.
Parlo anche dolle commedie, lo quali presso gli antichi
Si' supponevano per lo più o la più parte di ciascuna,
in piazza o no'porti, corno il Sudena di Plauto, o in-
somma all'aperto ec. Vedi p. 2999 (7 luglio 1823).
* In tutte le lingue tanto gran parte dello stile
apparti ono ad ossa lingua, che in veruno scrittore
l'uno senza l'altra non si può considerare. La magni-
ficenza, la forza, la nobiltà, l'eleganza, la semplicità,
la naturalezza, la grazia, la varietà, tutte o quasi
tutte lo qualità dello stile sono cosi legato alle cor-
rispondenti qualità della (2907) lingua, che nel con-
siderarle in qualsivoglia scrittura è ben difficile il
conoscere e distinguere e determinare quanta e qua]
parte di esse (e cosi dello qualità contrarie) sia pro-
pria del solo stilo, o quanta e quale della sola lin-
gua; o vogliamo piuttosto diro, quanta e qnal parte
spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale
dalle solo parole; giacché, rigo rosa ni onte parlando,
l' idea dello stile abbraccia cosi quello che spetta ai
sentimenti come ciò che appartiene ai vocaboli. Ma
tanta è la forza e l'autorità delle voci nello stile, che
mutate quolle, o le loro l'ormo, il loro ordine ec. tutte
o ciascuna dello predette qualità si mutano o si per-
dono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto can-
gia natura in modo. che più non è quello né si rico-
nosce. Veggasi la pag. 3397-9.
70
pensieri (2907-2908-2909)
Tutto ciò accade in tutte le lingue, fuorché nella
francese. Che veramente nella lingua francese lo stile
è formato quasi tutto dai sentimenti e dalle figure
che appartengono alle sentonze. E la diversità degli
stili, e quella delle qualità di uno stilo, non si può
considerare in essa lingua se non quanto ai sonti-
timenti, e non appartiene, non dipende, non (2908)
nasce se non da questi. Perocché, se ben si osserva,
quanto alle parole, e a tutto ciò che loro appartiene,
tutti gli stili de'francesi, si di diversi autori e scrit-
ture, si di una stessa scrittura o scrittore in diver-
sissime materie sono poco men che conformi.
E non è maraviglia, perocché dov'è pochissimo
luogo alla scelta delle parole e dell'ordine e com-
posizioni loro, quivi pochissima potrà essere la dif-
ferenza o tra gli stili di vari autori o di varie opere,
o tra le qualità di un medesimo stile in diverse ma-
terie e occasioni, per ciò che spetta alle parole. Le
quali non potendosi scegliere, non possono essere qua
eleganti, qua nobili, qua efficaci, qua grazioso, ma
sempre tali, o non mai. Tsé potendosi scegliore gli or-
dini e collocamenti delle medesime, non può nascere
dalla composizion do' vocaboli ora una qualità di
stilo ed ora un'altra, ma sempre una, perché sempre
una e niente variabile è ella medesima. Dico dalla
composizion de' vocaboli considerata in se, non in
quanto ai sentimenti eh' osprimono, perché in quanto
a questa parte la lingua francese è capace di ricever
varietà di stile dalla composizione delle pardo, (2909)
ma ben guardando si sente che questa varietà non
deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dallo
sentenze e figure loro.
Onde si può dire che la lingua francese non
avendo appresso a poco che uno stilo, lo scrittoi' fran-
cese, quanto alla lingua, non ha mai stile proprio, e
che, per quanto appartiene alle parole, lo stile di qual-
sivoglia scrittoi- francese non è suo, ma della lingua.
(2909-2910)
PENSIERI
71
E posi lo stile di qualsivoglia genere di scrittura non
è d' caso genere ma della lingua universale, e lo stilo
della poesia francese non è della poesia ma della lin-
gua, o lo stilo della prosa è quel della lingua, è quello
della conversazione, non è neppur proprio della prosa
più elio della poesia, anzi vedi in proposito la p. 3429.
Il che si può parimente dire della lingua ebraica,
nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo
alla scelta, benché, quanto allo composizioni delle me-
desime, forse v'avesse luogo un poco più che nella
francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e
quindi tutta poetica.
Effettivamente la differenza degli stili e delle
qualità di mi medesimo stile, quanto alla lingua, è
cosi minuta e cosi scarsa in francese, die un fore-
stiere, il quale benissimo la distinguerà negli scrit-
tori greci e latini, elio sono lingue morte, diffieil-
anente, anzi appena, secondo me, la distinguerà e
sentirà mai negli scrittori francesi . Né potrà mai ben
dire, questo scrittoro o questo passo è elegante, (2910)
questo dignitoso e magnifico, questo energico, questo
grazioso quanto alle parole, e questo no. Onde nasce
che, anche generalmente parlando, la differenza dello
stile, cioè del modo di esprimere i concotti, ché que-
sto è ciò che si chiama stile , è poco sensibile al
forestiere nella lingua francese ; certo assai meno sen-
sibile che nelle altre. Difficilissimo è ancora al fore-
stiero il sentir la differenza degli stili (in quanto
propriamente stili) francesi di diversi tempi (dico dal.
secolo di Luigi in poi), o comparando uno scrittoi'
d' un secolo a uno di un altro, o generalmente lo stile
di im secolo a quel di un altro. Ho dotto dal secolo
di Luigi, e intendo di quelli che in quel secolo scris-
sero bone, e che s' hanno ancora per buoni, e in quanto
siiauno per tali (corno Corneille) nella lingua ec.
Tanto più che nolla^espressione de' concetti, anche in
quella parto dello stilo che spetta allo sentenze, il
72
PENSIERI
(2910-291 1-3912)
modo degli scrittori francesi è più vario bensì che
nella parte delle parole, ma infinitamente meno vario
elio negli scrittori delle altre lingue, si per rispetto
delfinio scrittore e dell' un soeolo air altro, o dell'una
opera e dell' un genero di scrittura all' altra opera ri
all'altro genere, si per rispetto alle varie parti di una.
stessa opera o genere, e alle varie gradazioni o qua-
lità, di im medesimo stile. E basti dire in prova, che
la lingua francese non solamente non ha linguaggio,
ma neppur quasi stile poetico veramente.
In simil modo nella ebraica non si sonte se non
poca differenza di stili, o di qualità di un (391 1 ) mede-
simo stile. licito si attribuisce alla lontananza de' tom-
pi e de' nostri gusti e costumi, quasi l' uniformità
dello stilo ebraico non fosse vera, se non relativa-
mente. Ma io la credo assolutamente vera, e l'attri-
buisco alle dette ragioni, né erodo che lo scrittore
ebraico potesse avere stile proprio, né veruna materia
stile proprio, ma tutti e tutte un solo, quanto alla
lingua, per la povertà di questa ') ed eziandio quanto
al modo e alla parte dello stile che spetta- alle
sentenze, perla niuna arte degli scrittori, e perché
la lingua li serrava e circoscriveva anche in questa
parto, dome appunto anche in Francia, fa la mede-
sima lingua, e l'impero assoluto dell'usanza, il qual
si esercita colà stillo stile come su d'ogni altra cosa.
Del resto, come la liijjgua francese non ha che lin-
guaggio e stile prosaico o manca dol poetico, cosi
l'ebraico non ha che il poetico e manca del prosaico.
E ciò perché quella è lingua definitamente ed essen-
zialmente moderna, questa fu essenzialmonto e moral-
mente antica e quasi primitiva. (2912)
,) Kòn solo "jli scrittori ebraiol o le vario materie in lingua ebraica,
ma nappa; ama Ungo» ha uno stilo , cioè nn moilo determinato , corno
l'ha, btìto ,' tei tròppo determinato, la frauccae i perocché la lhjgnn
ebraica è troppo informo per avere uno stile proprio ; e pincisamoiito «Un
è l'astrano contrarlo della francese quanto all'Informità. Vedi la p. 2853.
margtite, p; 3564.
2912-2913)
PKNS1E1U
73
È notabile come da contrarie cause nascano uguali
effetti. La lingua ebraica non ammetto varietà nello
stile per esser troppo antica, la lingua francese nem-
meno, por esser troppo moderna; quolla per eccesso
d'imperfezione e per povertà che nasce dall' antichità,
questa per. eccesso di perfezione o per povertà che
nasce dall'essere squisitamente moderna, si di tempo
corno d'indole. Neil' una e nell' altra le parole poco va-
girono, le sentenze tutto, lo stile si riduce ai nudi con-
cetti (cosa che non ha luogo in venir' altra lingua
letterata). Ma ciò nella ebraica perché le parole non
hanno ancor preso vigore, nella francese perché l'hanno
perduto; in quella perché i concetti non hanno an-
cora onde farsi un corpo, in questa perché l'hanno
deposto; in quolla perché la materia è ancora scarsa
a vestir lo spirito, in questa perché lo spirito ha con-
sumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui
s' era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l'esi-
stenza è spiritualizzata, né si vedo o si tocca oramai,
0 certo non si vuole né vedere né toccare quasi .altro
che spirito. (2913) Ambedue le lingue dànno noi meta-
fisico e, si può dire, nell' incorporeo per due cagioni è
principii dirittamente opposti, come il fanciullo per
eccessiva semplicità è talvolta cosi sottile nelle sue
quistioni, come il filosofo por grande dottrina e sa-
pienza e sagaci tà (7 luglio 1823). Vedi la pag. se-
guente.
* Alla p, 2853, margino. Veramente la pretesa forza
d'imitazione cho ha la lingua tedesca non potrebbe
perfettamente realizzarsi che sopra una lingua come
l'ebraica. Perocché una lingua informe corno questa
può sola esser bene imitata, anzi contraffatta, copiata
e trasportata tutta intera in una lingua informo come
è necessario che sia la lingua tedesca se ha la detta
forza e facoltà che so le attribuisce. E viceversa, solo
nna lingua informe, come questa, sarebbe atta a con-
7!
PENSIERI
29 13-29 14-29 I 5)
tratfaro senza far violenza a se stessa o perfettamente,
una lingua informo uomo l' ebraica o come una lingua
selvaggia; il che non è possibile alle lingue formato,
né fu possibile in greco o in latino contraffar nelle
traduzioni letterali la lingua ebraica, senza violentare
e snaturare affatto (29 1 4) il greco e il latino, come f n
fatto, q come accado altresì nelle lingue moderne che
hanno (se alcuna nella) traduzioni letterali della scrit-
tura, fatte o sull'ebraico o sul letterale greco o latino
o d'altra lingua moderna (7 luglio 1823).
* Alla pagina antecedente. Questa spiritualizzazione
della società essendo oggidì universale, è altresì uni-
versale 1' offetto elio ho dotto esserne seguito nella
lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori mo-
derni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se
non se ne' sentimenti, e consista tutto nelle cose. E in
verità, quanto allo stile propriamente detto, v'è minor
divario oggidì fra due scrittori di duo lingue dispa-
ratissiine e in diversissime materie, che non v'era an-
ticamente fra due scrittori contemporanei, compatriotti,
d' una stessa lingua e materia (pongasi per esempio
Platone e Senofonte). Lascio poi quanto poca varietà di
stilo si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili
de' moderni non si diversificano se non per le sentenze
Anzi tutti gli scrittori e tutte lo opero escono, quanto
allo stile, da una stessa scuola, vestono d' uno stesso
panno, anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitu-
dine, gli stessi gesti e movimenti, le stesse fattezze e
circostanze esteriori; solo 'si distinguono l' tuie dal-
l' altre perché dicono diverse coso , benché collo stesso
tuono e modo di recitazione. Sicché, proporzionatamen-
te, accade oggi noi mondo civile quel medesimo che ho
ciotto accadore in Francia; quasi ninno scrittore ha
stile (2915) proprio, non v'è chetino stilo per tutti,
e questo consiste assai più nelle sentenze che nelle
parole; poco oramai si guarda allo stile nelle opere
(2915-2916)
PBNSIBR]
che esuono in luco, o se vi si guarda, ciò è più pei"
vedere s'egli segue l'uso e la forma di stilo univer-
salmente accettata o no : se la segue, non si parla
del suo stile; se non la segue, allora solo il suo stile
dà nell'occhio, e per lo più è ripreso, e ordinai-ia-
' mente con ragione. La differenza eh' è in questo par-
pcolar dello stile fra la lingua francese e l' altre
moderne, si è elio so in quella lo scrittore non ha
stilo proprio, egli è perché la lingua n'ha un solo; se
lil suo stile non è vario, egli è ohe la lingua non ha
varietà di stile. Ma nelle altro lingue il difetto viene
dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e
non la lingua , o s' ei non ha stile proprio, egli può
averlo; almeno la lingua sua non glielo impedisce;
ma oi non ha stilo proprio, perché un solo stile ha
non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per
cosi diro, la lingua europea, ossia l'uso o lo spirito
univcrsalo della letteratura e della civiltà (29 1 6) pro-
sente, e del nostro secolo. Vedi p. 3471.
Del resto, egli è certissimo che quantunque le
moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno ca-
pacissime d'ogni sorta di varietà, qualità e perfezion
di stile, nondimeno niuna delle medesime è, che possa
mostrare neppur ne' suoi antichi o nel suo secolo
aureo ne tanta varietà, né di gran lunga tanta per-
fezione di stile propriamente dotto, quanta ne pos-
sono mostrare nei loro lo lingue antiche. I moderni
poi, quanto vincono gli antichi nel fatto delle sen-
tenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello
stile propriamente detto, e nel culto delle parole preso
in tutta l' estension del termine. E non solo non met-
tono né sanno mettere in pratica, ma né pur cono-
scono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi
e degli accorgimenti cho gli antichi insegnavano co-
munente e adoperavano intorno a esso culto, e cho si
possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di
Quintiliano. I moderni non ne conoscono general-
?6
pensieri (2916-2917-2918)
mento neppure i nomi, e neppnr ne hanno tanta idea
che basti a poter valutare in confuso a olio sseguo
(2917) arrivasse questa squisitezza, Kei moderni le
sentenze c la spiritualità del socolo nocciono allo
parole e allo stile, all' arte del quale niuno di loro si
applica da senno o ei poro tanto studio o tempo
quanto bisognerebbe. Negli antichi classici di ciascuna
lingua moderna, ne' qnali non aveano luogo lo dette
circostanze, e ciascuno de' quali iacea dell'arte dello
stile il suo principale studio, e attendeva più alle
parole che alle cose, ogni volta che si metteva da
vero a comporre; pure in nessuno o in quasi ninno
di loro si trovò arte o capacità bastante, né quanto
si richiedeva a conseguire quell' alto grado di perfe-
zione, neppur relativamente e limitatamente alle forze,
indolo, qualità e capacità delle rispettive lingue (8
luglio 1823).
* L'argomento con cui altrove dall' aggettivo potila,
che io chiamo vero participio, e da' sostantivi potus
' us (fatto da esso participio, secondo la regola da me
altrove assegnata) e potio onis paragonati con potatio,
ho dimostrato l'esistenza di un antico verbo poo, ri-
covo forza dai composti appotus ed epotm, veri par-
ticipi!, (29 1 8) come di forma cosi di signilicazionc
(che in quello è attiva. *) in questo passiva); da' quali
forse si potrebbe anche raccorrò 1' antica esistenza
de' verbi composti appoo ed epoo diverso da epoto.
Avvi ancora compotatio, compaio? sostantivo e compo~
trix (8 luglio 1823).
* Da quello cho ho dotto, p. 2789-90, si rileva cho
il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio
■raptus, e che questo dovette essere usato dagli anti-
*) Vedi la iì. 2841, line. Puittiut v* è clA jto, non il» pota, come
ua e [la movett, non da moto as, e puoi vedere ni questo proposito lit
p. 2975; princìpio.
(2918-2919)
PENSIERI
77
olii latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto
fra noi. Porocchó diro cho quosto sia nato dall' av-
verino italiano ratto, e quest'avverhio da raptim, onda
ratto por veloce venga da raptim, è derivazione o for-
mazione priva d'ogni esempio. E por lo contrario è
cortissimo cho ratto avverbio viene da ratto aggettivo,
anzi ò lo stesso aggettivo neutralmente o avvorbial-
mento posto, il che è proprietà ed uso della no-
stra lingua di fare, come alto, forte (anello i francesi
fori avverbio e aggettivo), presto, tosto, piano e mil-
l' altri, por altamente ec. Anzi ò in libertà dello scrit-
tore o parlatore italiano di far cosi de'nuovi avverbi
degli aggettivi, (2919) non già viceversa. Vedi il
Forcollini in lìapio, col. 1 , fine, Rapto, fine, Eaj>tus,
V esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente
hanno, per esempio, demasiado avverbio e aggettivo ec.
(8 luglio 1823).
* Noi usiamo volgarmente il verbo volere appli-
candolo a coso inanimate o ad esseri immaginari , e
talvolta iinporsonalmento, in modo eh' egli o sta per
potere o ridonda e non fa ohe servire a una peri-
frasi, per idiotismo e per proprietà di lingua. Per
esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè,
Wm si può far che la piaga se gli rammargini, ossia
La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui vo-
lere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la
stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il
negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar
piede, V erba non ci vuol nascere. Cioè, se 2nglierà piede,
non ci nasce. Qui volere ridonda. T)a pia mesi non e
voluto pio-vere. Cioè, non è piovuto Qui volere ridonda
ed è impersonalo. Aneho in francese: cette machine ne,
veut pas alter, ce bois ne veut pas brùlcr. Alberti. Cosi,
m i pare, anche in spagnuolo.
Ora questo grazioso idiotismo proprio della nostra
uigua fu proprio altresì della più pura lingua greca
pensieri (2919-2920-2921)
{anzi, secondo i grammatici, egli è un atticismo) e f u
adoperato (2920) dagli scrittori più eleganti, e mas-
sime da Platone, primo modello dell' atticismo. Xcl
Convito. Opp., ed. AsfciiJLips., 1819-..., t. Ili, 1821, p. <K50,
v. 16-17, D. Èàv [xéy za: stì-ÉA-fl saósofrat t, hófi, se ti
vorrà passare il singhiozzo, invece di èàv uév so: naur,-
t'v. -/j Wfkf Qui iMbtv ridonda. Vedi lo Scapula in
?EMX<u e SiXu>. Corinto nepl StaXéwwov. 'Arcuisi xal ti *K-
\e: &ytl tuo Suvatai, 4>4 i UXàttuv (nel principio dol_Ftfdroì,
tà /tupta oùòéf fcftìXn StSàcy.eiv. Ma non è vero che stia
sempre in questo tale idiotismo per potere, come dice
anche lo Scapula ne 'due citati luoghi. Per potere sta
assolutamente nel Sofista, t. II, 1820, p. 314, v. 18-19,
D-E. Kotì jj.TjV ?v •fi "z: to'Jtiov àva.-jv.uìo'j, x[ KÓCVXtt : q |AY]8èv ; r (
zà |iè.v l&éXety, ti (tv) £t>jj. (t t-]f v t>.<J^'0t« che altre cose possano
mescolarsi insieme altre no. *) Ma nel passo del Convìvio,
e in quello di Omero presso lo Scapula, MHXmv ridonda,
come sovente in italiano volere, nel detto nostro idio-
tismo , e malissimo si spiegherebbe por potere. In
quello del Fedro altresì in sostanza ridonda, perché
il luogo vale tà;j(tì>p(« oaltv |ie SiSàoxei. Se diremo oùSév u.s
Stivateti StMaMiv (2921) diremo forse altrettanto, ma non
lo stesso, e benché diremo il vero, non perciò diremo
quel medesimo appunto che dice Socrate, In questo e
in altri molti casi simili, tanto nel greco quanto nel-
1' italiano, spiegando il verbo volere per potere, l'espres-
sione riesce vera e giusta, ma nonpertanto V intenzione
dcllafrase non era di dir' potére. Perché spesso nell'espri-
merci noi abbiamo due intenzioni, l'ima finale (e que-
sta nel caso nostro sarà ugualmente bene spiegata
rendendo volere per potere, che dicendo eh' egli ri-
donda), l'altra immediata (e questa nel caso nostro
non si otterrebbe con dir potere, né si spiegherebbe
con questa voce); da ambedue le quali intenzioni è
J ) Vedi miche Ivi, p. 318 , vera, pennlt,, B j 326, Ter». 12, ]t ; 3-12,
vei-3. 13-14, D; 314, ver». 20, E. Syxes., Opp., 1«12, p. 43, (J.
(2921-2922-2923)
79
diversa quella intenzione o significato che ha la lo-
cuzione letteralmente presa (8 luglio 1823). .Del re-
sto, noi non usiamo in questo tal senso e modo il
verbo volere, se non colle particelle nogative o con-
dizionali, o con interrogazione, come in quel verso di
Anacroonte (od. 4 'ESóy.ooy wap Hpùyàfciv) ti fliXei ovttp
vcóò' elvui^ che vorrà essere questo sogno? Ma in locu-
zione, l'orma e significaziono affermativa non s' usa
(2922) mai il verbo volere né dagl' italiani né da' fran-
cesi no' sovresposti sensi , se non se in quella frase
voler dire o significare ec, che è greca anch' essa, e
che può riferirsi all' idiotismo di cui ragioniamo. I
greci ancora usano per lo più questo idiotismo fuori
di affermazione, benché non sempre. Affermativa-
mente, e pur di cose inanimate o ideali e intellet-
tuali e, corno si dice, di ragione, usiamo noi il verbo
Volere in un senso però differente dai sopraddetti, ed
equivalente al greco [jiXXeiv, ma con significarla di
qualche dubitazione : come Questa guerra vuole an-
dare, in lungo, cioè, Pare che questa guerra sia per
durar molto: Vuol piovere oc! In questo senso il verbo
volere equivale al significato che sovente ha in ita-
liano dovere, il quale talvolta significa assolutamente
piUetv (come avere a, aver da cogl' infiniti), talvolta
con qualche dubitazione, come Questa guerra deve an-
dare in lungo, cioè Pare che ec. Dicesi ancora Questa
guerra mostra di. voler esser lunga , pare che voglia
esser ce. E in simili modi : e cosi dovere. In altro
modo ancora diciamo affermativamente il verbo volere
per proprietà di lingua, eziandio di cose inanimate,
con significazione di esser presso a, mancar poeo che
non ; e in questo senso egli non s'usa se non nel pas-
sato o piucchó passato, benché in un osompio della
Crusca, Volere, § 3, trovisi nel gerundio (9 luglio 1823).
Vedi p. 3000. '(2923)
* GÌ' italiani non hanno costumi: essi hanno delle
80
PENSIERI
(2923-29241
usanze. Cosi tutti i popoli civili che non sono nazioni
(9 luglio 1823).
* Bisogna (far grande stima) avere una grande idoa
di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso.
Chi non ha molta e costante stima di so medesimo
non è buono all'amor vero, né capace del dévouement
e del totale sacrifizio ch'egli esige ed ispira (9 lu-
glio 1823). ,
* Il verbo avere in senso di essere, usato imperso-
nalmente dag-P italiani, da' francesi, dagli spagnuoli,
talora eziandio personalmente dagl' italiani (vedi il
Oorticelli), non è altro che il latino se imbeve (il qual
parimente vale essere), omesso il pronome. 11 volgo
latino dovette dire, per osompio. nihil hic se habet, qui
non si ha nulla,, cioè non v' 'e; poi, lasciato il pro-
nomo, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone:
Attica belle se habet col pronome, e altrove : Terentia
minus belle habet: ecco lasciato figuratamente il pro-
nome nella stessa frase (Porcellini in Bella). Bene
habeo, bene habemus, bene habent Ubi principia sono
(2924) tutte locuzioni ellittiche per l' omissione del
pronome se, nos, me. Bene habet, optime habet, sic habet;
ecco, oltre l'omission del pronome se, anche quella del
nome res. Ondo avviene cho in queste locuzioni, che
intere sarebbero bene se res habet, sic se res habet, il
verbo habere per lo dotto ellissi venga a trovarsi im-
personale. Ed ecco nel latino il verbo habere in si-
gnificato di essere, noutro assoluto, cioè senza pro-
nomo, o impersonale. Quis hit', habet? chi e qui? In
questo e negli altri luoghi dovo il verbo habere sta
por abitare in significato noutro, esso verbo non vale
propriamente altro che essere; e habitare altresì, eh' è
un frequentativo o continuativo di habere, sempre che
ha senso neutro, sta per essere. E questa ' forma è
tutta greca: giacché presso i greci É'/ftv, la metà
(2924-2925-2926 ì phnsierì 8J
delle volto non è altro che tm sinonimo di csaore, e
Busa in queBto sonso anoko impersonalmente, corno
in italiano, francese e spaglinolo tutto di. ') Cosi anche
noi greco moderno a ogni tratto (2925) Aèv ìyz:, non
a è, non ci, ha (d lnglio 1823).
'■■ Intorno al verbo habitare, che per virtù della sua
formazione può essere e continuativo e frequentati-
vo, si considerino gli esempi del Fornellini, in alcuni
de' quali (corno in quello di Cicerono, de Senect., c. ult.)
egli ha decisissimamente il primo significato, in altri
il secondo: o vaio solere Iutiere cioè es.se ec. E vedi
ancora il primitivo Iutiere nel sonso del continuativo
habitare (dal qual senso deriva quello di questo verbo)
nel Porcellini in habeo, col. 3 (!) luglio 1823).
* E uso della nostra lingua di porro l' avverbio
mate corno particolla privativa in vece di in avanti
gli aggettivi, i sostantivi, gli avverbi, i participii ec,
o facondo di questi tutta una voce con quella, o
scrivendo quella separatamente. s ) Il qual uso ci è
cosi proprio, che sta in libertà dolio scrittore di faro
in questo modo de' nuovi accoppiamenti nel dotto
senso, sempre ch'oi vuole, siccome n 1 han fatto alcuni
moderni, (2926) per esompio il Salvini, ad esempio
dogli antichi, o stanno segnati nella Crusca. I fran-
cesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroite-
ynent, mnl-aisé, mal-grcwieux, mnl-plnisant, mal-habile,
tnal-honnflte eo. ec. Vedi il dizionario del Richelet in
>»'<-l. line. Or quest'uso è tutto latino e degli ottimi
tempi. Vedi Forcollini in male (9 luglio 1823).
* Maltrattare, maltraiter maltratar, male-tractatìo è
'J' A niobio, appresso Forcellini voc. Male, fino, in voce
di che altri dissero mala traditilo. È proprio do' nostri
') v "'li i>. 3907.
') Malr jior imn o pneon difficilmente. Vedi h\ Crusca iti mate.
Lkopaboi. — Penateli, V. (ì
82
PENSIERI (2926-2927-2928)
antichi scrittori e del volgar fiorentino o toscano di
usar malti in tutti 1 generi o numeri invece dell'ag-
gettivo mah (9 luglio 1823).
* Savamo, Bavette de' nostri antichi, per eravamo ora-
rate, sarebbero elle persone di un imperfetto più re-
golare, più antico e più vero di mm, sumus. stipi, elio
non è 1' «sitato eram l'atto forse da un altro toma;
persone, dico, di un imperfetto sàbam, era, conser-
vato nel volgar latino iìno ai primi tempi del nostro?
(9 luglio 1823).
* Alla p. 2753. Ella è anche cosa certissima ohe,
in parità di circostanze, 1- uomo ed anche il giova-
ne, (2927) e altresì il giovano sventurato, è meno
scontento dell' esser suo, della sua condiziono, della
sua fortuna durante l'inverno elio durante la state;
meno impaziento dell' uniformità e della noia, mono
impaziente delle sventuro, meno renitente alla sorto
o alla necessità, più rassegnato, meno gravato della
vita, più sofferente dell'esistenza, e quasi riconciliato
talvolta con esso lei, quasi lieto; meno incapace di
concepire come si possa vivere o di trovare il modo
di passare i suoi giorni: o almono tutto questo di-
sposizioni sono in lui più frequenti o più durevoli
noll'inverno che nella state; e spesso abituali in
quella stagiono , laddove in questa non altro mai
cho attuali. Ed anche il giovane abitualmente dispe-
rato di se e della vita si riposa della sua dispera-
zione durante l'inverno, non elio egli speri più in
questo tempo cho negli altri, ma non prova o prova
meno efficace il senso di quolla disperazione cho ra-
dicalmonto non può abbandonarlo. Cioè intermetto
(2928) di desiderare o desidera mono vivamento quol-
le cose eh' ogli è al tutto o nbitualmento o por sem-
pre disporato di conseguirò. Tutto ciò perché gli
(2928-2929)
PENSIEUl
83
spiriti vitali sono manco mobili ed agitati e svegli
nell' inverno che nella state.
Queste considerazioni vanno applicate al carat-
tere dolio nazioni elio Vivono in diversi climi, di
quelle che sogliono passare la più parte dell' anno al
coperto e nell'uso della vita domestica e casalinga a
causa del rigore del clima, e viceversa eCi Veggasi la
|; 3347-9 e 3296. margine ec. (!) luglio 1823),
* A proposito del verbo vexrtre che io dico esser
continuativo di vehere ') e fatto da un. antico parti-
cipio vcxus invece di vecius, del che vedi la p. 2020,
è da notare che si altrove si particolarmente ne' par-
ticipi! in us non è raro nella lingua latina lo scambio
delle lettore s e t. Eccovi da intendo , intensus e in-
tentust, onde intentare, corno da vecius vectare j.c|{t amjo,
anxus ed anctiis. Vedi Porcellini ango, in fino ; vedi
p. 3488; e cosi tenxwt e tt-.ntns da tendo o dagli altri
suoi composti , del che ho detto altrove in proposito
d' intentare. Vedi p. 38 1 5. Dico lo scambio, giacché, se-
condo (2929) me, questi tali participii, corno tensus e
<'■nl.ua, non sono che un solo pronunciato in due diversi
modi por proprietà dolla lingua materiale. Ondo vexus,
cioè veesus , ò lo stesso identicamente che veetus, e
Pecsare o vexare, per rispetto all' origine, lo stesso che
nettare. Ma vexus si perdette, restando vecius, o forse
l'u più antico di questo, come vexare sembra esser più
antico di -mei, ire. Del resto da vello esci è cosi ragione-
vole elio venga vexus, conio da npefo in exi, nexus, ondo
nexfirc, compagno di vexare, e da pedo *s exi pextis (o
notisi eh' egli ha eziandio pectitm) e da pineta ts exi,
plexus, ondo amplexarc, fiecto in exi, flexus oc. (vodi
p. 2814-15, margino) oc. E quanto ai verbi che hanno o
ebboro de'participii cosi in sus còme in tus, vedi per un
') U> comprova anello 11 aigulilcato rispettivo , si per V affinità, at
l'I"' in L'ontinuiU imi. SioHhiietitti liti cello innoverò, aenao analogo a qnel
III veht>, ai f a procella, «mìo procella, olio ó iiunai uclko, a percello 00. 00 et).
84
pensieri (2929-2930)
altro esempio funde.re , elio liti fusus ed ebbe anche
futux, pi 2821, o uìtor erte che ha nixus, ondo nixari, ed
ebbe nietus , onde nictari , il qual esempio (vedi la
p. 2B86-7) fa particolarmente al caso. Vedi p, 2038.
Fit/o-Jh-i-fictus a Jkm eli' è più comune ancora. ') E
di' molti altri verbi la nostra teoria de' continuativi
dimostra de' doppi participii o supini, (2930) cioè di-
mostra che ebbero participii o supini diversi da quelli
che ora hanno, o due, ambo perdut i, o ancor piti di due,
come fundo-fusus , futus , fnndiius ec. ec. Vedi la
p. 2826, il pensiero seguente , e la p. 3037. Del resto,
vernare, rispetto a vehere, potrebbe anche appartenere
a quella categoria di verbi, della quale p. 2813, segg,
Ma non lo credo per le suddette ragioni che mi per-
suadono eh' ei venga da un participio Vexus. Vexus ,
flexMB oc. da vestì, ec. sono forso contrazioni di vexitas eo,
e altresì veMus oc, il quale però conserva il t, come
textus da texui. oc. Vedi la p. 3060-1 con tutto quollc
a cui essa si rifori sce e quello che in essa si citano
(9 luglio 1828).
* Fimo, pinti*, pinsi. et pinsui, pinsum et pinsitum
et pistum. Da pimnut o da pim'dvx, pinsìtare appresso
Plauto , se questa voco è vera. Da pistus pinture, ap-
presso il Porcollini e il glossario (vedilo in Pistare
o Piètatus, onde il nostro pestare che volgarmente si
dice ancho oggi più spesso pittar», siccome piato per
pesto (vedi il glossario in pestare). Pitto rimane ezian-
dio nello spagnuolo, ed è un aggettivo neutro sostan-
tivato, che vale quello che noi diciamo il pollo pesto. ~)
Notiamo qui quello elio dico Pesto alla voco pin-
na (ap. Porcellini in Pisìm).PÌttum a jùnsend') prò vio-
') Similmente imi figgere-fiito a fitto, ilei elio pnoi vedere i>. 3284 e
p~ 3203, flojre Imi Jbmre all'ulta Miniagli ili votare. Vuoimi Ift p. 3723, m«.
•) Tutti tro qncstl participii ili plnsii anno romprnrnti con nsnni]ii,
e non d» mi» oongetturuM. Vedi ForcetHni i» olwwnuo ili io™, o lo pinta.
(2930-2931-2932) PENSrEKi ^
■ litum antiqui frequentili» usurpabant quam nunc non
Uiùìmus., (2931) infatti pistilhm, pistor, pistrinum e
quasi tutti i derivati di pinco vengono dal supino o
participio pistum o pistus. Ora, secondo Festo, al suo
tempo questo participio o supino molto visitato dagli
antichi era poco frequentato. Egli vuol certo dire nel
linguaggio polito e nella scrittura. Ma eccovi che il
volgo latino e il parlar familiare conservava l'uso antico
e conservollo sino all'ultimo, giacché nelle lingue figlie
della latina non resta quasi (dico quasi per rispetto al
vorbo pisarec. di cui qui sotto) del vef So pitièere altro
che quello che appartiene al suo participio pUtu», cioè
'mesto, piMo, italiano o spaglinolo, pestare, pestdlo ec. E
il verbo pestare o pistare che sembra ossero sottentrato
ne' bassi tempi all'originalo pinser», nel luogo del
quale ci si conserva fra gì' italiani ancho oggidì, fu for-
mato allora da pishis, o s' ei fu proprio anche degli an-
tichi latini, certo è eh' egli si conservò nelle bocche del
volgo o nel parlar familiare, andando in disuso e to-
tale dimenticanza il verbo pinso, al contrario di quello
che (2932) sembra dir Festo, o che si potrebbe ragione-
volmente raccogliere dalle di lui soprascritte parole
chi non sapesse i fatti.
fitta» '), ondo pistare, è formato evidentemente dal
regolare e primitivo pinsitus, toltagli la n, onde pisi-
tus. e contratto questo in pistus, come posìtus, repo-
situs oc. in postus, repostus. E vedi lap. 2894. Ora, come
da pinsitus pisifus e pistus, tolta la n, cosi da pinsus,
altro participio irregolare di pìnso, del qual participio
altresì s' hanno parecchi esempi (vedi fornellini in pino-
so, fine, e pinsus), fu fatto, secondo me, pisus, e da que-
sto, siccome da pistus pistare, viene il verbo pisare, il
quale conseguentemente e secondo questo discorso è un
continuativo di pinsere, appunto come pistare, e come
forse pinsitare. Se a questo discorso avessero posto mente
quelli che appresso Varrone e Plinio sostituiscono il
') Veggasì In p. 3035, aegg.
pensieri. (2932-2933-2934)
vorbo pinsere al verbo phuire (o pisere, di cui poscia),
riconosciuto pur da Diomede, e letto ancora da taluni
appresso Persio (2933) (vedi Porcellini in pìnso, fine),
non avrcbboro l'orso pensato a bandire questo verbo. E
meno ancora lo avrebbero fatto se avossoro osservato
questo medesimo verbo pisare appresso un anonimo, de
re archUentonitzt, il quale non ho ora tempo d'investigar
chi sia, so non è l'epitomatore di Vitruvio, ma c^rto
al suo stile non par troppo reconte, e vedi il suo passo
nel glossario in Pisare. E meno so avessero guai-dato
allo spagnuolo pisare (calcare, cal-pesfore) e all' ita-
liano pigiare, ch'è il medesimo : o se in quel luogo di
Vairone Jteum et uvarn passanti cum pisenmt, dov'essi
ripongono pinserimt, avessero osservato l'evidente con-
formità con lo solenni frasi vernacolo pittar las uvas,
pigiar le, uve. E cosi se avossoro posto monte al sostan-
tivo fiìso onìa, derivante da pisare o certo da pinna per
pinaua, il qual sostantivo trovasi appresso il Porcel-
lini e nel citato anonimo appresso il glossario e nello
spagnuolo pison, onde piaonar ec. Vedi ancora nel
Porcellini in pinso il luogo di Varrone 1. 1, R. R., c. 63,
con quel che n' ei dico : e il vocabolo PisaHo , dove
non lodo quei che leggono spissaUone. (2934)
In luogo di pisare trovasi, o pili spesso, pisere.
Intorno a questo veramente avrei i miei dubbi, e
credo più ragionevoli dì quello de' sopraddetti che
leggono sempre pinsere. Voglio dire che a me non par
da nogare l'esistenza di quel verbo derivato da pwi-
aere, ma mi par da dubitare circa la sua coniuga-
ziono, e forse da non concedere ch'ei sia della terzo,
e dovunque si trova pisere da ripor pisare. Il qnale
ed è più regolare secondo la nostra teoria do' conti-
nuativi, ed è comprovato dal glossario e dal verna-
colo spagnuolo e italiano (giacché per puro accidonto
e vezzo di pronunzia noi diciamo pigiare in luogo
di piiare. ch'è lo stesso, e che certamente si dice in
qualche dialetto o provincia d'Italia, come, io credo,
87
nel veneziano), ed è confermato dalle altre conside-
razioni addotte di sopra.
In ogni modo il verbo pi-vere detto in vece di
kisare sarebbe un continuativo anomalo di p insere;
sia che anche pimre esistesse nell'antico latino, e da
lui por corruzione fosse fatto pisere., come forse nexerc.
da nexare (vedi p. 2821); sia che pisere fosse fatto
(2935) a dirittura da pisus-pinsus di pitmre prima
di pisare e in luogo di questo (come visore per visure,
da video-visus) e che questo non sia stato mai nel-
l'antico o nell'illustre ma solo nel basso o nel rustico
latino (fatto da pisere o a dirittura da pintore) , e
quindi no' moderni vernacoli; o sia finalmente cho
hisere e pisare esistessero ambedue quando che sia
contemporaneamente, ma indipendentemente l'uno dal-
l' altro per rispetto all'origine. E vedi a questo pro-
posito di continuativi anomali spettanti alla terza la
p. 2885.
Pisare, considerato come appartenente a pìnsere
(la qualo appartenenza e parentela, qual ch'ella si vo-
glia che sia, chi la può mettere in dubbio?) potrebbe
anche riferirsi a quella categoria di cui p. 2813, segg.
e 2930. Ma lo addotte ragioni mi persuadono piuttosto
ch'esso appartenga dirittamente alla classe degli or-
dinarli continuativi. Forse piuttosto alla sopraddetta
categoria potrebbe appartenere pìnèo as, se questo verbo
fosse pur vero, del che vedi il Porcellini in pinso
(IO loglio 1823).
* Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Porcel-
lini in Caespiiator e il glossario in Compitare (10
luglio 1823). (2936)
* Le cose eh' esistono non sono eertamente per so
né piccole né vili : né ancho una gran parte di quelle
') Quantunque il Porcellini non ni rloonosce o non la esprime, e Fa
derivai' /Uso U od anclio, a quel olio pare, pìso as elnl greco ittictuu.
i>ensikiu (2936-2937;
l'atto dall' uomo. Ma osse e la grandezza o le qualità
loro sono di un altro genere da quollo che l'uomo
desidererebbe, che sarebbe, o eli' ei pensa esser neces-
sario alla sua felicità, ch'egli s'immaginava nella sua
fanciullezza e prima gioventù, e eh' ei s' immagina an-
cora tutte le volto ch'ei s'abbandona alla fantasia e che
mira le cose da lungi. Ed essondo di un altro genero,
benché grandi, e forse talora più grandi di quello che
il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo né il fan-
ciullo non ne è giammai contento ogni volta elio
giunge loro dappresso , che le vede, le tocca., o in
qualunque modo no fa sperienza. E cosi le cose esi-
stenti, e niuna opera della natura né dell'uomo, non
sono atte alla felicità dell' uomo (10 luglio 1823).
Non oh' olio sieno cose da nulla , ma non sono di
quella sorta cho l'uomo indeterminatamente vorrebbe,
e ch'egli confusamente giudica, prima di sperimen-
tarlo. Cosi elleno son nulla alla felicità doli' uomo,
non essendo un nulla por so medesime. E chi potrebbe
chiamare un nulla la (2937) miracolosa e stupenda
opera della natura, e l'immensa egualmente che arti-
ficiosissima macchina o mole dei mondi, benché a noi
por verità ed in sostanza nulla, serva ? poiché non ei
porta in uhm modo mai alla felicità. Chi potrebbe
disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo del-
l'esistenza, di quell'esistenza di cui non possiamo
nemmeno stabilire né conoscere o sufTìciontomente im-
maginare né i limiti, né lo ragioni, né le origini ;
qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo por la
umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della
esistenza o della vita delle cose, benché né l' esistenza
e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi ve-
ramente nulla ìi noi, non valendoci punto ad esser fe-
lici ? ed essendo per noi 1' esistenza cosi nostra come
universale scompagnata dalla felicità, eh' è la perfe-
zione o il fine dell' esistenza, anzi l'unica utilità che
V esistenza rechi a quello eh' esiste ? o quindi esi-
88
(2937-2938-2939) t'BNSffitU
stendo noi o facendo parte della università della osi-
itenga, senza niun frutto per noi ? Ma con tutto ciò
come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera di cui
non vediamo (2938) né potremo mai vedere nemmeno
i limiti? né arrivar mai ad intendere né anche a suf-
liciontemente ammirare l'artifizio e il modo? anzi nep-
pur la qualità della massima parte di lei? cioè la
qualità dell'esistenza della più parte delle cose com-
prese in essa opera; o vogliamo dirla massima parte
di esse cose, cioè dogli esseri eh' esistono. Pochissimi
de' quali, a rispetto della loro immensa moltitudine,
son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo,
anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e
maniere occulto dell'esistenza che noi non conosciamo
né intendiamo punto, noppur quanto agli esseri che
meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra spe-
cie e al nostro proprio individuo (10 luglio 1823).
* Questo eh' io dico dolio opere della natura dicasi
oziandio proporzionatamonte di molto o grandi o bello
o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere
dogli uomini, o siono materiali, o appartengano pura-
mente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'im-
maginativa; scoperte, invenzioni, scienze, specula-
zioni ec. ce; (2939) discipline pratiche o teoriche;
navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d'ogni
genere, opere d'arte ec. ec. (11 luglio 1823).
* Dalle 1 unglie considerazioni da me fatte circa
quello che voglia significare nella Genesi l'albero
dolla scienza ec, dalla favola di Psiche dolla quale
lio parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec.
antichissimi, elio mi pare avere accennato in diversi
luoghi, si può raccogliere non solo quello che gene-
ralmente si dice, che la corruzione e decadenza del
genere umano da uno stato miglioro sia comprovata
da una remotissima, universale, costante c continua
90
rjiNsiEiu
tradizione, ma ohe eziandio sia comprovato ,d& mia
tal tradizione e dai monumenti della più antioa storia
o sapienza, olle questa corruttela e decadimento del
genere umano da uno stato l'olioo sia nato da] sapore
e dal troppo conoscere, e che l'origina della sua in-
iblioità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo,
e il troppo uso della ragiono. E pare che questa ve-
rità fosse nota ai più antichi sapienti, e una (2940)
delle principali e capitali fra quelle che essi, forse
come pericoloso a sapersi, ominziavano sotto il velo
dell'allegoria e coprivano di mistero e vestivano di
finzioni, o si contentavano di accennare confusamente
al popolo; il quale ora in quei tempi assai pili di-
viso per ogni rispetto dalla classe do ! sapienti, ohe
oggi non è: onde nasoova l'arcano in cui dovevano
restare quei dogmi eh' essondo sempre proprii do' soli
sapienti , non erano allora quasi por niun modo co-
municati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltre-
ché in quei tempi l'immaginazione influiva e dominava
cosi nel popolo, come anche noi sapionti medesimi,
onde nasceva che questi, eziandio senz'aldina inten-
zione di misteriosità, e sonz' alcun secondo line, ve-
stissero lo verità di figure, e le rappresentassero altrui
con sombianza di favole. E infatti i primi sapienti fu-
rono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si ser-
virono dolla poesia, e le prime verità furono annun-
ziate in versi, non, cred' io, con espressa intenzione
di velarlo e farle poco intelligibili, ma perché esso
si presentavano (2941) alla inente stessa dei saggi
in un abito lavorato dall' immaginazione, e in gran
parte erano trovato da questa anzi che dalla ragione,
anzi avevano eziandio gran parte d' immaginario, spe-
cialmente riguardo allo cagioni ec, benché di buona
fede credute dai sapienti cho lo concepivano o annun-
ziavano. E inoltro per propria inclinazione e per se-
condar quolla degli uditori, cioè de' popoli a cui par-
lavano, i saggi si servivano della poesia e della
Sii
(2941-2942) pensieri __• J1
favola per annunziar le verità, benché ninna inten-
sione avessero di renderle méomnaiasabkn (11 Mgiio
1823),
*11 principal difetto della ragione non ò, come si
àicé, di essere impotente. In verità ella può inolta-
Umo e basta per accertarsene il paragonare 1 amino
o V intelletto di un gran filosofo con quello di un
Llvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filo-
sofo avanti il suo primo uso della ragione: e cosi il
paragonare il mondo civile presente s, materiale ohe
morale, col mondo selvaggio presente, e più col pn-
! mitivo. Ohe cosa non può la ragione umana nella spe-
culazione? Non penetra ella fino all' essenza delle cose
che esistono, ed anche di se medesima V non ascende
fino al trono di Dio, e non (2942) giunge ad analiz-
zare fino ad un corto segno la natura del sommo Ls-
Lre 9 (vedi quello che ho detto altrove in questo pro-
posito). La ragione dunque per se, e come ragione
non è impotente né debole, anzi, per facoltà di un
ente finito, è potentissima; ma ella e dannosa, ci a
rende impotente colui che l'usa, e tanto P iu quanto
maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il
suo potere scema quello di chi l' esercita e la possiede,
e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante di-
viene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nu a
tutti eli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla
il K rande, il hello, e per cosi .dir la stessa esistenza,
è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto pru
impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto e mag-
giore la sua esistenza in intensità e in estensione,
tanto V essere dello coso si scema e restringe od ac-
costa verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede
poco. In effetto la sua vista si stonde quasi m infi-
nito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto ma essa
vista ha questa proprietà, che lo spazio e gli oggetti
lo appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stendo
VKXKIKHJ
(2943) e quanto meglio o più finamente redo. Ook|
oh' ella, vede sempre poco, e in ultimo nulla, non por-
eli' olla sia grossa o corta, ina perché gli oggotti e lo
spazio tanto più le mancano quanto olla più n'ab-
lìraccia, e più minutamente gli scorge. Cosi ohe il
poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione,
(benché gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualun-
qu' altra posa, eccetto solamente ch'alia ragione). Per-
ciocch'ella per se può vedere assaissimo, ma in atto
ella tanto meno vedo quanto pili vede. Vede però
tutto il visibile, e in tanto in quanto osso è e può
mai esser visibile a qualsivoglia vista (11 luglio 1823).
* Come gli antichi riponessero la consolazione, an-
che della morto, non in altro che nella vita (del che
lio detto altrove), e giudicassero la morte una sven-
tura appunto in quanto privazion della vita, e che il
morto fosse avido della vite o dell' azione, e prendesse
assai più parte, almeno col desiderio e coll'interosse,
alle cose di questo mondo che di quello nel quale
stimavano pure eh' egli abitasse e dovesse eterna-
mente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per
sempre un membro, si può vedere ancora in quell'an-
tichissimo costumo di onorar V esequie e gli anniver-
sarii ec. di (2944) un morto coi giuochi" funebri. I
quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più
energiche, più solenni, più giovanili, più vigoroso,
più vitali che si potessero fare. Quasi volessero in-
trattenero il morto collo spettacolo più energico della
più energica o florida e vivida vita, o credossero che
poich'egli non poteva più prender parte attiva in
essa vita, si dilottasse e disannoiasse a contemplarne
gli effetti o l'esercizio in altrui (11 luglio 1823).
:,: Ondano che la poesia dobba esserci contempo-
ranea, cioè adoperaro il linguaggio e lo idee e dipin-
gere ì costumi, e fors' anche gli accidenti de' nostri
(2944-2945-2946) ^pensieri _
tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni,
opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p. 3 1 52.
la io dico ohe tattf altro potrà esser contempora-
neo a questo secolo, fuorché la poesia, (-omo può il
poeta adoperare il linguaggio o seguir le idee e mo-
strare i costumi d'ima generazione d' uomini por cui
la gloria è un fantasma, la libertà, la patria 1 amor
patrio non esistono, l'amor vero o una (2945) fan-
ciullaetrine, e insomma le illusioni son tutte svanite,
?«2K non solo grandi e nobili e belle, ma u te
lo passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed es-
ser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni, senza
passioni, sono termini che reggano m logica Un
poeta in quanto poeta può egli essere egoista e me-
tafisico? e il nostro secolo non ò tale caratteristica-
mente? come dunque può il poeta essere caratteristi-
camente contemporaneo in quanto poetai
Osservisi ohe gli antichi poetavano al popolo o
almeno a gente per la più parte non dotta non filo-
sofa I moderni all'opposto; perche i poeti Oggidì
non hanno altri lettori che la gente colta e istruita,
e al linguaggio e all' idee di questa gente vuota che
U poeta si conformi, quando si dice eh' ei debba es-
ser contemporaneo, non già al linguaggio e alle ulte
del popolo presente, il quale delle presenti ne de, c
antiche poesie non sa nulla nó partecipa in conto al-
cuno Ora ogni uomo cólto e istruito oggidì o im-
mancabilmente egoista e filosofo, privo d'ogni nota-
rlo illusione, spoglio di vive passioni; e ogni donna
altresì. Come può il poeta essere per (2946) carattere
e, ner ispirito contemporaneo e conlorme a tali pel-
sene in quanto poeta? che v'ha di poetico in esso,
nel loro linguaggio, pensieri, opinioni, inclinazioni,
affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o po-
trà inai aver di comune la poesia con esso loro?
Perdóno dunque so il poeta moderno soglie le cose
antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la ma-
™ PKKsram (2946-2947)
niera antica, so usa eziandio ]e antiche favolo eci se
mostra di accostarsi allo antiche opinioni, se prefe-
risce gli antichi costumi, usi. avvenimenti, so im-
primo alla sua poesia un carattere d'altro secolo, so
cerca insomma o di essere, quanto allo spirito o' al-
l' indole, o di parere antico. Perdóno so il poeta, so
la poesia moderila non si mostrano, non sono contem-
poranei a questo secolo, poiché esser contemporaneo
a questo secolo è, o inchiude cssenzialniento, non es-
ser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può ossero
insieme e non essere (11 luglio 1823). E non è con-
veniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder
cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in
se stossa e ne' suoi propri termini (12 luglio 1828)
(2947)
* Intentare latino da intendo, onde il francese in-
terrier e quello cho noi pur diciamo intentare, un'ac-
cusa, un processo e simili. Vedi il glossario Gang. Par-
ticipio ìntentatus. Intentare do' nostri antichi (vedi la
Crusca in intentare e intentatone) e intentar spaglinolo,
da tento colla preposizione in e vaio lo stesso cho ten-
tare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto di-
vorso dall'altro intentare, sopraddetto, io lo credo ve-
nuto, se non altro, dal latino volgare, poiché m' ha
sapor di vera latinità, o non mi riesce verisimile cho
sia stato croato nolle lingue vornacolo, pochissimo
usate a crear nuovi composti con preposizioni, il qual
uso è tutto greco e latino. Participio intentato, ìntmi-
tado o ìntentatus, cioè tentata» (similmente Mento,
so questa voco è vera, Viene da ób-tineo, laddovo
ostento da ost-tendo, anticamente ohs-lendo |vedi la
p. 299G|). Diverso da questo è l'altro participio in-
tentatm che significa il contrario, cioè non tentati/»,
fatto non colla proposizione in, ma colla particella
privativa del medesimo suono in, il quale participio
noi pure l' abbiamo e viene ad essere un terzo parti-
(2947-2948-2949) pessiriu ___ ^
Sio W diverso por origine e per significo
feènohé di suono m ogni cosa conforme ed uguale
dei duo sopraddotti. Similmente inavMus, ed
2948Ì alt» tali, vagliene non ««.dito, non metus, ed
SS l'òppoV, cioè sue**, auWà* da « « od
itó/dio (12 luglio 1823).
.Quanto nnrabile sia stata l'invenzione delFalfe-
beto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, Si può anc he
X questa via facilmente considerare E cosa osscr-
lE n « non pensa se non parlando fra se o col
STo d, una lingua; che le idee sono attori
parole: che quasi ninna idea sarebbe o mW» «
chiara se l'uomo non avesse, o quando e
parola da poterla esprimere non mono a se stesso ohe
S altri, l che insomma l'uomo non concepisce ««
idea chiara e durevole se non per messo dell* parola
eerrispondonte, né arriva mai a perfettamente e d -
stintamente concepire un'idea, ansi neppure , a deter-
minarla «ella sua mente in modo ch' ella Sia divisa
dall'altre, e divenga idea, oscura o chiara che s a ne
i fissarla in modo eh' ei possa richiamarla, npren
«lerla. raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando
che sia- non arriva, dico, a far questo mai, finch'ogh
ZI (2949) ha trovato il vocabolo con cui possa si-
non . n* legandola e incastonandola;
enificar questa idea, quasi ìegauuui» .«.'j
l 9itt vocabolo nuovo o nuovamente WBj^^"
è nuova, o s'egli non conosce la parola con un g i
STa eBpri 0 ' 0 sia questo medesimo vocabolo
cho gli altri usano a significarla.
Tutto ciò La luogo in ordin a, suoni .^ff"
della favella, per rispetto all'alfabeto. L'alfabeto e la
Wua col cui messo noi concepiamo o determiniamo
pres o no medesimi l'idea di ciascuno dei detti suoni
Queg che non conosce l'alfabeto, parla, ma non ha
veruna idea degli elementi che ,«™W£v et ma
da lui profferito. Egli ha ben l'idea della favella, ma
m PEKStìSHi (29+9-2950-295 lì
non ha per niun conto le idee degli elementi che la
compongono: siccome infinite altre idee hanno gli
uomini, degli elementi e parti dello quali non hanno
veruna idea né chiara né oscura che sia separata
dalla massa dell'altre: o questo appunto è il pro-
gresso dello spirito umano; suddivider lo idee, e con-
cepir l'idea delle parti e degli elementi delle mede-
simo, conoscere (2950) che quella tale idea eh' egli
teneva por semplice, era composta, o scompor quella
idea oh' era stata semplice per lui finallora, o scom-
postala concepir l'ideo delle parti di essa, sia di tutte
lo parti, sia d'alcuna. Me altro è por l'ordinario una
nuova idea, ') elio una porzione d' idea già posseduta,
nuovamente separata dalle altre porzioni della mede-
sima, e nuovamente determinata in modo eh' ella sus-
sista da se, e sia idea da so, o da so si concepisca.
Or questa determinazione si fa col mezzo della
lingua, cioè con un vocabolo nuovo o nuovamente ap-
plicato. E non è difficilissimo il farlo, perocché la
lingua è già trovata e posseduta, e l'uomo ha chiaro
idoe degli elementi elio la compongono, cioè de' vo-
caboli, e facilmento si aggiunge alle cose trovato.
Ma por determinare gli elomenti della voce umana
articolata, l'unica lingua, come ho detto, è l'alfabeto.
Or questa lingua non era trovata ancora, e niuna
idea so ne aveva. Quindi niun mozzo (2951) di deter-
minare presso se stesso lo idee degli elementi di
dotta voce: o quindi infinita difficoltà di concepir
') Parlo di quollft ideo elio avanzano decisamente lo spli ito ninnilo
l' Intelletto. Avvi molte idee nuovo ohe non non tali se noli porcile nuo-
Ito oomposta «'altro iiloo già noto (al contrario aeljo ideo nuovo «li
«ni qui Sl parlo), Ma queste appartengono 1 jt piti parto all' immagjiiajiio-
no.o spetta ni poeta di procurarcele. K I' intelletto non ci guadagno Altro
nuovo idi» vengono dirittamente dui sensi , quando vedlnm nllamo ec
0080 non p.ii veduto o udito, le quali idee non si l>"" ora determinare
' siano più aempllel e quando più composte delle gin postini-' Mn
questo nuove ideò non derivano dall' Intelletto, del quale adesso r lo-
iiiauto.
,2951-2952-2953) vmm:M
07
Ài fissarle nella pròpria mento; cioè <ti
suono CU noswa vu^, istruito
■ Ma Buppon.hia.no corno ho detto - ,
dell'alfabeto, ^^J^X^ veruna idea
f ?f 1 Se I ne FO ente stato di cose un uomo,
(B 1 e possibile ohe ne P con {'„ sa idea possegga
lanche ignorante, niu. a lontana e ew U
ititi .ifabetoì comandiamogli eh egli aa. &e vm
tali parti 81 1' una dall' altra. A. ogni modo
concepire distintamente 1 una . ^
dopo tutto questo ideo ^^f^^, B i
prandio diffidi! passi ve.so 1 >JW»JJ modo rin .
|oò q- S i certamente credere eh eg m ^ ^
.eira né a trovare e OO^P^.^ ^ uando anche
compongano il «nono della ^^"MgJ ^
trovasse e ^ - gjj**. q for _
vele di questi j^gRl di loro, non '
mare appo se stesso 1 * « rappresentarli di-
avendo i ^^^SSfeS sue proprie
stintamente a se stesso e miel - 0 che siccome
idee, né formerà per nini, modo ! pei W)oli
P^eidee si ^^^SX-i vocaboli si
LBWAMM. - 7'ffimwri, V.
98
>BNS1E»1
(2953-2954)
colla monto. Imperciocché questo appunto è quello che
noi facciamo, senz'avvedercene: rapportiamo ciascun
suono elementare al corrispondonte carattere dell'alfa-
beto e por questo mezzo no concepiamo chiaramente e
determinatamente l' idea distinta e separata, sempre
che ci occorra, e la richiamiamo e riprendiamo u pia-
cer nostro. Cosi facciamo dell'altre idee rispetto alle
parole.
Ed è notabile che in questo secondo caso noi
rapportiamo 1' oggetto della nostra idea alla parola
che lo signìlica, o pronunciata o scritta. Gli uomini
avvezzi alla lettura sogliono per lo più rapportarsi al
vocabolo scritto, e concepir tutt' insieme l'idea di cia-
scuna cosa, dol vocabolo che lo significa e della for-
ma materiale in eh' egli si scrive. Vedi pag. 3008.
Ma gì' illettorati e i fanciulli si rapportano semplice-
mente al vocabolo pronunziato, e ciò basta a concepire
1 ! idea determinata e chiara di qualsivoglia cosa il cui
vocabolo si conosca, o di qualsivoglia vocabolo il cui si-
gnificato l)on s'intenda. Perocché ciascun vocabolo anche
(2954) semplicemente considerato nella sua profferenza.
nella qual solamente possono considerarlo gl' illetterati j
ha tanto corpo, epor cosi dire persona, e tanta consistenza,
che basta a ferire i sensi, e quindi essere ritenuto nella
memoria, e distinto col pensiero dagli altri vocaboli.
Il che non accade circa i suoni della voce. Pe-
rocché osso suono ò il vocabolo di se medesimo; e
quindi 3' idea del suono e del vocabolo che lo significa
essendo una cosa stessa e non potendosi l'uno riferire
all' altro, la mente non è in vcrun modo aiutata dal
linguaggio a concopire determinata monte e ritenere e
richiamare a suo talento le ideo d' essi suoni distinte
1' una dall' altra. Vero è che non potendosi profferir
da sé se non le vocali, tutti gli altri suoni hanno presso
noi una sorta di nome, che non è propriamente esso
suono nudo ; come hi ci sono nomi di h e. E nello
antiche lingue ciascun suono, ancho vocale, portava un
(2954-2955-2956) pensieri
99
suo pi'oprio nome arbitrario o di convenzione (come
son le parole, o vogliam dire come i nomi d' ogni al-
tra (2955) cosa), il qnal nome ora più distinto clie tra
noi da esso suono nudo, onde si può dir ohe in quelle
lingue i suoni della favella avessero i loro vocaboli di-
versi dall' oggetto, siccome 1' avevano gli altri oggetti ;
che il linguaggio aiutasse il pensiero anche circa i
dotti suoni, o che la nuda idea de ? medesimi avesse
dove appoggiarsi e a che riferirsi anche fuori della
scrittura c dell'alfabeto scritto, cioè i nomi conventizi
ed imposti dei detti suoni, e l'alfabeto pronunziato. Per
esempio, àtkf, beth, ghimM, alfa, beta, gamma, iota, età
erano nell'ebraico e noi greco i uomi proprii de' suoni,
diversi da' medesimi suoni.
Contuttociò, se non agli antichi, certo ai moderni si
può considerar come quasi impossibile di concepir chia-
ramente e precisamente , ritener costantemente e ri-
chiamar facilmente lo idee di ciascun suono elementare
della favella, delle qualità proprie di ciascuno e della
loro scambievole diversità, senza la cognizione doli' al-
fabeto scritto. (2956) Né credo che si possa allegare
esempio di chi possegga o abbia posseduto distinta-
mente e perfettamente queste tali idee nel modo e
colle condizioni eh' io dico, senza conoscere i caratteri
che le significano e rappresentano. Vale a dire non
credo che alcuno abbia mai avuto e ritenuto, abbia e
ri l unga la chiara, determinata e distinta idea di cia-
scun suono, senza poterlo riferire al rispettivo cai-at-
tero dell' alfabeto, ma rapportandolo solamente al suo
vocabolo, e non rapportandolo a cosa alcuna, ma
considerandolo col pensiero solamente in se stosso, e
tenondolo semplicomente per se stesso. Non lo credo,
dico, di alcuno, e neppur degli antichi, i quali tengo
per fermo che nel!' imporre i nomi che imposero ai
suoni, avessero tu t,t' altro intento e motivo, ') che quello
') Notisi elio i nomi Halle lettoni imrniclio (onde derivano quoi
Mio Jireulie, die in greco non significano niente) hanno tulli nnasignifli
100
l'KNSlKILl
(.2956-2957-2958)
di aiutai- con ossi nomi il pensiero, e di far oh' ossi
suoni si potessero insegnare separata monte dall' alfa-
beto scritto, ed esser saputi, conosciuti distiri tamonto
e costantemonto ritenuti da quelli che non conosces-
sero i caratteri né potessero in uhm modo Wgtìr©.
Certo i fanciulli (2957) oggidì non prima imparano a
distinguerò i suoni del proprio lor favellare che ad
intendere i caratteri che li significano, ne la distilli a
cognizione e idea di quelli è nolle nienti loro por alcun
tempo scompagnata dalla cognizione e dalla idea di
questi.
Per le quali ragioni io dissi di sopra (p. f!953j
che noi colla nostra mente rapportiamo sempre cia-
scun suono elementare della favella al corrispondente
carattere dell'alfabeto, quante volto concepiamo nella
monte nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti
suoni; e non dissi al nome o vocabolo de' medesimi.
Con queste considerazioni fra l'altre, e per questa
via, si può facilmente comprendere e sentire die l'in-
venzione dell'alfabeto fu. si può diro, cosi difficile ed
è cosi maravigliosa come fu od è l'invenzione della
lingua. Perocché quel medesimo clic dee farci maravi-
gliare intomo alla lingua, cioè conto sionosi potute
Avere idee chiare e distinte senza 1' uso delle parole,
e come inventar (2958) le parole senza avere idee
chiare e distinte alle quali applicarle, questa mede-
sima meraviglia ha luogo in proposito dell'alfabeto.
Potendosi appena concepire corno questo abbia potuto
preceder lo ideo chiare e distinte do' wuoiii elemen-
tari, o come tali ideo abbiano potuto essere innanzi
alla cognizione de' segni cho li figurano. Ondo si può
applicare all' alfa boto quel detto di Rousseau, il quale
idiomi Uidlpbadoiite allatto ilul animo dulia rlspottiva lotterà e son pa-
nila Julia lingua, nò lanino religione alcuna tra loro, nò oolhi rispetliTJI
lettoni altio elio H cbmlnolnre appunto per orna, conio tiììf dottrina, brth
101
confessava che nella considerazione della lingua e
nello investigare e spiegare l' invenzione della mede-
sima, trovavaai in grandissimo imbarazzo, perché non
sembra possibile una lingua formata innanzi a una
società perfetta, né una società quasi perfetta innanzi
all'uso d'una lingua già formata e matura.
Anzi, a rispetto doll'alfaboto, cresce sotto un certo
riguardo la meraviglia. Porche ideo chiare e distinte
d'oggetti sensibili o sensibilmente distinti gli uni
dagli altri si poterono avere anche senza l'uso dolle
parole, e trovate lo parole a signilicar questi oggetti
si potè col mozzo dello similitudini e dolle metafore
(principale (2959) strada per cui tutte le lingue si
accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno sen-
sibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili,
i meno chiaramente concoputi, e finalmente gì' insell-
ai l>i li o gli oscnrissiini; e trovare il modo di signifi-
carli. Ma questa scala non ebbo luogo in ordino al-
l'alfabeto, che ó, come ho detto la lingua significante
i suoni elementari. Tutti questi, benché cadano sotto
i sensi, sono tuttavia cosi confusi, legati, stretti, in-
corporati gli uni cogli altri nella pronunzia della fa-
vella, cosi lontani dall'essere in modo alcuno sensi-
bilmente, distìnti, e la loro diversità scambievole è
Cosi difficile a notare, eh' ella è quasi fuor del domi-
nio de' sensi, e la difficoltà di concepire l' idea chiara
e distinta di ciascuno di loro senza i sogni, e di tro-
varne i scoili senz'averne concepii to lo chiare e distinto
idoo, non è qnasi aiutata da verun rispetto, né fu po-
tuta vi ncoro gradatamente, ma quanto alla parte prin-
cipale e alla somma dell'invenzione, essa difficoltà
tu dovuta necessariamente vincere tutta in un tratto.
Questa (2960) invenzione, por dirlo brevemente, ap-
parteneva tutta ali 1 analisi ; è di natura sua tutta
Opera ed ottetto di questa; richiedeva essenzialmente
la risoluzione negli ultimi e semplicissimi elementi,
le quali cose sono appunto le più difficili all'umano
102
PENSIERI
(296Q-29G 1-2962)
intelletto e le ultime operazioni eli' egli soglia giun-
gere li l'aro (12-14 luglio 1823).
* Supponete un cieco nato al quale una felice ope-
razione nella sua età già matura o adulta, doni im-
provvisamente la vista. Domandategli o considerate i
suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, lo quali
non appartengono alla considerazione del bello esat-
tamente e filosoficamente inteso) circa il hello mate-
riale o il brutto materiale degli oggetti visibili che si
presentano &' suoi occhi. E voi vedrete se quosti giu-
dieii sono conformi al giudizio ohe generalmente si
suol fare di quegli oggetti sotto il rapporto del bollo;
o so piuttosto essi non sono difformissimi o contraris-
simi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delica-
tezze, ma nollo parti e nelle cose più sostanziali. Di
ciò non mancano esperienze (2961) effettive e prove
di fatto, perché la circostanza eh' io ho supposta non
manca di esempi reali.
E il cieco nato, restando cicco, quali idee conce-
pisce egli della forma umana e di quella degli altri
oggetti ch ! ei può pur conoscere per mezzo dol tatto?
quali idee circa la loro bellezza o bruttezza? crediamo
noi che queste idee, questi giudizi eh' ei forma con-
vengano collo ideo e co' giudizi degli uomini elio veg-
gono? e che sovente non sieno contrarissime a que-
sto ? Ma se esistesse un bello ideale o assoluto, non
dovrebbe il cieco nato conoscerlo, come si protende
ch'oi conosca naturalmente e che tutti gli nomini co-
noscano il bello morale che si crede essere assoluto,
il qual bello inoralo niuno lo vedo, come il cieco non
vede il bello materiale? U nollo qualità che si cre-
dono assolutamente belle o brutte in questa o quolla
specie d'oggetti; e massimo in quello qualità che ap-
partengono agli oggetti che il cieco nato conosce per
mozzo degli altri sensi fuor della vista; o più in
qUello che appartengono alla specie umana, della (2962)
(29G2-2963) h«sietii _
Lak esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero
le idee ed i giudizi del cieco, in quanto egli può com-
prenderle, convenire col giudizio e colle idee di quelli
che veggono, circa il bello e il bratto che ne deriva
o elio n'è composto? non dovrebbero, dico, convenire,
almeno per ciò che spetta al so sten zi alo e al princi-
pale'-» Laddove ciascuno di noi é persuaso eh' esse idee
e Sriudizinon convengono eoi nostri, so non forse ac-
cidentalmente, anzi per lo più no sono remotissimi e
contrarissimi (14 luglio 1823).
* [1 fanciullo, il cieco nato che abbia improvvisa-
mente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qua-
lunque nazione, tempo, costume, gusto opinione, con-
sidera la gioventù come bella in so più della vecchiezza.
La gioventù quanto a se par bella a tatti assoluta-
mele Kssa è por tutti una qualità bella (si considerata
negli uomini che negli animali per la più parte, o cosi
nelle piante e nel più deUe specie che ne sono par-
tecipi) ec. Questo consenso universale non prova punto
I che v'abbia una qualità essenzialmente e assoluta-
mente bella per se medesima, o necessaria al la com-
posizione del bello in nessun (2963) genero di cose
giacché la convenienza non è una qualità che com-
ponga il bello, una parte che entri nella composizione
del bello, ma il bello consiste in ossa, essa e il bello,
o viceversa il bello è convenienza e non altro).
1° La gioventù si chiama bella, come si chia-
ma bello' un color vivo. Né l'ima né l'altro mon-
tano questo nome filosoficamente. La bellezza oro non
è convenienza: ma il bello filosofico non e altro che
convenienza. Quello che ci porta a chiamar bella la
gioventù non è giudizio ma inclinatone. TI piacere
ohe deriva dalla vista della gioventù non si perce-
pisce per via del giudizio ma della inclinazione, e
quindi non spetta alla bellezza. Altrimenti gli uomini
diranno che l'esser donna assolutamente è bellezza,
104
MfflSimi (2963-2964-2965)
pèrca' essi veggono con più piacore una donna elio
nn uomo. Ma le donne diranno al contrario. Queste
qualità non hanno a far niente col bello filosofica-
mente definito. Esse spettano alla ennsideraziono del
piacere che nasce dall'inclinazione, (2964) la quale
ptìò ben essere universale in una specie, ed anche in
tutte le speeio, perché può esser naturale e innata.. Lo
idee son quelle che non possono essero innate. JS il
piacore che reca la vista della gioventù è una sen-
sazione pura, non- un' idea, né deriva da un'idea. Che
lia dunque che faro col bello ideale? Questo non può
essere che un'idea. Il caldo, il freddo, l' amaro, il
dolco, che niuno chiama belli né brutti, appartengo-
no alla categoria della gioventù. L' effetto eh' essi
producono noli' uomo o nell' animale, in quanto esso
effotto è attualmente piacovolo o dispiacevole, non è
idoa ma sensazione. Dunque non è né bello né brutto.
Cosi né più né manco 1' offetto che produce nell'uomo
o nell' animale la vista della gioventù. Il cieco nato,
adunque, che vedo per la prima volta una persona
giovane e trova la gioventù piacevole a vedero, non
prova I' effotto di niuna bellezza, ma di una qualità
olio la natura ba fatto ossor piacevole a vedere (2965)
come il dolce a gustare. Egli non giudica allora, ma
sonte. Se dipoi sopra questa sensazione egli fonda e
forma un giudizio c un' idea, come gli uomini sem-
pre fanno, questa è venuta dalla sensazione, e non
da un' idea innata, cioè da quella del bello elio si
suppone ideale. Bensì quella sensazione, in quanto
piacevole, è venuta da una qualità innata e naturale
in quel cieco, ma questa qualità non e un'idea; essa
e un'inclinazione e disposizione, né deriva né risiede
né spetta punto por se all' intelletto. Nel quale, o non
altrove, dovrebbe esistere o risiodore il bello idealo,
s' egli osistesse. E noli' intelletto quindi debbono ac-
cadere gli effetti del vero bello veduto, o non altro-
ve; e da esso derivarno lo sensazioni. Ma nel caso
105
(2965-2966-2967) pensieri
nostro accade il contrario. L' idoa è cagionata nel-
l'intelletto dalla sensazione..
0osi discorrete del fanciullo. 11 quale neanche si
può cosi semplicemente dire che trovi piacevole a vo-
doro la gioventù , appena e la prima volta eli' oi la
vede ; che gli paia, come si dice, bella assolutamen-
te e per se, e più bella della vecchiezza, al primo
vederla. (2966) Ho notato altrove quanto spesso una
persona giovane gli paia e sia da Ini espressamente
ìjivMcata bruttissima, e una persona vecchia bellis-
sima (ancorché ella sia a tutti gli altri brutta, ezian-
dio per vecchiaie ciò per varie circostanze. E ì soprad-
detti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non
v' hanno luogo costantemente e sicuramente, né m
modo che non sia accidentale e di circostanza, se
non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione
naturale verso la gioventù, massime in ordine agl'in-
dividui della propria specie; il quale sviluppo, spe-
zialmente ne' paesi meridionali, accade noi fanciullo
assai presto, e molto prima eh' egli sìa in grado ce.
' Vedi l'Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno m
parte. E audio circa il cieco nato che acquisti im-
provvisamente il vedere, dubito molto che egli
ne' primi momenti, e anche no' primi giorni, trovi
assolutamente bello, come si dice, 1' aspetto della gio-
vanezza per so medesimo, e più bello che quello della
vecchiezza ec. Del resto, il cicco nato, restando pur
cieco, troverà certo più piacevole, (2967) per esempio, la
voce giovanile che la sonilo, e tutte le altro sensazioni
che gli verranno da persone giovani, in parità di cir-
costanze, lo troverà più piacevoli di quello che gli ver-
ranno da persono vecchie; e l'idea eh' ogli eoncopirà
della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per Ini più
piacevole e, corno si dice, più bolla che la contraria, o
piacevole e bolla per so medesima. Ma tutto ciò sarà
effetto della inclinazione, e non derivato originalmente
dall'intelletto ec.
106 l'ENSiEiu (2967-2968-2969)
2", La gioventù non è necessaria alla composi-
zione del bello, neppur nelle specie nollo quali essa
ha luogo. Essa ancora è una qualità relativa, ezian-
dio considerandola dentro i termini d' una inodosima
specie di coso. Per esempio, parlando della specie
umana, egli si dà un bel vecchio, nionto mono che un
bel giovane. V'è la bellezza propria del bambino, del
fanciullo, della età matura, dell'età senile, della de-
crepita ancora, niente manco che quella propria del-
l'età giovanile (vedi Senofonte, cap. IV, § 17 del Con-
vito), in molti (2968) casi la giovinezza, ripugnando
alle altre qualità dell'oggetto, ovvero a talo o tal
altra circostanza estrinseca a lui relativa, ella non
solamente non servirebbe a comporre il bollo, ma gli
nuocerebbe, lo distruggerebbe e produrrebbe addirit-
tura il brutto, appunto in quanto giovanezza; di modo
che quell'oggetto sarebbe brutto ospressainontc por-
che giovane, quel composto sarebbe brutto preeisa-
monto in tanto in quanto la giovanezza v'avrebbe
parte. Per esempio, gli antichi rappresentavano gli Dei
giovani. Tali erano le loro idee, e bene stava. Ma
oggi chi rappresentasso il DÌO Padre coli' aspetto
della giovontù , invece della vecchiezza , questa effi-
gie, in quanto giovanilo. sarebbe ella bella ? No, anzi
brutta, appunto in quanto giovanilo e in quanto al-
l'aspetto della giovanézza, perché le nostre idee e
l'uso nostro e le qualità che la nostra immaginazione
attribuisce a Dio Padro , ripugnano a questa qualità.
Ancho fra gli antichi una immagine, una statua gio-
vanile di CHove rognante e fulminante, sarebbo stata
brutta in quanto giovanile. L forse che l'aspetto di
Giove nelle anticlio immagini è brutto ? Anzi bellis-
simo, ma non giovane. (2969) Nó perciò mon bollo di
Apollo giovano, né di Mercurio pili giovano ancora,
né di Amore fanciullo. La giovanezza in questi tali
casi cagionerebbe la bruttezza, perché sarobbo scon-
veniente Cosi fanno tutto 1' altro qualità nello stesso
(2969-2970-2971) SSWSIBM
107
caso por la stessa ragione. Dunque la giovanezza,
come tutte 1' altre qualità, e può essere sconve-
niente, ed essendo, cagiona I .rutto»». Dunque ella,
come tutte l'altre, non cagiona bellezza so non quando
conviene. Dunque la gioventù non è cagione ne parte
di bellezza assolutamente né per se, ma relativamen-
te e solo in quanto olla conviene, e ciò consideran-
dola eziandio in quelle solo spezie di cose che possono
partecipare, e di più dentro i termini d'una medesima
specie. Dunque la gioventù, filosoficamente ed esat-
tamente parlando, non appartiene per se alla bellezza
più di qualsivoglia altra qualità; e, come tatto fal-
tre, è resa propria a formar la bellezza, non da altro
che da una cagione a lei estrinseca e diversa, e per
se variabilissima e incostante, cioè dalla (2970) con-
venienza. La quale ora, ammettendo la gioventù, la
ronde propria al detto uffizio, ora. escludendola, ve la
rendo al tutto inabile.
Potrà dirsi che, se non altro, la bellezza giova-
nile è maggiore, per esempio, della senile. Potrei ri-
sponderò ch'ella è più piacevole, ma non già maggior
bellezza per so, non essendo maggior convenienza. Il
fatto però è questo. L'ordine universale della natura,
indipendentemente affatto dalla bellezza, porta che lo
forme e le facoltà dello specie capaci di gioventù e
di vocchiozza si trovino nella maggior pienezza con-
veniente alla rispettiva specie e nella maggior perfe-
zione relativa ad essa specie, nel tempo della gioventù
perfetta di ciascun individuo. Quindi non assoluta-
mente, ma relativamente all'ordine attuale della na-
tura, si può dir che, per esempio, la forma dell' uomo
perfettamente giovane è più perfetta di quella del
vecchio, e la più perfetta di tutto quelle dello quali
l'uomo è capace Laonde la bellezza della sua forma
giovanile si potrà dir maggiore di quella della sonile.
(2971) Ma questo maggioro è accidentale, e propria-
mente non appartiene alla bellezza, ma a quel soggetto
108
pensieri 1.297 1 -297 2-2973Ì
in cui eliti si colisi doni. Perocché la forma giovanile a
cui essa bellezza appartiene è, per rispetto alla natura
dell'uomo, e non por rispetto al hello, più perfetta
della senile. E quindi, a parlare esattamente, nasco
che la bellézza giovanilo dell'uomo non sia bellezza
maggioro della senile, ma appartenente ad una forma
elio è la più perfetta di cui l'uomo sia capace, cioè
alla giovanile. Onde la perfezione e la maggior per-
fezione non è qui propria della bellezza, ma del sog-
getto a cui ella appartiene accidentalmente, cioè della
forma giovanile dell'uomo. E però la forma giovanilo
non può per so entrare nella composizione di quel
che si chiama bello ideale: giacché essa forma può
ben ossero il soggetto del bello (siccome può anche
non essere, e spessissimo non è), ma non è già esso
bello, e la bellezza non gli appartiene, elio accidental-
mente od è del tatto (2972) estrinseca e diversa alla
di lei natura. E concbiudesi che la bellezza giovanilo
è bellezza relativamente alla forma giovanile, ma non
assolutamente, né in quanto giovanile, dandosi bel-
lezza scompagnata dalla gioventù, anche nella mede-
sima specie. Sicché la bellezza giovanile è come tutte
l'altro relativa, e non assoluta. Eelativa cioè alla
forma giovanile. Tanto è lungi che la gioventù sia
per se si essa una qualità bella, quando non ò che il
soggetto della bellezza, e può esserlo e non esserlo, e
la bellezza, può stare iu una medesima specie con e
senza la giovanezza (14-15 luglio 1823).
* Il toma di poto rlov' esser pò (fatto da r.r'im-mh ,
come do da iómrhiè , no da véoo-v/ù), di cui poius, come
il toma di vaio è no, di cui natili (15 luglio lfS2ìi).
* Prisciano riconosco il verbo Icgito da Irgo, invece
di ledo o di lectito che pur sussistono. Questo legito
conforma quello ch'io ho detto altrove in proposito
di (2973) agito, cioè che gli antichi, anzi originali,
10!>
(2973-2974) pbnsikbi
Copri o regolari partioipii di questi tali verbi fos-
sero, por esempio, ayitm, legitus, docitus, onde per sin-
cope agtus, kgtùt, e in ultimo aclus, lectus, docius. JL
ci dimostra evidentemente l'originalo, primitivo e
perduto participio di Ugo, cioè legitus. E non Ini elio
fera* Cogito, come dice il Porcellini o Pnsciano
' stesso appo lui, il quale non viene da rogUm, ma da
Lnatus come mussito da mussatus, e come ho provato
largamente altrove. Giacché il toma di rogito, cioè
roao, appartiene alla prima coniugazione, e non alla
terza corno lego, né alla seconda come > doceo , o poi o
la formazione del suo continuativo o frequentalo e
.soggetta a un'altra regola, da me altrove stabilita.
Eccetto se rogo non avesse anticamente avuto un
participio anomalo rogitus (come domo domdus), del
olio mi pavé aver detto altrove, inducendom, in que-
sto sospetto la voce rogito, cioè rogato (quasi un ag-
gettivo neutro sostantivato), la qual voce e latino-
barbara (vedi il glossario cang.) (2974) e italiana (15
luglio 1823).
* Urito presso Plauto, se questa voce e vera, di-
mostra il perduto e regolare participio «ritusài uro,
invece di ustus, ondo ustulo ee. (16 luglio 182.3). Vedi
p. 2991.
*AUa p 28B4. Noi abbiamo anche i positivi
frate e suora, cioè fiatar e soror. I francesi non hanno
che i positivi. Frogie spagnuolo, cioè frale religioso
sembra essere un diminutivo di frater, cioè non che
sia diminutivo in ispagnuolo, ma che sia venuto da
fratelli o dall'italiano fratello (16 luglio 1823). "Vedi
p. 2983, fine.
* So la voce eruetus appresso Gelilo è vera, essa
non si potrebbo considerare so non come mi partici-
pio d'un verbo anteriore ad crucio, e ruoto, dai quali
(2974-2975-2976)
si fa ruotatila ed eructatus, conio da polo ' potatiti), e
non potus, il qual potus dimostra un verbo originario
di poto. Euctus un eziandio par che dimostri un vorbo
originario di ruoto 6 di eriwto, l'ormandosi, come al-
trove ho notato, questi sostantivi verbali della quarta
declinazione da' participi in US (2975) de 1 loro verbi
originali, sicché da nido si farebbe ructatvs us, non
ructus. Cosi molus us viene da moveo, non da moto
as f potus us da po, non da poto ec. Queste conside-
razioni mi portano a sospettare che ruoto ed eruoto
siano continuativi d' un tema perduto, a cui spettino
wuctus a «m appo (rollio, e ructus US, ondo ruetuo e
ructuoxus. Anche eructuo vedi nel Porcellini in EructQi
Al qual sospetto mi spinge massimamente la forma
propria e materiale di ruotare ed eruotare tutta conti-
nuativa (1G luglio 1823).
* Alla p. 2786, margine. Anche «jmws potrebb'os-
ser preterito medio o di Spiuu , come èì&d»< di elòm
da oiw., o di àpxó.tu contratto, come éoti'd? da isto&g
di otaui, Pt^tìi? da fkfìaib; di pam ec. Non si direbbe
però Éatoìtt né ps^uìa ec, come e ; .v.uia, titola., àpKDÌa, ina
i<JW)xoto oc. attivo, o attivi o medii che siono iorioc.,
$*$à>i ec. die non si trovano, eh' io sappia, se non
mascolini o neutri. I quali participii molti li chia-
mano attivi e contratti nel modo che ho dotto alla
p. 2786 e 2788, margine (e vedi Sclirevel. in B*3ù>«)
ma altri, e credo con più ragione, li chiamano medii
e contratti nel modo dotto qui di sopra. L'attivo par-
ticipio perfetto di àpKw sarebbe non àpmu;, ma fyfùi o
&ffàs4 conio tropee di -ilpnu). Di àpitàw però sarebbe
àptnjuin o ^piti|x«i«i conio (2976) ho dotto a pag. 2776,
ovvero anche &pitax£>{ o ^pitqtxùij, come àpirt/.Liu né più
né meno, il quale fa %ita*a (16 luglio 1823). Vedi
p, 2987.
* Benché materiale, non sarà perciò vana 1' osser-
2976-2977-2978) PtìNSJBRi
yazione «Lo i poemi d' Omero, massime V Iliade, avuto
rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in
un dato nunioro di parole o di versi dice molto più
elio le lingue moderne naturalmente e ordinariamente
non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi
di tutti i poemi epici conosciuti nelle letterature eu-
ropee. Paragonati all' Eneide, ch'è pooma scritto nella
lingua più di tutte vicina alla detta facoltà della lin-
gua groca, oltre eli' essi sono composti di vontiquattro
libri ciascuno, laddove 1' Eneide di soli dodici, si trova
elio avendo I' Eneide 9896 versi, V Odissea n'ha 12096 e
l' Iliade 15703 , il qual computo l'ho fatto-io mede-
simo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa
misura che quelli di Omero. Questo parallelo cosi
osatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle
lingue moderno, si per la differente misura (2977)
de' versi o quantità delle sillabo che questi conten-
gono, ai molto maggiormente perché lo lingue mo-
derno hanno bisogno d' assai più parole che non In.
lingua greca e latina per significare una stessa cosa.
Onde quando anche v' avesse qualcho poema epico
moderno che di parole eccedesse quelli d' Omero, credo
però che tutti debbano consentire che nel numero,
por cosi dire, o nella quantità delle cose niuno ve
n' ha elio non sia notabilmente minore di questi, o
certo dell'uno d'essi, cioè dell' Iliade.
Ora ella ò pur cosa mirabile ad osservare che lo
spirito e la vena di Omero, l'uno tanto vivido, ga-
gliardo o fervido e l' altra cosi ricca o feconda in
ciascheduna parte, abbiano potuto reggerò, lascio
stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per
cosi lungo tratto. Perciocché tutti gli altri poeti epici,
avendo tolto, qual più qual meno, quale direttamente
e qualo indirettamente, qual più visibilmente e qual
pili copertamente da lui, o successivamente gli uni
dagli altri di mano in mano, si vede tuttavia che
non hanno (2978) potuto roggore a un corso cosi
112
(2978-2979)
lungo, per vigorosi u vivaci che fossero, e sonasi coli-
teli tati d'una carriera assai più breve o bene spesso
prima di giungere a) termine di questa medesima,
hanno pur lasciato cliiaramonto vedere che si trova-
vano affaticati, o che la lena e 1' alacrità veniva lor
manco, tanto più quanto più s'avvicinavano alla meta ').
E Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Ome-
ro?, nolla seconda metà della sua Eneide riesco cvi-
dentemento languido e stanco, e diverso da so medesi-
mo, so non nella invenzione 2 ) certo però nell'esecuzione,
cioè nello immagini, nella espansione o vivacità de-
gli affotti e nello stile, il elio non può esser negato
da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la
lingua, la versificazione di Virgilio, anzi a questi
tali la differenza si fa immediatamente sentire: e ve-
desi che 1' immaginazione di Virgilio era por la lunga
fatica illanguidita , raffreddata e sfruttata; non ri-
spondeva all'intenzione del poeta; non (2979) gli ub-
bidiva; egli poetava già per instituto e quasi doluto,
per arto o per abitudine, arto e abitudine clic in lui
orano eccellentissimo, e possono ai meno esporti sem-
brare impeto od ópjvij poetica, ma non sono o non
paiono tali ai più accorti, i quali in quegli ultimi
libri desiderano la vena la Rpo^oiuiz, l'alacrità di Vir-
gilio. JV invenzione doveva esser stata da lui tutta
concepita e disposta fin dal principio, com' è natu-
rale in ogni buon poeta, e massimo in un poeta di
tant' arte e maestria. Quindi s'ella nel fine non è in-
feriore al principio, mima maraviglia. L' immagi-
nazione ora cosi fresca quando inventava, il fino del
poema, come quando inventava il principio. Ma non
minor t'orza, vivezza, attività, prontezza, fecondità
') 1M questo ofiserv-imimii ai rieduco quanto In, nsiliiiji n l'intuglio
non pttì L'ItóoUl flell'arte ci oome l'imitatore e soniiu'e più povero dell'imitato.
V'odi AlgttrottJ, Pentiert, Opp., Cwunon», I. Vili, j>. 7!Ì.
*) Vedi Olintcntibriniiu, nènie. Parte, IW, J'iir. II, 1.8, oli; 10, Due,
t, n, p. 106-8,
(2979-2980-2981)
113
ci' immaginativa si richiede allo stile, ossia all'ese-
cuzione che all' invenzione. Anzi si può dire elio lo
stile poetico, e nominatamente quello di Virgilio, sia
un composto di continue, in numerabili e successive
invenzioni. Ogni metafora, ogni aggiunto che abbia
()uolla mirabilo (2980) o novità ed efficacia eh' e' so-
gliono avere in Virgilio, sono tante particolari e
distinte invenzioni poetiche, come sono invenzioni
le similitudini, c richiedono una continua energia,
freschezza, mobilità, ricchezza d' immaginazione, e un
concepir sempre vivamente e quasi sentire e vedere
qualsivoglia menoma cosa che occorra di nominare o
di esprimere eziandio ili passaggio e per accidente.
Anche in ogni altra parte dell'esecuzione, cioè nelle
immagini ec. e nella vena degli affetti, anche in si-
tuazioni elio per la invenzione sono patotichissime ec.
Virgilio ne' sei ultimi libri è inferiore a se stesso, che
che ne dica Chateaubriand. Vedi p. 3717.
In verità questo aftievolimento e spossamento
dell' immaginazione, del calore, dell' entusiasmo in un
poema di lungo spirito, non solo ci dee parer perdo-
nabile, ma cosi naturale ch : egli sia quasi inevitabile
anche ai più grandi e veri poeti. Massime conside-
rando quella continuità d'azione che si richiede al-
l' immaginativa, nel modo spiegato di sopra. Ma
Omero, da ni uno attingendo, non avendo esemplari
coli' uso o meditazione de' quali, se non altro, risto-
rasse le sue forze, si rinfrescasse e ripigliasse animo
(come accado ai phi originali poeti), senz'altro né fonte,
aé (298 1 ) soccorso, né modello, né sprone che se me-
desimo, la sua propria immaginativa e la natura, in
uno, anzi in due in tori poemi più lunghi di tutti
quelli eh' essi poscia hanno prodotti, non mostra mai
né quanto all'invenzione né quanto allo stilo il
incuoino langnoro o isterilimento, ma dura fino al-
l' ultimo colla stessa freschezza, vivacità, efficacia,
fiochezza, copia, impoto, cosi intero di forze, cosi
LlSOPAKUl. — l'e.mieri, V. 8
114
vensieri (298 I -2982-2983)
abbondante di novità, cosi fervido, cosi veemente, cosi
mosso ed affetto dalla natura o dagli oggetti che se
gli presentano o eh' egli immagina, come nel princi-
pio. Massimamente nella Iliade.. Nella quale anzi la
ricchezza, varietà, bellezza, originalità e forza dell'in-
venzione tanto ph'i s'accrescono, quanto più si avanza
ed è maggiore nel fine che nel principio.
E veramente si può dire elio Omoro fu molto più
ricco del suo solo, elio tutti gli altri poscia non fu-
rono del loro proprio e dell' altrui accumulato insieme.
Ne certo, secondo le addotte considerazioni, doo pa-
rer poco maraviglioso e notabile, benché materiale, il
dire che i poemi epici d'Omero sono più lunghi di
(2982) tutti quelli, che da essi in uno o altro modo
derivarono (poiché anche il Paradiso perduto e la
Messiade derivano pur di là), o che di essi in una o
altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo
che in tutta la loro estensione essi sono i medesimi,
cioè sempro veri poemi, e sompre uguali a so stessi,
il cho non si può neppur sempre diro di tutti gli al-
tri sopraddetti.
Par che l'immaginazione al tempo di Omero fosso
come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai
lavorati, i quali, sottoposti che sono all'industria
umana, rendono ne'primi anni due e tre volto pili, c
producono messi molto più rigoglioso e vivide che non
fanno negli anni susseguenti, malgrado di qualsivoglia
studio, diligenza ed efficacia di coltura. 0 come quei
cavalli indomiti, lungamente ritenuti nello stalle, cho,
abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e
gagliardi do' cavalli esercitati e addestrati, dopo aver
fatto un doppio spazio. Tanto cho, considerando la
freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione
di Omero nolla lino della Iliade, par eh' oi non lasci
di poetare (2983) e non chiuda il poema, so non per-
eh'oi vuol cosi, o per esser giunto alla meta eh' ei
s'era prefisso, o perché ogni Opera umana doo pure
(2983-2984)
l'BNSIWU
115
aver qualche ime, ma che, fuori di questo caso, egli
avrebbe ancora e spirito o Iona per seguire, senza pur
posarsi, a correre ancora non intenottamente altret-
tanto e maggiore, anzi non determinahilo spazio; o
cho l' opera sua riceva il suo termine, ma la ricchezza
e copia della sua immaginativa non sia di gran lunga
esaurita, anzi sia poco meno cho intatta; e che il suo
corso finisca, ma non il suo impeto.
E par che la natura ancor vergine dalla poesia
(siccome vergino dallo scienze e dalla, filosofia ec, che
distruggono l'immaginazione e l'illusione ch'essa na-
tura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta
copia d'immagini e sentimenti che non avesse quasi
alcun fondo, e a rispetto di cui sembri povera e scarsa
quella che i più grandi poeti trassero poscia in qua-
lunque tempo dalia natura già molto studiata e imi-
« tata (16-17 luglio 1823).
* Alla p. 2974. Cervello (eerebellum), evrveau, cervello
da eerebrmn '). Crivello (cribellwm, come flabellum da
yftabrum) diminutivo di eribrum. I francesi crible, gli
; spagnuoli (2984) crina. Ccrebro, celabro, cribro, cribra-
re, oc. per crivellare oc., non sono voci volgari, ma tolte
dal latino dagli scrittori. Cosi lo spaglinolo celebro,
invoce di cui volgarmente dicono sesso. Cosi pure il
nostro moderno e tecnico cerebello. Trivello o trivella
(Porcellini in tcrebra) voci nostre volgari, onde nella
Crusca trivellare, sono quasi terebellum o terebella di-
minutivo dol latino tcrebra, come ccrebellum e cervello
di cerebrum. Vecchio, viejo, vieìl sono indubitatamente
diminutivi di vcf.us , come pecchia , avcja , abeille da
apertila, l'orse da netulus o da veculus volgarmente
contratto da vetuseulus. Vienne forse ò lo stesso elio il
positivo vetus. Vedi por tutte le soprascritte voci il
') V,Mi i>. 3610.
no
PKNK1EKI
(2984-2985-2986)
Porcellini o il glossario, se hanno nulla a proposito
(17 luglio 1823). Vedi p.' 3514, 3557.
* Trapano, trapanare, trépan, trépaner Tpriiwov oc.
(17 luglio 1823).
* Usitari e altri tali frequentativi o diminutivi da
me notati poscia qua e là, sono da aggiungersi a
quelli che io notai già tutti insieme poi' dimostrare
ohe molti verbi hanno il frequentativo in itare senza
avere il continuativo in tara, contro il porcellini che
spesso dice quello esser derivato da questo (2985) (17
luglio 182S).
* Se molti continuativi latini non hanno una si-
gnificazione continuativa del verbo originale, ma uguale
o poco diversa da quosto, ciò non toglio che la virtù
della loro formazione non sia veramente continuativa,
e die la proprietà loro non sia tale; benché non sempre
osservata e custodita dagli scrittori latini, o in al-
cuni verbi non mai, per lo ragioni dette altrove. Che
se questa obbiezione valesse, ella varrebbe né più
né mono contro coloro che chiamano quei verbi fre-
quentativi, non trovandosi eh' essi abbiano sempre o
tutti un significato diverso da' verbi originali, e var-
rebbe anche circa quei medesimi verbi in tiare ch'io
dico ossor voramonte frequentativi di formazione. Per
esempio, il Porcellini in parito dice ch'egli è frequen-
tativo di paro (e per formazione può infatti esser non
meno frequentativo che continuativo), soggiungendo
et eiusdem fera tigni jicatvmis. Cosi in haetito, e spes-
sissimo. Dunque la detta obbiezione farebbe tante
contro i passati grammatici o lo passata denominazioni
e teorie de' verbi formati (2986) da' participi! in us,
quanto contro di me o delle mie denominazioni, di-
stinzioni e teorie Ho tali verbi non hanno senso con-
tinuativo, neanche l'hanno frequentativo. Dunque l'oli-
(2986-2987) rBKfilEta 11 <
biezione non è più per me die per gli altri (17
luglio 1823).
* È notabile che tutte le maniero di verbi frequen-
tativi o diminutivi italiani da me altrove enumerati,
come saltellare, salterellare ec, sono immancabilmente
e solamente della prima coniugazione, aneorclic U
verbo originale e positivo sia d' alba coniugatone,
come smVere, onde scrivacchiare ec; nò più ne manco
che in latino tutti i continuativi e frequentativi o
diminutivi (se non forse pochi anomali) del genere
ch'io ho preso ad esaminare, da qualunque coniuga-
zione essi vengano; ed anche altri verbi derivativi,
si eno diminutivi sieno frequentativi sieno 1 uno e
l'altro insieme ce, di verbi originali ec. con diverse
formazioni, che non spettano alla mia teoria ed isti-
tuto, come miniare, miseulare, di cui altrove ec., pan-
mcularì, vellicare (vedi p. 2996, margine), serbili», Can-
tillo consertbiUo ec., cavillar, miMiculo , claudico ec.
, Ancìio in francese tali verbi diminutivi ec. e cosi m
ispagnuolo mi par che sieno della prima coniugazione
(17 luglio 1823),
* Scambio del v in g, del quale ho detto altrove.
Nuvolo (dal latino mAilum)-nu<,olo. Pafohjsr Pavolo
e Paulo (spagnuolo Pablo) (18 luglio 1823).
* Dico che nella formazione dei continuativi da' verbi
della prima, l'ultima a del participio si cambia in ».
Da mLatus multare. Ed aggiungo che i verbi della
prima non hanno se non questo o continuativo o fre-
quentativo, e non un altro frequentativo che verrebbe
a essere in mare. Si eccettuino (2987) i verbi il cm
participio è dissillabo, come do, fio, no-datus, flatw
natus, i quali non mutano Va in i, ma la conservano.
Datare, fiatare, nettare. E da questi participi! si potrà
anche fare un distinto frequentativo in itare, sebbene
118 pensikkì (2987-2988)
ora non mi sovvonga esempio al proposito (18 lu-
glio 1823).
*Alla p. 2677. Anche il volgo e il discorso fami-
liare spagnnolo usa quosto idiotismo del singolare dice
per lo plurale dicono. Nella Historia dal famoso l're-
dicador Frny-Oerundio de, Òemvpazds s' introduce un
Contadino chiamato Bastimi Bori-ego a usar queste frasi
plebeo disquc, disque per dicen que (18 luglio 1823).
• Alla p. 2976, TsìKvjv.m.: ; teftvsnuù^ , tv)ì)-v7)<ì>«, ts )}■ ve :.mc ,
t«*v«(HS . Teftyjàj e «»vi»« sono tutti chiamati dai Gram-
matici participi! perfetti della vooo attiva- di 9y^mw>,
o »yaó) ce, e non della inedia, ma contratti dai due
primi (18 luglio 1823).
* La gioventù non era fra gli antichi un liono mu-
tilo e un vantaggio da cui niun frutto si potesse ca-
vare, né la vecchiezza era uno incomodo o uno (2988)
svantaggio che niun bene, niun comodo, niun godi-
mento togliesse, e niuna privazione recasso seco. Quindi
e molto mono frequente che a' tempi nostri era il nu-
mero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti
più vecchi suicidi si trovano commemorati nell'anti-
chità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Pe-
rocché al presente le contrarie cagioni producono ef-
fetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla
ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare
il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, ado-
perarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì
che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma
giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde pol-
la vecehiozza, e poco, o mono ferventemente e im-
petuosamente e smaniosamente desidera. Quindi è
cosi raro un vecchio suicida oggidi, che parrebbe
quasi miracolo. E pure il giovane elio si uccide pri-
11 9
(2988-2989-2990) pensieri ^lì l-. ' ' '- r ' ' ■ ' .
Li' dèlia gioventù e rinunzia a ima vita oWi si
pu6 ancora promettere, (2989) di am». D V«V
E ri privì della vecoHe^a (qual prvva. ne^o
hnono) Ì rinunzia a pool, «j^.g.
pertanto per mille giovani su cidi appe ?
neanche si troverà ^ oggi ™ ^
i questo, se pur si troverà, sarà iois i
estrema disgrazia, in qualche caso ove a Vita tosse
già disperata, e ^«f J é £
i^^^it 1 ^ volonturiamonte
r ^ Applicate- queste considera^ a <mo
ho eletto altrove circa l'amor della vita nei vecw ,
della vita crescenti in palone
die per l'aumento dell'età scema il valore d
vita (18 luglio |828).
* àlla p. 2870. Comelanasaòn francese è tra tutte
.nello europee che si chiamano meridionali quella d e
struttura ee. E si può dire che per Inno « iJJ
■ i „ ì;-™,, siccome la nazione che la pai*»,
rispetto essa lingua, siccome ie n 0 f ra
ten-a il mezzo e sia quasi un grado e un a nello , ira
Meridionali e lo settentrionali europee .cult e, D co
per 1' uno e per 1' altro rispetto, cioè pei li suon e
"per l'indole. Le quali duo ^^*^*£g&
e corrispondenti fra loro, cioè tale e sempre ind le
di una lingua perfetta qual e quel a de suona mate
riali oh' eira adopera. E la varietà medesima che «
■ ■ jwIha linone d'nna medesima cubhe,
trova fra ì suoni di due lingue
<) Si ^ votor» la P- 82W, 4, 3*0" ■»
120
L'BHSrtoii (2990-2991-2992)
o di duo lingue di classi diverso, o delle lingue di
due classi (come settentrionale e meridionale), si tro-
verà sempro fra i caratteri e i geni delle medesimo
lingue o classi, puroh' olio sieno perfette e bori cor-
rispondenti all' indole della nazione, il clic sempro
accado quando una lingua è perfettamente sviluppata,
e senza di cho non può essere che una lingua, an-
corché (2991) cólta, abbia perfettamente sviluppato,
o conservi, il suo vero, conveniente, naturale e pro-
prio carattere (19 luglio 1823).
* Alla pag. 2974. Intorno a questo verbo urito, e al
verbo quaerì.to, di cui diffusamente altrove, e ad altri
simili, è da discorrere come segue. *) Gli antichi la-
tini dissero frequentissimamente s por j», Veggasi il
Porcellini in S od li e in Qiiacso. Quindi, dicendo
ossi uso per uro, dissero eziandio imi per uri, prete-
rito perfetto (raddoppiando la s dopo vocale lunga,
del qual uso vedi Quintiliano, ap. Porcellini in 8), ed
mitum per uritum che sarebbe stato il vero supino di
uro. 0 quando anche non iscambiassero la s e la r
nelle altre voci di uro, le scambiarono certo nel per-
fetto, nel supino e nel participio in u$. por modo
cho mancando il perfetto, il supino e il participio
regolare, non restò in uso so non il detto usti ed
usitus o usitum, contratto però questo in ustus e ustum,
corno positus-poatus e come quaestus m e chiesto qui-
nto oc. da quaesitns (del che vedi la pag. 2894-5).
(2992) Similmente da hacreo, haurio, sia che dicessero
anticamente haeseo, hausio, o sia corno si voglia, certo
è che in luogo dei regolari haeri o kaeriti, haeritum
haerìtus, Jumri o haurii o haurivì, hauritum, hauriUis,
fecero haesi, hauti, hausitum, hautitw, cho oggi ri-
mangono in luogo di quelli, contratto però hauti*
') Tuoi veder» la v , 3060-1 e le nate grwn malica li del Mai a Cin.. do
Jlep. I, 5, p. JS.
(2992-2993-29941
.121
tum ed hawtMs in hanéum od haustw, coinè ap-
punto «rifu* in E fecer0 similmente kaesitus,
il quale oggi non rimane, ma è dimostrato da 7t«eri-
tfare. clic regolarmente dovrebb' essere haeritare. Ilaa-
sum, onde haesurus oc. o è contratto diversamente o
anomalo , come haetd per hamd (o ftaentó) , il qnale
però fu trovato da Diomede in non so quale antico
(Fornellini Baereó, fine). Cosi dite di hausumeà ha/Uèus.
Ma in conferma di questo mio discorso e di tutto
quanto io dico circa questi tali continuativi, come
urito, quaestio, ed anche legìtó, agito e tanti altri che
non sembrano poter derivare da participi, e in con-
ferma di quanto altrove ho ragionato dogli antichi o
regolari participii e supini ora perduti, ma dimostrati
in parte da continuativi e frequentativi, eccovi ap-
punto (2993) haurivi o hanrii, hauritv; haiiriturm,
hauritus (come appunto uritus perduto, onde untare, ;
quaeritus perduto, onde quaeritare, querido, chéri ec.)
usati anch' essi invece di hausi, hemstu, hausturus (o,
conio Virgilio hausuru»), hausttts ; bensì da autori,- la
più parte," recenti, perché, come ho detto, l' antica
pronunzia preferiva la s. Ma la regolare era pur que-
sta, e il vederla usata da' più moderni o più rozzi, e
il vederla convenire coi continuativi antichi (come
urito, quaeritó), i quali da essa o non d'altronde de-
rivano, persuade ch'ella fosse conservata continua-
mente nelle bocche del volgo, fino a passare nello
lingue moderne, giacché, per esempio, querido, chéri ec.
non sono altro' che il regolare e originario quaeritus
per quaesitus, onde 1' antico quaerttare proprio de' co-
mici Plauto e Terenzio, il qual verbo fa fede al detto
participio, ohe, conservatosi nelle lingue moderno, è
perduto nel latino.
Del resto, io non so, come ho detto, se gli antichi
dicossero anche uso, hae$eo,hausio oc. per (2994) uro ec,
come dissero assi, hauti, haesi ec per uri perfetto, hauri.
0 haurii ec. Ben so elio siccome dissero quaesti, qnae-
122 pensieri (2994-2995-2996 )
sfai, quaesitm, quaesitum per quaerii, quadrivi, qttac-
ritiis, quaeriium che sono affatto perduti, cosi disserti
quaeso per quaero, e tutto questo verbo profferirono
colla 8 siccome colla r, benché questa in molte voci
di quaero non sia perduta, anzi col tempo sia rimasta
in esse voci la sola pronunzia della r e non quella
dell' ». Dallo quali coso e seguito che di quaero o
quaeso si facciano dai lessicografi ec. due verbi, es-
sondo un solo, c che quaero si faccia anomalo (quaero
is, zìi o sivì, 8Ìtum), e quae.no difettivo (quaeso is, iì o
ivi), quando in realtà, il primo (volendoli distinguere,
che non si dee) sarebbe difettivo, e il secondo intero
« regolarissimo. Ma tornando al proposito, questo
quaeso mi persuade che si dicesse anche haeseo. liauxio
e cosi in ogni altra voce ; o cosi pure in molti altri verbi
de'quali si dee discorrere nel (2995) modo stesso che si
è fatto di uro. haereo, haurio, quaero (19 luglio 1823).
* Alla pag. 2893. Chiedere vien da quaerere ed è
propriamonte (benché con diverso significato) lo stesso
che il nostro chierere, siccome fedire verbo difettivo
italiano, onde Jtedo, jìade ec. vien dal latin» ferire,,
od è propriamente lo stosso che il nostro jierere o fé-
rare, onde fièro, fiere, fere (colla e larga) ec. usato
dagli antichi nostri in alcune voci in cambio del-
l' italiano ferire. Tedi la Crusca e il Buoniniattei ec.
(20 luglio 1823).
* Alla pag. 289 1 . Il Fischer nella prefazione alla
grammatica groca del Weller, edizione Lipsia, 1750,
dice che i pleonasmi d' Omero derivano dalla lingua
ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è
che quel pleonasmo di yoott|Aoy f^w.p e simili, da ino
notato altrove, e non osservato dal Fischer, può ser-
vire a spiegar molti piassi della Scrittura noi quali
la parola giorno non serve che ad una perifrasi, onde,
(2996) por esempio, in die irne, tuae, non vale altro
(2996-2997) ramuBR i * 23
ohe in ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta,
dagl'interpreti, i quali, per esempio, pensano che quel
dies significhi il giorno del giudizio ec. (20 luglio
* Alla pag. 2815. A questa categoria di verbi (che
forse si potrebbero chiamare continuativi irregolari,
tutti, come viso U) spettano senza dubbio i seguenti ):
Occupo da oh e capto. Obstino da oh e temo, interposta
la s come in attendo che anticamente dovette dirsi
obitmdo ed esser lo stesso che il più moderno verbo
obi&ndo. Né è maraviglia che la prepostone oh sia
fatta seguire da una s nella composizione per pro-
prietà di lingua, 0 ch'esistesse anche anticamente una
preposiziono obi per oh ; giacché vediamo appunto ah
e ahi), e nella composiziono preporsi sempre alle voci
comincianti per f la preposiziono abs e non ah. Cosi
anche fuor di composizione, quando non s' usi la pre-
posizione a : perocché convien dire, per esempio, o a
te, o abs te, non ab te. Vedi Porcellini in A. ab, abs,
6 in Abs. Vedi p. 3001, line, 3696. Tornando al pro-
posito, è manifesto (2997) ohe obstino, obsUnatus yien
da tentiti come ne viene pertinax, pertinacia ec. che
spettano alla stessa significazione. La e è cangiata
iu i conio appunto in pertinax e ne' composti ordi-
nari contmto , ohtineo ec. Ed è notabile che laddove
gli altri verbi di questa categoria son fatti, come ho
detto, da verbi della terza, questo che indubitata-
mente appartiene a essa categoria, e non può esser di
senso più continuativo, è fatto da un verbo della se-
conda Vedi pag. 3020. Auffupo ed aucupor da avts e
capio, come occupo, e come -Nuncupo da nomen e cupio,
se però non si vuole che vengano da auctps aucu-
i) YelUco il Forcellltì lo chiama fteqpsntattvo fli ««Sa. E b» ™-
»i>„<, Cosi fùdieo Ai rodiote, albico, nlfineo (hiOMChtautani, A» al-
*" Ml V° 1ad ™ i iZuroare 6 Qn frequentativo « oontìnnutìvo dz
utor-nsus. Medino e> meaum. 1 , nn .
«rtrft i»; •«•(«*>, cawttca. Y«U p. 3695 « 1». i». 4004.
PENSIERI
(2997-2998-2999)
■pi» quanto alla derivazione immediata. Anticipo da ante
e copio. Partirìpo da pars e capto, corno anticipo, se non
si vuol che venga da particeps cipis. Vociferar arti
(forse anche vocifero as) da vox e fero fers. Opitulo e
opitulnr da ops e tuli di fero o di Mio di cui forse è
propriaménte questo perfetto (vedi Porcellini in Tollo,
fine) o piuttosto dall' antico tulo, tuli* , tettili, latum,
verbo della terza, di cui vedi Porcellini in tulo. (2998)
In caso eh' opitulo fosse fatto da tuli perfetto,
ciò non sarobbo sonza osempio in questa categoria
di verbi. Accubo ec. è dal perfetto accubiti di ac-
éumbo. Pois' anche participio, anticipo e cosi sigili*
fico, aedifico, e gli altri di cui a pag. 2903, seguenti
vengono dai perfetti cepi e feci di cupio c facio, mu-
tato 1' e in i por virtù della composizione (come, por
esempio, in colligo, cor-rigo, conspicio ec. ec. da lego,
rego, spedo) e mutata la desinenza; ondo da ciò venga
che in essi vorbi manchi la i radicale de' loro temi,
siccome manca in molte voci formate dai detti per-
fetti, per esempio, caperò, fcceram ec. Ma non lo erodo,
perocché auspico e auspico che sono della stessa forma
di significo, participoec. non possono venire dal perfetto
di spedo, il quale è spexi, se pur non si volesso suppor-
re un antico e ignoto speci, analogo a feci, jeci ec.
Del resto i verbi da cui derivano i soprascritti
hanno ancho i loro continuativi fatti da participii,
cioè capto e tento.
Aspernor aris e asperno as (giacché aspemor si
trova anche in senso passivo) da ad e sperno is,
(20 luglio 1823). Costerno as, avi, atum (il Porcellini
per errore di stampa slravi atum, come apparisce da-
gli esempi) da sterno is e cum, ovvero da consterno is.
Crepo as, l'orso da crepo is. "V'odi Porcellini in Crepo,
fine. Vedi p, 3234. (2999)
* Alla p. 2906. Bell'effetto fanno nell' Aminta e nel
PoMor fido, e massime in questo, i cori, benché troppo
(2999-3000) venshbki 125
lambiccati e peccanti di secentismo, e benché non vi
siano introdotti «e non alla fine e per chiusa di cia-
scun atto. Ma essi fanno quivi l'offizio che i con ta-
cevano anticamente, cioè riflettere sugli avvenimenti
rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare
il vizio, o lasciar l'animo dello spettatore rivolto alla
meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei
successi che gli attori e il resto del dramma non può e
non dee rappresentare se non come particolari e indivi-
due, .senza sentenze espresse e senza quella filosofia che
molti scioccamente pongono in hocca degli stessi personag-
gi. Quest'uffizio è del coro; esso, serve con ciò ed al-
l'utile e profitto degli spettatori che dee risultare dai
drammi, od al diletto che nasce dal vago della rifles-
sione e dalle circostanze e cagioni spiegato di sopra
(21 luglio 1823). (300Q.)
* Delle cose veramente ridicole nella società o
negl' individui è ben raro trovar chi ne rida. E
s' alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che
l'aiuti a farlo, o che gli dia ragione, o che pur senta
la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono
di cose che in effetto son tutt'altro che ridicole, e
spesso no ridono per questo appunto che non sono ri-
dicole. E tanto phi no ridono quanto meno elle sun
tali (21 luglio 1828).
* Alla p. 2922, line. Alcune volte noi diciamo vo-
/r-iv anche di cose animato, anche degli uomini, ma
relativamente a ciò che non dipende dalla lor volon-
tà, o che non può dipender da volontà o che anche
è 'contrario affatto alla lor volontà, e lo diciamo
non solo per ischerzo, ma eziandio seriamente, in
virtù doli' idiotismo cho ho preso a illustrare. Per
esempio, il tale non vuole ancora guarire, cioè, ancor
non guarisco: e il verbo volere ridonda. Qua si dee
riferire un luoiro di Platone nel Sofista, edizione Astii,
12(1 pensieri (3000-3001-3002)
tomo II, p. 246, (3001) v«d. 7 A. dove o&SéW 5v
èfl-sXsti/ (ta-^stv è Io stesso cho QÒ^énot' 3v n-tudeìv, e ben
lo rende l'Astio nec numquam. fore ut discat, ridondando
elegantemente ìWiiù. Se però non si vuol diro che
in questo luogo equivalga n \U\Uvj, appunto come il
nostro volere noi casi specificati di sopra, c in ciò
pure sarà notabile la conformità del nostro idiotismo
coli' attico (21 luglio 1823).
:f: Alla p. 2864. Stipula da stipa voce inusitata, re-
stando il diminutivo, dal quale noi stoppia, i francesi
esteuble onde étenle. Vedi Eorcollini in stipula, stipa,
stipular oo. o il glossario se ha nulla (21 luglio 1823).
* Continuativi barbari. Dilatar spaglinolo da differì)*
ditalns. Vedi la Crusca. I francesi dilayer. Trovo nel
moderno spagnuolo dilatar ancho per denunziare,
accusare, da defero-delatus. Decretare, decretar dt'eré-
ter da decerno-decreius. Divinar francese da divido-
divisas. Libertar spagnuolo quasi liheritare o liberatore,
Tal contrazione non è maravigli osa in questo caso, e
iors'ó antica. Libertus a non sembra che contrazione
di Uheraius a. Vedi Porcellini e glossario se hanno nulla
(21 luglio 1823).
f Alla p. 2996, fine. Che obsihw venga da obs e
teneo vedi Porcellini in obsiinatus, principio e in oh-
seeìius, principio. Se ancho obscenus viene da obs, no-
tisi l'analogia. Perocché nella composizione, alle pa-
role. (3002) cominciatiti por c, q, t non si premette mai
la preposizione a o ab, ma sempre abs. Cosi dunque so
obscenus viene da cano o da caenum, beno sta elio non
si dica obeenus ma obscenus. Oscillo, secondo me, è da
obs e cillo, as e vale quasi obeiere, obmovere, obeire.
Dico poi cillo as, non etto 1 is, .come il Porcellini, per-
ché è chiaro ohe nel luogo di Pesto cilleni (optativo)
è voco della prima; perché cillo dev'essere stato un
diminutivo di ciò o di eleo, corno conscribillo oc. (vedi
(3002-3003) ^ fknsieui V*\
k p 2986) che sono della prima, benché conscriha ce
sieno della terza; perché veggo osdlUms, oscMatw e il
nostro oscillar, ec. e lo stosso Forcellim dice oscillo
aa, non fc Vedi in Forcellini tutte queste voci o art-
lùm e cilho. Se oècitfo as t'osse fatto da allo ts o oUta
& esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come
optino a», da ienéo es ce. Non pare che il Force] Uni
si sia accorto che cUko o eiUo spetta indubitatamente a
rio o cjeo E cosi dunque altresì ben si dice offendo
cioè offendo. otóo non oblino. I più moderni trascu-
rarono questa regola e dissero obimdo, obtineo ec. In
Wo del guai ultimo verbo pare che gli antichi di-
cessero obstineo, in significato però di attendo. Vedi
Porcellini in obsUnet. E forse molti verbi o voci la-
tine composte cominciaci per os, le quali si dicono
formate dal nome os, non lo sono infatti che da oh*
come, per esempio, asceti ìnis che si dice fatto da o
amo (quasi si cantasse mai con altro che con la boc-
ca) viene forse veramente da obs o cano. Infatti oc
mere, cioè obeimre (che secondo 1» antica regola sa-
rebbe stato ohscìnere, e quindi oscinere, come estendere,
il quale anch'esso da taluno è scioccamente derivato
da os, in manifesto dispetto del significato), BX diceva
degli uccelli d'augurio, e dal modo in cui Livio 1 ado-
pra par che questa voce fosse solenne in tal (3003,
proposito. Vedi Porcellini in oecino, accento, ocuntm
ocLo, obeantatus, obcanU, Io dubito anche molto che
quello voci die si dicono derivate da sursum contralto
in sw (eccetto susque) come smtimo, satollo, suspef^-
do, mmipio ec. oc, vengano infatti da sub (terza pre-
posizione terminata in b, come oh ed ab) e f^o ori-
ginariamente «ufetf»», sMlo ec, introdotta la *
per proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto m-
nalzar di sotto, cioè esprimano l'azione che si fa di
sotto in su, come in ispagnuolo subir non vale già
scendere o andar sotto, ma salire, cioè andare di sotto
i» su. Uosi sposso il latino subire. Vedi lorcelhm, noi
_
128
(3 00 3-3004)
quale troverai ancora subvenio per sùpàrvénio. Vedi
p. 3558. Subreperé nel luogo di Plinio citato dal Por-
cellini, voc. Sauroctonus, non è propriamente altro che
repere di sotto in su, poiché questo è (s'io ben mi ri-
cordo) quel che fa la lucerta nell'Apollo Sanrottono dol
museo pio-clementino, la quale non r'epìt clam, ma sco-
pertamente, e non iscende ma salisce su per un albero.
Plinio poi usò il tema repere come appropriato alla
lucerta, clr è quasi un repiìlè. Il dotto Apollo è certo
una copia di quel di Pressitele, di cui Plinio. Del
resto, l'inserimento della s trovasi ancora dopo altre
preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino
e praesli.no fratelli carnali di obstino, fatti da de o
prae e da tcneo (vedi Porcellini in Destino e Praesti-
no) e non già da un sognato stino, come vogliono al-
cuni. E questi due verbi eziandio spettano alla cate-
goria di cui parliamo, massimo che essi, e (3004)
specialmente destino, hanno forza tutta continuativa
(21 luglio 1823).
* Frequentissimo nell'italiano scritto, e più nello
spagnuolo scritto e pai-lato, si ò l'uso del verbo an-
dare,, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca
tragico (ap. Porcellini in eo is i col. 3, principio), Non ilo
inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente
quest'uso dagli spagnuoli (infatti r esso ó frequentis-
simo nei nostri socontisti, con cento altri spagnoli-
smi; noi cinquecentisti o trecentisti non si trova,
eh' io mi ricordi, o mai o quasi 'mai). E Seneca ap-
punto ò spagnuolo. La frase dell'egizio Claudiano qui
vindieet ibit, cioè erit, è d'altro genere, perché né gli
spagnuoli né gì' italiani non usano andare por essere,
se non seguito effottivamente o potenzialmente da un
aggotti vo che ha forza di predicato. ') Qua si deono
1 ) Appo Orazio, S/U.- II, I, v. ultimo, tu missus allibili i lo stoss»
elio missns, oiotì ahsoìutus erta, dui- miUlri» o obtoh><irit, l (rapi oix"-
3at cojj participio : oso analogo al nostro eo-, èdi
(3004-3005-3006) PENSIERI ™*
forse riferire le frasi, andar la Insogna, la rosa ec. cosi .
andò il fatto, còsi va per cosi è, va bene, come va la
salate oc. ec. Vedi i dizionari francesi e spagnuoh
(21 luglio 1823). Vedi p. 3008. (3005)
* Alla p. 2844. Cosi lo spagnuolo avUtàr. A questo
discorso appartengono il francese viser, deviser, fran-
cese antico, per s'enlretenir familièrement eo. (vedi il
glossario cang. in Visorcs, 2), e 1' italiano divisare, il
quale però ancora, almeno in alcuni sensi, può esser
continuativo barbaro di divido-divisus e lo stesso che
il francese diviser. Vedi la Crusca e il Forcelhm e
glossario e' hanno nulla.
A questo proposito è da notare circa La voce guisa,,
francese guise, di cui altrove ho parlato, eh' ella non
è altro che come dir visa, e dovette da principio si-
gnificare aspetto, quel eh' apparisce e si vede, forma
onde poi modo, maniera, facon, Del primo significato
e della forma eh' ebbe primieramente questa voce ne
fanno fede il nostro divisa sustantivo 4 ) (il quale non
credo che venga da divisare per variare); il francese
devise; divisato per dc-f ormato, contraffatto, déguise,
travestilo, che il Salvini disse barbaramente dìgui-
sato' 1 ); divisamento per assisa; Guisar in ispagnuolo e
vestire ec. Ma vedi i dizionari spagnuoli. Travisare,
travisato, travisamento, traviso vagliono travestire, quasi
traguwar. Svisare vedilo nella Crusca. Vegga» il glos-
sario se ha nulla (21 luglio 1823). (3006)
* Suso, giuso. Cosi i più antichi latini per surmm
deorsum. Vedi Porcellini in susum oc. e il glossario
so lia nulla.
* Alla p. 2814. Vindicare, indicare che risponderebbe
forse a indicere coni' educare a educere. Ma si può pur
') Si può Tederò la p. 3036.
! ) Ditgulsarc mi («ir nostro antl o. Vedi Crusca.
tEOi'Aiiw, — Pensieri, V , ^
180
pensieri (3006-3007)
dubitare che quello venga da vindcx ici.it, questo da
index iti*; ') e cosi indicare da .index ieit, educare, da
un e-dux ucis (in senso reciproco, come redux da re-
duco), jugare da jux o junx jugis, oh' esiste oggidì
ne' composti coniux, ec. come ho detto altrove. E cosi
si può molto dubitare che tutta questa categoria di
verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non
da' verbi originami a dirittura. In ogni modo, posto
quello che ho congetturato altrove, che tali nomi,
come dux, dm (iu-dex, in-dex ec.), ceps, {jparti-ceps,
avreep* ec), fax {arti-fax oc), spex (arttspex ec),
fer (laci-fer ec.]. e simili, sieno anteriori ai rispettivi
verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di questa cate-
goria formati da tali nomi fossero fratelli e non figli
di quo' della terza corrispondenti, e sempre sarebbe
importante e a proposito nostro il notare come di due
verbi fatti da una radico, quello (3007) che ha o che
da principio ebbe senso continuativo, sia della pri-
ma coniugazione, e 1' altro della terza ec. Si può
anche discorrere in questo modo. Educare, può venire
da dux, aggiunta la preposiziono al solo verbo, e non
al nome; onde non è necessario supporre un nome com-
posto editx.. Basta il nome semplice. Cosi sacrificare
(p. 2903) può venir da un «acrifex, ed anche dal sem-
plice fex. ! ) Cosi occupare (p. 2996) può venire da mi
occeps occupi» (come auuepn aucapis onde aiicupare),
ovvero occeps weipis che sarebbe il medesimo (giac-
ché la imitarono scambievole dell' i ed u in quosti
tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso;
e quindi mancipivin e manmphm ec), può venir, dico,
da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps.
Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non
verrà da «Minti* e capio, ma da manceps ipis, che
«) Como /anfeo» ila /ora**' /orato*», «1 altri Mwl : duplico «a du-
plex, triplico co., fruttatili frittene, rueticor <ln nuticu*. Vengasi lo pa-
nini) 3752-*.
s ) Profugo «.« ila pongo it. Vudi la p. 3752- J.
131
«liticamente si dovette anche dir manceps cupi*, Vedi
|. 3019, fine. Opitularc (p, 2997) verrà da opitulùs, E
cosi, kc non tutti, almeno una gran parto do' verbi di
questa categoria (22 luglio 1823). (3008)
* Alla p. 3004. fine. Congiunto coi participi! passivi
il verbo andare appo gli spagnuoli fa quasi l'officio di
verbo ausiliare e le veci di essere, corno appo noi il
verbo venire (venire ucciso ec. per essere ucciso, ed è
anello dell'Ariosto: o vedi la Crusca): ma quello si-
gnifica ordinariamente una passione più continua o du-
revole. Non so se si direbbe fidano andò innario o ma-
tado per fui matado (22 luglio 1823).
* Alla p. 2953. Cosi ci accade nello apprendere o
appresa che abbiamo alcuna lingua straniera; cosi ci
accade, dico, in ordine a riportare al corrispondente
carattere del suo alfabeto l'idea di quo' suoni che non
si trovano nella nostra lingua, o che non sono espressi
nel nostro alfabeto distintamente dagli altri, o oh' es-
sendo composti sono però espressi nell'alfabeto di
quella lingua straniera con un cai-attero particolare,
sia porche tal composizione di suoni non s'usi nella
nostra lingua, o molto s'usi in quell'altra, sia che la
nostra scrittura la significhi con più d'un carattere, e
quella straniera con un solo (come la greca il p ed s
con 4). Del che potete vedere la p. 2740, segg., 2745.
fine-46. e (3009) segg. (22 luglio 1823). Vedi p. 3024.
* Alla p. 2841. Lo stile e il linguaggio poetico in
una letteratura già formata, e che n' abbia uno, non
si distinguo solamente dal prosaico né si divido e
allontana solamente dal volgo per l' uso di voci e frasi
che, sebbene inteso, non sono però adoperate nel di-
scorso familiare né nella prosa, le quali voci o frasi
non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni an-
tiche, andate, fuor che ne' poonii, in disuso; ma esso
i'knsikiìi (3009-30 1 0-30 1 1 1
linguaggio si distingue eziandio grandemente dal pro-
saico o volgare por la divora» inflessione materiale
di quelle atesse voci e frasi che il volgo e la prosa
adoprano ancora. Ond'è che spessissimo una tal voce
0 frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo,
o prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure
ignobilissima e volgarissima, in un altro modo. F< in
quello è tutta elegante, in questo affatto triviale,
eziandio talvolta per li prosatori. Questo mozzo di di-
stinguere e separare il linguaggio d' un poema da
quello della prosa o del volgo inflettendo o condizio-
nando diversamento (30(0) dall'uso la forma estrin-
seca d' una voce o frase prosaica o familiare, è fre-
quentissimamente adoperato in ogni lingua che ha
linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci sempre, lo
è dagl'italiani: anzi, parlando puramente dol linguag-
gio, e non. dello stile, poetico, il dotto mezzo è l'uno
de' più frequenti elio s'adoprino a conseguire il detto
line, c più frequente forse di quello dello voci o frasi
inusitate.
Or questa diversa e poetica inflessione e pro-
nunzia de' vocaboli correnti che altro è per l' ordi-
nario, se non inllcssiono e pronunzia antica, usi tata
dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ecl ora
andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare?
di modo che quelle parole cosi pronunziato e scritto
non altro sono veramente elio parole antiche e arcai-
smi, in quanto cosi sono scritte e pronunziate? né
altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci
poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito
una bella riflessione di Pcrtioari, Apologie^ capo XIV,
fine, p. 131-2. Certo questa diversità d'inflossione per
la più parto non è se (3011) non quello ch'io dico:
cosi ne' poeti greci, cosi ne' latini (più schivi però
dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai
meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che
i| greco), cosi negl'italiani. Perocché non è da ere-
(3011-3012)
PTCK Slatti
133
doro elio la inilossion d'ima voce sia stimata, e quindi
veramente aia più elegante o per la prosa o pel verso,
perché o quanto ella è più conformo all'etimologia, ma
solamente porche e quanto olla ò meno trita dall'uno
familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo
ricercata (anzi bone spesso è trivialissima 1' infles-
sione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta
poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in
altro luogo). E questo non esser trita, né anche ri-
cercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una
voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il
pigliarla da un particolar dialetto o 1' infletterla se-
condo questo fa ch'ella non riesca trita all'universale,
ina difficilmente può far ch'ella e non paia ricorcata
e sia bene intesa da tutti. Oltre ch'ella riesco anche
trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto
è proprio. In verità i dialetti particolari sono scarso
sussidio e fonte al linguaggio pootico e all'eleganza
qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove lo
(3012) voci e inflessioni veramente proprio di dia-
letti particolari d' Italia fanno molto mala riuscita,
né la poesia nostra, né verun savio tra'nostri o poeti
o prosatori ha mai voluto imitar Dante noll'uso cle'dia-
letti, non solo generalmente, ma neppure in ordino a
quello medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui
adoperate. Circa 1' uso e mescolanza dc'dialetti greci
nolla inflessione dolio parole appresso Omero, non vo-
lendo rinnovare le infinito discussioni già fatte da
tanti e tanti in questo proposito, solamente dirò elio
o le circostanze della Grecia o d' Omero erano diverso
da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per
l'antichità od oscurità della materia non potendo nulla
giudicarne di certo e di chiaro, ninno argomento no
possiamo dedurre; ovvero (e cosi ponsò) quelle infles-
sioni che in Omero s'attribuiscono a'dialotti, e da'dia-
letti si stima che Omero le prendesse, o tutte o gran
parie erano in verità proprie della lingua greca co-
i;>i
PENSiRUi (3012-30(3-3014)
mimo del suo tempo, o d'una lingua, o vogliamo dir
d'un ubo più 3013) antico ancora di lui; dalla qua]
lingua comune, o fosse più antioa, o allora nsitata,
Omero tolso quelle miicsyioni eh' egli si stima aver
pigliato da questo o da quel dialetto indifferente-
ìnonto e confusamente. Non volondo ammetter nulla
di questo, dirò che in Omero la mescolanza de' dia-
letti dovè riuscir cosi male corno in Danto. Oirca i
poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che
scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.)
seguirono intoramoiito Omero, corno in ogni altra cosa,
cosi nella lingua, o da lui tolsero quanto il loro lin-
guaggio ha di poetico, cioè della sua lingua formarono
quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia lin-
guaggio poetico comune, la questione non è difficile a
sciogliere. Perocché quelle inflessioni oh' ossi adope-
ravano, benché proprie di particolari dialetti, essi
non le toglievano da'dialotti, ma dal dialetto o lin-
guaggio omerico, di modo ch'elle riuscivano doganti
e pooticho, non in quanto proprio di privati dialetti,
ma in quanto antiche ed omeriche; od erano bene in-
tese (3014) dall'universale della nazione, né parevano
ricorcate, perché tutta la nazione, benché non usasse
familiarmente né in iscrittimi prosaica le inflessioni
e voci omoricho, lo conosceva poro o v'aveva 1' orec-
chio assuefatto per lo gran divulgamento de' versi
d' Omero cantati da'rapsodi per lo piaaze e le taverne,
e saputi a memoria fino da' fanciulli. Vedi p. 3041.
Il che non accadde a'poemi di Danto, il quale non fu
mai in Italia neppur poeta di scuola, come Omero in
Oreeia presso i grammatisti medesimi, o certo presso
i grammatici (vedi il Laorzio del Wetstonio, toni. II,
p. 583, noi. 5); né il dialetto o linguaggio poetico
italiano è o fu mai quello di Danto. Dico general-
mente parlando, e non d' alcuni pochi e particolari
poeti, suoi decisi imitatori, come Sazio dogli Uborti,
l'autore dol Quadriregio .Federico Prezzi, ed alcuni
(30 14-30! 5-30 IG) rtttfgffifil
135
gl'ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua
del Petrarca è quella di Dante, né da lui fu presa,
né punto si serve de'partioolari dialetti.
Non potendo dunque i dialetti somministrare in-
flessioni rimote dall'uso covrente (3015) che siano
adattato al linguaggio poetico, resterebbe per allon-
tanar le voci comuni dalla prosa e dall' uso, ohe il
poeta le ravvicinasse alla etimologia ed alla forma
ch'elle hanno nella lingua madre, qualvolta nell' uso
comune e prosaico elle ne sono lontane. Questo mezzo
è possibile e buono e spesso adoperato da'poeti quando
la nazione è già cólta e dotta, e la letteratura nazio-
nale già formata. Ma ne'prinoipii ciò è ben difficile
e pericoloso, prima perché dalla nazione ignorante
quelle voci in tal modo rimutate corrono rischio di
non essere intese; poi. porche presso la nazione non
avvezza un tal rimutamento corro rischio di saper di
pedanteria (il qual rischio dura eziandio proporziona-
timi onte nel séguito) e di riuscire affettato. Onde la
«tessa difficoltà che in quei prinoipii si opponeva,
corno ho detto (p. 2836-7) al dedur piti che tante voci
o frasi nuove dalla lingua madre, quella medesima si
opponeva a dedur da essa lingua inusitate infusioni
e diverse dalle correnti. (3016)
Resta dunque per allontanar dall'uso volgare lo
voci e frasi comuni 1' infletterle e condizionarle in
maniere inusitato al presente, ma dagli antichi na-
' zionali. parlatori, prosatori o poeti usitato, e dalla
nazione ancor conosciuto e conservate di mano in
mano negli scritti di quelli che, cercando l'eleganza,
procurarono di scostarsi mediocremente dal volgo. Pel-
le quali cose tali inflessioni non producono né oscu-
rità né ricercatezza, benché riescano pellegrine e ri-
.mote dall' uso, e perciò producano eleganza. Questo
mezzo è usitatissimo da' poeti quando la nazione è
Cólta, formata la letteratura, e quando la lingua scritta
ha un' antichità. Con esso principalmente si forma, si
136
pensieri (30 (6-301 7-301 8)
compone, sì stabilisce a grado a grado un linguaggio
poetico che tuttavia più ai va differenziando dal pro-
saico o dal familiare, finché giunge a quel punto di
differenza, oltre il quale non è bene eh' egli trapassi,
ftla questo mozzo necessario all'eleganza, necessaris-
simo a potere avere o formare un linguaggio distin-
tamente poetico e proprio della poesia, manca (3017)
affatto ai primi scrittori e poeti di qualsivoglia na-
zione, i quali non trovano antichità di lingua scritta,
non ponno se non debolmente, confusamente e scar-
samente conoscere le antichità della lingua parlata, e
conoscendole ancora, o in quanto lo conoscono, non
ponno se non molto parcamente adoperarla per non
riuscire oscuri e affettati alla naziono ignorante e
non assuefatta ad altro linguaggio nazionale mai se
non solo al suo corrente e giornaliero. Quindi è che
quei primi pooti e scrittori debbono necessariamente
rivolgersi al linguaggio por la pili parto, e in genero,
familiare, o conseguentemente eziandio pigliare uno
stile che sappia sempre più o meno di familiare, in
qualsivoglia materia eh' ei trattino e genere di scrit-
tura ch'eglino esercitino (28 luglio 18213).
* Come la lingua sascrita, prodigiosamente ricca,
tragga e formi la sua ricchezza da sole pochissime
radici, col mezzo del grand' uso ch'ella fa della com-
posiziono e derivazione de' vocaboli, vodi YKneydopé-
die. méthodique, G rammaire et Mttérature, artiete Sam-
éttret, particolarmente il passo (3018) di M. Dow.
A questo proposito è notabile un luogo cho si
leggo nella Orazione delle lodi di Filippo bassetti
(viaggiatore fiorentino morto nel 1589) dello nell'Ac-
cademia degli Alterati V Assetato di Luigi Alamanni
(diverso dal poeta) cho sta nello Prme fiorentine, par. 1,
voi. TV, ediz. venez., 1730-43, p.46-7, dove puoi veder-
lo, ed ò non molto prima del mezzo della Orazione. Di
Filippo bassotti puoi vedere il Tirabosolii nella /Storia
13?
della letteratura italiana e quelle lettere del medesimo
Sassetti eh' ei quivi accenna (ed. roman., t. VII,
par. T, p. 240-1). Dal detto luogo si raccoglie che que-
gli, so non erro, il primo diede notizia all' Europa
della lingua sascrita, e molto veridica e giusta; della
qual lingua trattò poi diffusamente un altro nostro
italiano, il P. Paolino da S. Bartolommoo, Biblioteca
Italiana, n° 23, novembre 1817, p. 20G (23 luglio 1823).
* Fatum da far faris. — Dicha spngnnolo (cioè detta)
per fortuna (come desdicha sfortuna, dichoso, desdi-
ehada oc.) da dieta (f'emmin.. come -r, tl|iapj)iyYj, "?) (3019)
xtcpmiiiy-rj, la d'istinto) o da dictum, come da suspeetvs
o suspectum (gloss. cang.) sospetto , gli spagnuoli in
femminino sospecka, invece di sospecJw (2.3 luglio 1823),
*Àlla p, 284-5. Si vuol notare che avvinare e altri
verbi da ma segnati alla p. 3005, i quali vengono da
videre, serbano la forma regolare e ordinaria della loro
derivazione dal participio in us t mentre il continua-
tivo di video, che trovasi nel buon latino, non serba
questa forma, o non è visore ma visere, coi composti
invisere, revisere ec. Frattanto il francese viser, anche
per significato, è vero continuativo di videre, ed è fatto
da questo, non dal verbo francese che gli risponde,
cioè voir il quale non ha mai la sillaba vis. Se però
viser non viene da visac/e o dalla parola Vis che pro-
priamente significa viso, benché ora non s'adopri che
nella dizione vìs-à-vis (24 luglio 1823).
*Alla p. 3007. Ohe tali verbi vengano da cotali
nomi piuttosto che da' verbi corrispondenti della terza,
si può anche dedurre dal vedere che praeeepti, (3020)
il quale sembra venir dalla stessa radice di m/meeps
aitcùps ec. (siccome anceps à|i!p'.Xa(p'?]<; ) il quale fa puro
ancipitis e non ancipis o ancupis), secondo qnello che
altrove no ho ragionato, avendo por suo genitivo prue-
138
l'KNSJLERi
(3020-3021)
cipiiis e non praecipis o pfaecupis, troviamo elio il
verbo della prima coniugassi one che a lui corrisponde
non è praeeiparn, né praecupare, ma praecipitare. Lad-
dove manceps particaps ec, facendo mancipi», partici-
pus, troviamo che si dice appunto mancipare, partiev*
pwe,e non maneipitare, participitare oc. (24 luglio 1823).
* Il canto fermo ò come la prosa della musica : il
figurato la poesia (24 luglio 1823).
*Alla p. 2997. Similmente da un verbo della se-
conda è fatto sedaro, il quale spetta indubitatamente a
questa categoria, o vione da sedeo,- e por significato
n' è un continuativo. Sodare si trova ancora in signi-
ficato neutro comò sedeo, e questo dev' essere il suo
primitivo, Anche miserar aris, misereor eris della se-
conda, se quello però non viene da miser. Ora parago-
nate quel passo di Stazio: his (3021) dictix sedere minae,
cioè, dice il Porcellini (in Sedeo, col. ult.) sedatae
«uni, ossia cessarono o si mitigarono, con quell'altro
antico postquam tempesta* sedavit, cioè cessò o .si mi--
tigò. Sedare palverem ap. Fedro è sedere, vel considero,
vel residere faeio. Sedare curriculum è sedere faeio in
quanto sedere significa talora consistere, fermarsi. Il
Porcellini stesso spiega sedo per faeio ut alirptid resi-
dat. Vedilo in Sedeo e Sedo e paragona insieme gli
esempi e i significati dell' uno e dell'altro, od anche
dei composti di sedeo ec. Nota che sedeo ha anche
il suo verbo formato dal participio in ìw, cioè sessiture
(24 luglio 1823).
* Alle molto cose da me dette altrove per mostrare
come la lingua greca non ha bisogno clic di poche
radici por essere ricchissima, stante l' infinito uso
eh' ella fa dello derivazioni e composizioni ec, o co-
in' olla moltiplichi in infinito i suoi vocaboli primi-
tivi ec, aggiungi la voce media ch'ella lui. a il bel- 1
(302 1 -3022-3023) pensustii
189
lissimo uso oh' olla fa delle (3022) voci passive de' suoi
verbi. Perocché di moltissimi verbi greci si può dire
che ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per
tre; avendo l'attivo, il medio e il passivo de'mede-
simi ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai
metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche
diversi, cioè 1! attivo diverso dal medio ec. 0 vogliamo
dire che ciascuno di tali verbi ha tre bon distinti si-
gnificati propri, oltre ai metaforici. Né questi signi-
ficati si possono confondere insieme, perocché ciascuno
di loro corrispondo a ima diversa e distinta infles-
sione. Onde non si accumulano i significati in una
stessa parola, e non ne segue 1' oscurità e ambiguità)
né la povertà e uniformità che da tale accumulamento
deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre non sono
in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema.
L' uso che i latini fanno del passivo non è parago-
nabile a quello elio ne fanno i greci (oltre che il pas-
sivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran
parte doli' ausiliare sum). Appresso i quali il passivo
(3023) ha sovente una significazione propria attiva o
neutra, diversa però da quella dell' attivo e da quolla
del medio ec. ec. (24 luglio 1823).
* Kecesso as è verbo di Venanzio Fortunato. Vedi
Forcellini e glossario cang. Si potrebbe però credere
che fosse antico, e che necessus a um antico addiottivo
fosse originariamente participio di qualche verbo di
cui necesso fosse continuativo. In tal caso necessitare
latino-barbaro e italiano, neccsailar spagnuolo, nécessi-
ter francese sarebbe un frequentativo di questo tale
ignoto verbo. In caso diverso, se non vorremo eh' ei
venga da necessitas, necessità, necessiti ec., diremo
eh' egli ò fatto da neceseatxts di necesso, colla solita
mutazione doli' a in i. Notisi che nell'esempio di Ve-
nanzio Fortunato non è chiaro so necesso sia attivo,
e vaglia cago, corno affermano il Forcellini e il glos-
140
HBNSJEB1 (3023-3024-3025)
sai-io, ovvero neutro, e vaglia abbisognare, aver mestieri,
Ìndie/ere, -poscere, corno in. ispagnuolo necessitar ohe si
costruisce col genitivo (24 loglio 1828). (3024)
* Alla p. 3009. Altresì qualunque suono o qua-
lunque vocabolo di una lingua straniera che adoperi
caratteri diversi da' nostri, se noi conoscendo qnolla
lingua, non por sola favella orale, ma per iscrittati,
ed essendo atti ed avvezzi a leggerla, concepiamo detto
suono o vocabolo espressamente col pensiero, osso ci
si rappresenta sotto la forma e no' caratteri ch'egli
ha nella lingua a cui appartiene, ancorché quel tal
suono elementare sia comune anche alla nostra ed
espresso nel nostro alfabeto con un proprio carattere.
Cosi sempre ci accade, fuori di qualche circostanza
particolare, in cui la mente voglia o debba concopire,
per esempio un vocabolo greco in caratteri latini eo. ec.
(24 luglio 1823).
* Alla p. 2828, fine. Notato che anche la vera pro-
nunzia e quindi la vera armonia della lingua latina
è da gran tempo e perduta o ignota. Oontuttociò, quan-
tunque sia certissimo che questo ronde assai ditìicile ai
moderni di scrivere secondo la vera indole della lin-
gua, del giro, del periodo, della costruzione latina oc,
nondimeno, siccome la lingua latina è morta, cosi lo
scrittore che oggi vuole scrivere in (30251 latino le
cosi quelli che scrissero in latino dal trecento in poi)
può trascurare affatto la pronunzia moderna., può anche
fino a un corto segno dimenticarsela, può astrarre af-
fatto dall'armonia, e non considerando negli antichi
scrittori so non lo puro costruzioni, i puri periodi ec.
indipendentemente si dal ritmo che no risultava, si
da quello che oggi ne risulta, seguirli e imitarli cie-
camente tali quali sono essi, non facendo caso della
moderna pronunzia. Ma hi lingua greca era ancor viva,
benché la pronunzia fosso cambiata, e agli scrittori
1 1 1
doii ora né facile il dimenticare e astergersi dagli orec-
chi il suono quotidiano o corrente della loro propria
favella, né, volendo ancora seguire (come molti volle-
ro) strettamente e imitare esattamente gli antichi, era
loro possibile negare affatto ai loro periodi un numero
che l'osse sentito dall'universale de' greci a quel tempo.
Poiché questi periodi avevano pure ad esser letti e
pronunziati da nazionali cho, quantunque non pronun-
ziassero come una volta, intendevano però e parlavano
tuttavia quella lingua, come (3026) materna. Onde non
era quasi possibile dare nello scritture alla lingua,
eli' ora pur nazionale c volgare, un ritmo al tutto, si
può dir, forestiero e ignoto a tutti, fino allo stesso
scrittore: eh' è quanto dire non darle insomma alcun
ritmo (24 luglio 1823), cioè niun ritmo che alla na-,
z-ìone a cui si scriveva, né pure allo stesso scrittore,
riuscisse tale (24 luglio 182i)).
* Occulto as, da oceulo-ocaultus. Notisi che peóultvs
a um, adoperandosi sempre o quasi sempre aggetti-
vamente (siccome fra noi occulto oc), se noi non
conoscessimo il verbo occulo, lo terremmo certo per
un aggettivo proprio e radicalo, e non por un participio.
Quindi si può far ragione quanto verisimilmente io
Subiti e talora sostenga elio altri tali aggettivi, i quali
hanno tutta 1' estrinseca sembianza di participii, an-
corché non usati mai come participii , e benché non
si conósca verbo a cui spettino, tuttavoltn non sieno
originariamente altro che participii di verbi o per-
duti o non conosciuti per loro radice (25 luglio, di di
San Giacomo, 1823). (3027)
* Alla pagina 2895, fine. Da Sutùs ancora si potè
faro do, poiché anche l'w por contrazione, nomi-
natamente ne' participii, è solito a sparire, siccome
l' ì. Da solutw: gli spagnuoli xoUar, noi sciolto, omesso
l'w. Da volutus o vohitare noi voltare, e voltò, e cosi
ne' composti involto , rivolto ec. Cosi gli spagnuoli
142
l'Xirsimu (3027-3028-3029)
bacilo o vuelto; i francesi vofitc (cioè volta sostantivo)
e quindi votìier, dove la sillaba ou equivale al nostro
ol, come in ccOiier asr.oLtare, Volta 'per itata vieno al-
tresì da volvtiì'e ed è contrazione di voluta. Cosi il so-
stantivo spagnuolo inietta, cioè, voltata, ritorno 60.
(25 luglio 1823).
*• Ho discorso altrove di quel luogo di Cicerone
nella Yceekkzza , dove dice che 1' animo nostro, non
si sa come, sempre mira alla posterità ec. e ne de-
duce eli' egli abbia un sentimento naturale della sua
propria eternità o indestrnttibilità. Ho mostrato come
questo effetto viene dal dosidcrio dell'infinito, eh' è
una conseguenza dell'amor proprio, e dal continuo
ricorrer die l'uomo fa colla speranza (3028) al futuro,
non potendo esser mai soddisfatto del presente, né
trovandovi piacerò alcuno, e d'altronde non rinun-
ziando mai alla speranza, fino a trapassar con essa
di là dalla morte, non trovando più in questa vita
dovo ragionovolmente fermarla. Ma il suddetto effetto
non è naturale. Esso viene dall' esperienza già fatta,
che la memoria degli uomini insigni si conserva, dal
veder noi medesimi conservata presentemente e cele-
brata la memoria di tali uomini, o dal conservarla e
celebrarla noi stessi. Ondo, introdotta nel mondo que-
sta fama superstite alla morte, essa è stata ed è bra-
mata o cercata, come tanti altri beni, o di opinione o
qualunque, di cui la natura niun desiderio ci aveva
ispirato, e clie sono comparsi nel mondo di mano in
mano per varie circostanze, non da principio, né creati
dalla natura. Noi primissimi principii della società,
quando ancor non v'era esempio di rammemorazioni
e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini corag-
giosi o magnanimi, quando anche desiderassero la
stima de' loro compagni e contemporanei, pensarono
mai (3029) a travagliare per la posterità, né, molto
meno, a trascurare il giudizio de' presonti per procu*
(3029-30301 pensieri 148
jfju'si quello de' futuri, o rimetlorsi alla stima de' fu-
turi. Che so il tempo ohe ho dotto, colle circostanze elio
ho supposte, uon v'è mai stato, supponendo però ch'egli
sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certa-
mente ne verrebbe l'effetto elio lio ragionato, cioè che
ninno, benché magnanimo, benché insigne tra'suoi pon-
ti azionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna
cura o pensiero della posterità (25 luglio, di di San
Giacomo, 1823).
* La vita umana non fu mai più felice elio quando
fn stimato poter esser bella e dolce anche la morte,
né mai gli uomini vissero più volentieri che quando
furono apparecchiati e desiderosi di morire per la pa-
tria e por la gloria (25 luglio, di di San Giacomo, 1823).
* In molte altre cose l'andamento, il progresso, lo
vicende, la storia del genero umano è simile a quella
di ciascuno individuo poco meno che ima figura in
grande somigli alla medesima figura fatta (3030) in
piccolo; ma ira l'altro cose, in questa. Quando gli
uomini avevano pur qualcho mezzo di felicità o di
minore infelicità eh' al presente,, quando, perdendo la
vita, pordovano pur qualcho cosa, essi l'avventura-
vano spesso e facilmente e di buona voglia, non te-
mevano, anzi cercavano i pericoli, non si spaventa-
vano della morte, anzi l'affrontavano tutto di o coi
nomici o tra loro, e godevano sopra ogni cosa e sti-
mavano il sommo bono, di morire gloriosamente. Ora
il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto mag-
giore è l'infelicità e il fastidio di cui la morteci li-
bererebbe, o so non altro, quanto è più nullo quello
che morendo abbiamo a perdere. E l'amor della vita e
il timor delfa morte è cresciuto noi genere umano e
cresce in ciascuna nazione secondo che la vita vai
meno. Il coraggio è tanto minore quanto minori beni
egli avventura, e quanto mono ei dovrebbe costare,
pensieri (3030-3031-3032)
La morte elio por gli antichi cosi attivi e di vita, so
non altro, cosi piena, era talora il sommo bene,
è stimata e chiamata più comunemente il sommo
malo quanto la vita è più misera. E ben (3031) mito
che le nazioni più oppresse, e similmente le classi
più deboli e misere e schiave nella società, sono lo
meno coraggioso e le più timide della morto, e lo più
sollecite e gelose di quella vita eh' è pur loro un si
gran poso. E quanto più altri le opprimo e rende in-
felice la vita loro, tanto ne le fa più studiose. E in-
somma si può diro ohe gli antichi vivendo non tome-
vano il morire, e i moderni, non vivendo, lo temono ;
e che quanto più la vita dell'uomo ò simile alla morte,
tanto più la morto sia temuta o fuggita, quasi ce no
spaventasse quolla continua immagino clic nella vita
medesima ne abbiamo e contempliamo, e quegli effetti,
anni quella parte, olio pur vivendo ne .sperimentiamo.
E viceversa.
Or si applichi quol eh' io dico degli antichi e dei
moderni agl'individui giovani o vecchi, in qualunque
età dello nazioni e del genere umano, e troverassi pro-
porzionatamente la modosima differenza e di circo-
stanze e di effetti (25 luglio 1828). (3032)
* Visto italiano e spaglinolo participio di vedere, è
manifesta contrazione di visitai;, come quinto, chie-
sto ec. di qicaesìtus (vedi p. 2893, sgg.). Cosi vista so-
stantivo verbale italiano e spagnuolo è contrazione
di visita, voce latino-barbara per visitati us cioè visus
us. Cosi i composti di vedere hanno, per esempio, av-
visto, rivisto, provvisto co. La voce vista pei' veduta, e
con altri sensi simili, eh' ella ha pure appresso di
noi, è latino-barbara. Vedila noi glossario. E ch'olla
sia contrazione di visita, com' io dico, e quindi visto
sia contraziono di visitus, vedi il glossario medesimo in
vista, 4°. Ora consideriamo.
1°, Il latino video, da cui viono il nostro vedere e
(3032-3033-3034) frnrikrj
lo spagnuolo ver fa nel participio, non visitila, ma vi-
sus. Similmente viso is anomalo, elio no deriva. Ma
(secondo i principii da me posti e dimostrati altrove,
igh è certissimo che l'antico participio di video do-
vette esser visitila (anomalo invece di vìdittuì), come di
doreo fu docitus. Quindi il nostro italiano e spagnuolo
vinto ò contrazione (usitatissima anche nell'antico e
buon (3033) latino: vedi p. 2894 e sog.) dell'antico
visitus; egli è un latinissimo vistus anteriore a visun
e più regolare. Or come mai questo participio, porduto
affatto nel latino conosciuto, questo participio anti-
chissimo, pivi antico e più regolare dell'usato dagli
scrittori latini, comparisce per la prima volta noi. la-
tino-barbaro, e quindi si trova usitatissimo e comu-
nissimo in due lingue moderne figlio della latina, e
trovasi in luogo del visus dol latino conosciuto, il qual
liisus nello detto lingue non trovasi V Porse questo par-
ticipio, indipendentemente dal latino, è stato fatto in
dette lingue dal verbo vedere secondo le regolo di
Coniugazione proprie, non del latino, ma di esse lin-
gue? Anzi, secondo queste regole, egli è in esso lingue
affatto anomalo e irregolare e fuori d'ogni ordine; ei
non ha in esse lingue veruna origine; e in luogo di
esso, la lingua italiana, secondo le regole delle sue
coniuga/ioni, doe dire veduto ') (lo spagnuolo dovrebbe
dir veido o vi.do), e lo dico infatti ancor esso. Ma que-
sto secondo participio (3034) italiano, regolare e mo-
derno è molto meno volgare e più nobile, e qtiell' altro
irregolare, antico o latino è più pilebeo, e forse, almeno
in vari luoghi, il solo che la plebe adoperi, siccomo
in ispagnuolo egli è unico si per la plebe ohe per la
gente cólta e por la scrittura. Dondo pertanto questo
participio nel latino-barbaro, e nelle lingue moderno,
J ) Veduto sarebbe appunto il regolairisaìmo vìdilufi, sepoudo il flètto
;i pag. 3074, segg, 3362-8. Cosi da fundo regolarmente fnndilm dimo-
strato A* f mutilare, t da medeo, mtdUui dimostrai» d» vuotare, come al-
trove dico, cìih'i p. 3352-60.
Lkoi>ahi)i. — Pensieri, V. li)
làG
pensieri (3034-3035-3036)
s' ei non viene dal latino conosciuto, né dallo radici
e regole d'esso lingne? Qual altro mezzo ce lo può
aver conservato, se non il volgare latino, consorvatore
dèli'. antichità pivi che il latino scritto, e in questo
prosente caso più regolare eziandio?
2°, Visito os si fii frequentativo di viso is. La-
sciamo stare «'egli sia di vino is, o piuttosto di video.
il cui participio è lo stesso, cioè visus. Ma se l'antico
participio dell'uno e dell'altro o d'ambedue, fu visi-
tus, il verbo visito potrà eziandio esser continuativo
di qual de' due si creda meglio, e venire non da visus
o supino visum, ma da visitus, o supino visifum. Da
visus altresì nacquero parecchi verbi di cui vedi la
(3035) p. 284-3, seg., 3005, 3019. Se visito viene da vi-
situs di video, egli non sarà né figlio di viso is, né
diverso da esso per formazione o per significato origi-
nario (cioè esso frequentativo, e viso continuativo), anzi
sarà fratello di viso is, formato nello stesso modo, cioè
dal participio in U8 di video, continuativo coni' osso
viscre; ma sarà fratello maggiore, porche formato da
un participio più antico e più regolare di visus, o
piuttosto sarà originalmente tutt'un verbo con viso is,
perdio formato da un medesimo participio, cioè visir'
tus detto anche vism per contrazione e anomalia.
3°, Ho sostenuto, p. 2932, segg., 1' esistenza del
verbo pisare o pisere (tutt'nno con pigiare e pìsar) fatto
da un pisus participio di pinsere. Ora coli' esempio di
visto, e coli' aiuto delle considerazioni ch'esso ci sommi-
nistra, confermeremo quel nostro discorso; e all'in-
contro con esso discorso confermeremo il presento. TI
participio regolare di pinso è pinsitus che tuttavia
sussiste. Ecco un gemello di visitus. Da jrinsitus si
fece per contrazione (3036) o anomalia pinsus che al-
tresì sussiste. Ecco da visitus, visus che solo sussiste
nel latino conosciuto. Altresì da pinsitus si fece pistus
elio parimente sussiste. Questa formazione suppone o
dimostra duo cangiamenti; primo, la detrazione della
147
(303G-3037) pensieri _
E onde pisitus che non subiste, ma si prova, come ve-
ilete. Ed eccoci di nuovo a visito*- Secondo, la solita
detrazione dell'i (come in postos per po.nt.us), onde
tistug oh' è il solo participio conservato nelle lingue
moderne (pesto italiano, pista italiano volgare o spa-
gnolo), da cui pistare. Ed eccovi appunto il visius
conservato nelle lingue moderne in luogo e di msdus
■ e di visus '), ondo avvistare ec. (vedi la p. 2844, 3005).
Ma siccome da pìnsitus si fece pinsm, detratte
le lottere it, cosi appunto da pùitus pmis, non altri-
menti che pisius. E ciò né più né meno che da vi-
tto* visus, non altrimenti che visto*. E siccome
da visus, anomala contrazione di visitus, si fece 1 ano-
malo viso is in cambio di visó as (qui si può vedere
la n 3005, circa il verbo viser , avvitare ec), cosi e
curioso a notare che anche da pism anomala contra-
zione di pinato* o visito* si trovi o si creda fatto, ol-
tre (3037) a pino as, e fora' anche in luogo di questo,
l'anomalo continuativo pko is. ,
E qui possiamo considerare quanti particrpu in
us abbia uno stesso verbo, cioè pinso, o piuttosto quanti
no sieno nati da un solo, cioè pinsitv*, parte esistenti,
parte dimostrati per ragione, e alcuno di questi da la
nostra teoria de' continuativi. E bone il considerarlo,
perché ciò serva d'esempio, e quindi si f uccia ragione
quanto giustamente io dica che moltissimi verbi della
prima, che sembrano tutt' altro, sono veri continua-
tivi di verbi o noti o ignoti (e vedi a questo propo-
sito p. 2928-30), e quanti che si credono puri agget-
tivi sono veri participi! di verbi talora anche no i,
ina non riconosciuti por loro padri (del che vedi la
p. 3026).
*) L'insto, censitila » emms a
alone dn me latta eircn tali verbali
Intero negli scrittovi lutini è pili
cenali». Cosa simile ali» presento ili
iim, mulo centi» U*, BBOonfiO l'osserva-
della quarta. HotftbUe è ohe censitus
raro o pirt moderno olio 11 contratto
vita» per visitus. Vedi p. 3815, Bne.
1*8 p^uaiHW (3037-3038-3039)
Dunquo da pinso
PÌnsUua 1
l "1
Pinsus 8 Pisitus 3
r 1
Pistus 4 Pisus "
1, 2, 4, esistenti nói buon latino; 3, dimostrato por
ragiono grammaticale da pisttis; 5, dimostrato da'eon-
tinuativi pisare o pisére, pigiare, pisare. (3038) Chi
volesse che pista non fosso da pisitus ina da pinsus,
detrattane la n, come da pinsitus in pisitus, poco motte
terebbo. Avremmo sempre e in pinsus e in pisus la
detrazione dell' it a dimostrare la derivazione di vi-
sita da visitùs, e 1' anteriorità di questo, come anche
di visius ohe ha sola una lettora meno di visitile, e
non dne (25 luglio, di di S. Giacomo, 1823). Vedi la
pag. seguente.
* Alla p. 2929. Cosi da vivo-vixi-victum, si dovette
faro anche vixum o vixus. Lo deduco dal nostro an-
tico visso, il quale non è contrazione di vissuto, per-
ché tal contrazione non è doli' indolo e uso della nostra
lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e dissero più
regolarmente vivido, anello trecentisti, corno ho tro-
vato io medesimo , non altrimenti che da ricevuiUB
rkevvro) sombra venire da un altro, od anche più
antico e regolare participio latino vixitus, cambiato
1'/ in u, comò in latino a ogni tratto (vedi p. 2824-5,
principio e 2895), e come particolarmente in italiano
ne' participii passivi por proprietà, costume c regola
della lingua (venditus-venduto, redditus-renduto, per-
ditus-purduto, seditus, antico (3039) e regolare-secZjt^,
debitus, da altra coniugazione - devido, tenitus, antico
e regolali! - tenuto, ct-dilu», antico e regolare - ceduto) *
(3039-3040) ì-KNSim ti ^
E qui è da. osservare la conservazione nel nostro
volgare, di questo antichissimo vkms ignoto nel la-
tino, simile a quella di vistus, di cui veggasi p. 3032-4
(25 luglio 1823). Sia che v'isso sia fatto dal supino
vixwn ignoto, o dall' ignoto participio neutro vixus,
in luogo del quale non si trova seppur 'victus a wm
(trovandosi vioiim supino), sebbene dovette esservi,
secondo quello che di tali participii neutri ec. ho dotto
altrove. E infiniti ne consorvano le lingue tìglio, che
non si trovano nel latino scritto (25 luglio, di di S. Gia-
como, 1823).
* Alla pag. antecedente. Chi poi volesse che pisarv
non venisse^da pi$us (benché pur se n'abbia un bol-
lissimo esempio in visere da visus, siccome ho detto),
ma che (s' ei veramente esistè) fosse lo stesso che
pinsere, detratta la n comò in pistus, mi darebbe
altresì' poca noia. In tal caso pisare non sarebbe fra-
tello ma figlio di pìsere; e corto esso e pisar e pi-
giara verrebbero da pisus, come dimostrano gì' infiniti
(3040) esempi che della formazione di tali verbi della
prima maniera da' participii in us d'altri verbi, rac-
coglie la mia teoria do' continuativi ec. ec. (26 luglio,
di di Sant'Anna, 1823). Vedi p. 3052.
* L' uomo in cui concorressero grande e cólto in-
gegno, e risolutezza, si può affermare sena' alcun dub-
bio che farebbe e otterrebbe gran cose nel mondo, e
che corto non potrebbe restaro oscuro, in qualunque
condizione l'avesse posto la fortuna dolla nascita. Ma
l'abito della prudenza nel deliberare esclude ordina-
riamente la facilità e prontezza del risolverò, ed anche
la fermezza n eli' operare. Pi qui è che gli uomini d'in-
gegno graudo od esercitato sono per lo più, anzi quasi
sempre, prigionieri, per cosi diro, dell' irresolutezza,
difficili' a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati,
deboli nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il
i :>( '
i-KKSiKRi (3040-3041-3042)
mondo, il quale, perché la risolutezza por so può sem-
pro pivi elio la prudonza sola, fu ed è e sarà sempre
in balia degli uomini mediocri (26 luglio, di di San-
t'Anna, 1823).
* Alla p. 2864. Avolo, cibitelo, ayeul da avulus. Noi
abbiamo anche il positivo avo (20 luglio 182B). Tedi
p. 3054, 3063. (3041)
* Alla p. 30 1 4. Io credo por certo che in qua-
lunque modo quelle inflessioni, voci, frasi ec. che in
Omero si credono proprie di tale o tal altro dialetto
fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione cono-
sciute ed intese da tutte le nazioni greche o, so non
altro, da una tal nazione (come forso la ionica), alla
guai sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo
di cantare e di scrivore, e avrà probabilmente can-
tato e scritto. Quanto agli altri poeti, se le ragioni
ohe ho addotto por, ispiegaro come , malgrado 1' uso
de' dialotti, essi fossero universalmente intesi, non
paressero bastanti, si osservi che effettivamente in
Grècia, siccomo altrove, i poeti cessarono ben presto
di cantare al popolo (e cosi pur gli altri scrittori), e
il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligi-
bile al volgo, dal cui idioma esso era anche più sepa-
rato che non è la lingua poetica italiana dalla volgare
e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone
cólte, le quali, intendendo e studiando tuttodì e sa-
pendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, paro-
diandoli, alludendovi a ogni tratto (3042) nolla cólta
conversazione e nella scrittura, intendevano anche fa-
cilmente gli altri poeti o il linguaggio pootico greco,
benché composto delle proprietà di varii dialetti. Pe-
rocché esso era tutto omerico, coinè ho detto , sia in
ispecie sia in genere; cioè lo inflessioni, le frasi le
voci che lo componevano o erano le identiche ome-
riche (e tali erano in fatti forse la più gran parte),
o erano di quo] tenore, di quella origine, derivate o
(3042-3043-3044) i-kn sieki 151
l'ormate da quelle di Omero, o tolte dai fonti e dai
luoghi ond' egli le trasse, e dò secondo i modi e le
leggi da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo
Omero al popolo, o per il popolo composero, come 1
drammatici, poco o nulla mescolarono i dialetti, c
no segue effettivamente che se talvolta il loro stile e
omerico . come quello di Sofocle, il loro linguaggio
però non è tale. Esso è attico veramente, siccome fatto
per gli ateniesi, se non forse nei pezzi lirici, i quali
anche per la natura del soggetto e del genere sa-
rebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In ef-
fetto Frinico appresso l'ozio (cod. 158) conta fra' mo-
delli, regole, (3043) norme del puro e schietto sermone
attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici
in quanto sono attici, perocché questi talora per
ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa
d'altri dialetti, e ciò non appartiene al nostro pro-
posito, ed alcuni tragici, forse, avendo rispetto al
gran concorso de' forestieri che d' ogni parto della
(Uccia accorrevano alla rappresentazione dei drammi
in Atene, non avranno avuto riguardo di usare al-
cuna cosa d' altri dialetti. Ma generalmente si vedo
che il dialetto de' drammatici greci è un solo. E
del resto, siccome tra noi o ne' teatri di tutte le
cólte nazioni, benché la più parto dell' uditorio sia
popolo , nondimeno i drammi che s' espongono non
sono scritti né in istile né in lingua popolare, ma
sempre cólta, e bene spesso anzi poetichissima e di-
versissima dalla corrente e familiare ed oziandio dalla
prosaica cólta: cosi si deve stimare che accadesse ap-
presso a poco più o meno anche in Grecia o in Ateno,
dove i giudici de' drammi cho concorrevano al premio
(3044) non era filialmente il popolo, ma uno scelto
e piccol numero d'intelligenti, o dove le persone cólte
fra quelle che componevano 1' uditorio erano per lo
meno in tanto numero come fra noi. Vedi il Viaggio
di Allocarsi) cap. 70,
152
l'HNSlKItl
(3044-3045-3046)
Altri pooti non drammatici si ristrinsero pure
a tale o tal dialetto particolare, e per conseguenza
scrissero a una sola nazione o parto della Grecia e
q uosta si proposero por uditorio (com* è verisimilis*
simo che facesse anche Omero), ué questi furono po-
chi, anzi fra gli antichi furono i piti. E si può dir
che la totale, confusa, indifferente, copiosa mescolanza,
de' dialetti nel linguaggio poetico greco, c il seguir
ciecamente la lingua e l'uso di Omero non sia pro-
prio so non de' poeti greci più moderni, e nella deca-
denza della poesia, come Apollonio ttodio, Arato, Calli-
maco e tali altri dei tempi de' Tolomei, quando già la
baso della letteratura greca era l'imitazione de' suoi
antichi classici. Porocché di Esiodo contemporaneo di
Omero, o poco anterioro o posteriore, non è maraviglia
so il suo linguaggio si trova omèrico: spieghisi l'uso
di (3045) questo linguaggio in lui colle ragioni e con-
sirier, zioni stesse con cui si spiega in Omero. In Ana-
creonte v' ha pochissima mescolanza di dialetti (vedi
Fabricius, BiUiotheca Graeca, in Atiacr.). Certo il suo
Unguaggw è tutf altro da quello di Omero. Esso è io-
nico. Saffo scrisse in oolico. Empedocle, benché sici-
liano e pitagorico, adoperò invece del dorico l'ionico
(vedi Eabricius in Empedocle, Giordani snW Empedo-
cle di Scinà, fine dell' articolo secondo). Eorse che il
dialetto ionico era allora il più comune della Grecia?
Probabile, poi gran commercio di quella nazione tutta
marittima e mercantile. Eorso quello che noi chia-
miamo ionico non ora in quel tempo elio il linguag-
gio comune della Grecia, siccome poi lo fu con corte
restrizioni l'attico, che nacque pur dall' ionico? Pro-
babile ancora; o in tal caso sarebbe risoluta anche la
quistione intorno ad Omero, il quale da tutti ò rico-
nosciuto por poeta principalmente ionico di linguag-
gio; e si confermerebbe la mia opinione, che il lin-
guaggio da Ini seguito non fosso allora che l' idioma
comune di tutta la Grecia, siccome V italiano (3046)
(3046-3047) r-EKsmti 153
[del Tasso è l' italiano comune di tutta V Italia. 0 fotte
L Grecia era ancor troppo poco cólta universalmente
per aver un linguaggio comune già regolato e perfetto,
e in mancanza di questo serviva l' ionico, corno il pm
Ivulgato, perché proprio della nazione più commer-
ciante? 0 finalmente Empedocle scelse l' ionico per
imitare e seguire Omero? Molto probabile. In Pindaro
e in altri lirici del suo o di simil genere la mescolanza
de' dialetti non fa maraviglia. Essa è licenza piutto-
sto che istituto (kw^Kiw); e questa licenza è naturale
in quel gonere licenziosissimo in ogni altra cosa, come
stile immagini, concetti, transizioni, sentenze ec
Questa mia sentenza che il creduto moltiplico
dialetto di Omero non fosso che il greco cflinune di
allora, o non fosse che un dialetto solo al quale ap-
partenessero tutte quello proprietà che ora a molti e
diversi si attribuiscono, credo che sia sentenza già
sostenuta e (3047) anche generalmente ricevuta og-
gidi appresso gli eruditi stranieri (2G luglio 1823, di
di S. Anna).
* La forza, l'originalità, l' abbondanza, la sublimità
ed anche la nobiltà dello stilo, possono, certo in gran
parte, venire dalla natura, dall'ingegno, dall'educa-
zione, o col favore di queste acquistarsene m breve
l'abito, ed acquistato, senza grandissima fatica met-
terlo in opera. La chiarezza e (massime a' di nostri)
la semplicità (intondo quella eh' è quasi uno colla
naturalezza o il contrario dell' affettazione sensibile
di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia ma-
teria e stile o composizione, conio ho spiegato altrove),
La chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la gra-
zia che senza di queste non può stare, e che in esse
por gran parte o ben sovente consiste), la chiarezza,
dico, e la semplicità, quei pregi fondamentali d'ogni
qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili, anzi
di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a
154
pensieri (3047-3048-3049)
nulla, valgono e collo quali ninna, scrittura, benché
ni un' altra dote abbia, ó mai disprogevole, sono tutta
e per tutto opera, dono ed effetto dell'arte. (3048) Le
qualità dove l'arte dee meno apparire, che paiono le
più naturali, che debbono infatti parere le più sponta-
nee, che paiono le più facili, che debbono altresì pa-
rer conseguite con somma facilità, l'ima delle quali
si può dir che appunto consiste nel nascondere in-
tieramente l'arto, e nella niuna apparenza d'artificioso
e di travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arto
sola, quelle che non si conseguono mai se non collo
studio, le più difficili ad acquistarne l'abito, le ul-
time che si conseguiscano, e tali che acquistatone
l'abito, non si può tuttavia mai senza grandissima
fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza dello
scrittore noi comporre toglie al suo scrivere, in quanto
ella si estende, la semplicità e la chiai-ezza, perché
queste non sono mai altro che il frutto dell'arte, sic-
come abitualo, cosi ancora attuale; porche la natura
non le insogna mai, non le dona ad alcuno ; perché
non è possibile eh' elle vongano mai da so, chi non le
cerca, né che veruna parte (3049) di veruna scrittura
riesca mai chiara, né semplice per altro, che per
espresso artifizio e diligenza posta dallo scrittore a
farla riuscir tale. E togliendo immancabilmente la
chiarezza o la semplicità, ogni minima negligenza
dello scrittore inevitabilmente dannoggia, e in quella
tal parte distrugge si la bellezza, si la bontà di qual-
sivoglia scrittura. Perocché la semplicità e la chiarezza
sono parti cosi fondamentali ed essonziali della bel-
lezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser con-
tinue, né mai per niuna ragione (so non por ischerzo
o cosa tale) elle non debbono essere intermesso, né
mancare a veruna, benché piccola, parte del compo-
nimento. La forza, la sublimità, l'abbondanza o la bre-
vità e rapidità, lo splendoro, la nobiltà medesima, si
possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella
(3049-3050-3051) ^jPENSima ;
LritoTelle possono, anzi debbono avere quando il
più quando il meno, si dentro una medesima, come in
Iverse composizioni e generi; elle possono esser di -
gerenti da se medesime, secondo le scritture e le parti
e circostanze (3050) e occasioni di questo anzi elio
né deggiono né possono altrimenti Ma la grezza e
L semplicità non donno aver mai né,l più né U meno;
in qualsivoglia genere di scrittura, in V&gg»
in qualsivoglia parte di qualsia componimento, elle,
"on solo noi hanno a mancar mai pur un attimo ma
Senno sempre e dovunque e appi-esso ogni .ci ttozc
esser le medesime in quanto a se (benché con divers
mozzi si possono procurare e dar loro diversi aspetti
e diverse circostanze), sempre della medesima quan-
tità, per cosi dire, e sempre uguali a se stesse Bel-
l'esse? di chiarezza e semplicità e nell'intenzione di
[. questo essere (26 luglio 1823, di di b. Anna).
* È ben difficile scrivere in frotta con chiarezza e
semplicità; più difficile che con efficacia veemenza,
Spia, ed laiche con magnificenza di stile. Nondimeno
la fretta può stare colla diligenza. La semplicità e
chiarezza se può star colla fretta, non può certo stai
colla negligenza. È bellissima nelle scritture un ap-
parenza di trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono,
nna quasi noncuranza. (3051) Questa e una delle spe-
cie dèlia semplicità. Anzi la semplicità più o meno o
sempre un'apparenza di sprezzatura (benché per le di-
verse qualità ch'ella può avere non sempre ella pro-
duca nel lettore il sentimento di questa sprezzatili a
come principale e caratteristico), perocch ella sempre
consiste noi nascondere affatto l'arte, la fatica e la
ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai
dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da mol-
tissima e continua cura e artifizio e studio. Quando
la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger
lo scritto è quello dello stonto, della fatica, dell arte,
l- r >(> WlHSnau 1 305 1-3052-3053^
dolla ricorcatey.ua, della difficoltà. Perocché la facilità
che si dee sentire nelle scritture è la qualità più dif-
ficile ad ossor loro comunicata. ~Né senza stento gran-
dissimo si consegue né l'abito né l'atto di comuni-
carlo loro (27 luglio 1823).
? Voce non esistente nel latino scritto, comune però
alle tre lingue tìglio : Speranza, espérance, esperanno,,
cioè sperantia, verbale di (3052) spero, fatto secondo
1' uso del buon latino, come constantia, instantìa, re-
dundantia oc. (27 luglio 1823).
* Alla p. 3040. Qua io credo che si debba riferire
il verbo -posare (frane, posar, ondo déposer , opposer,
frupposer, eomposer, apposer, disposar, exposer, propo-
ser, imposer ec. ec.) in quanto ei significa por già, de-
porre, con tutti i suoi derivati ec. in questo senso.
Che riposare e posare por quiescere vengano da pausa,
pausare ec. (e cosi il francese reposer ec.) l'ho detto in
altro luogo, lo dimostra l' uso del verbo pausare ec. ec.
nel glossario cang. e va bone. Ma cho posare , posar,
déposer per deporre vengano da pausare, non da po-
nera, e non siano quindi affatto diversi da posare ec.
per quiescere, benché suonino allo stesso modo, non
posso in alcun modo persuadermelo, benché trovi nel
glossario un esempio dove pausare sta per deporre.
Io credo che sia sbaglio di copista (o dolio stesso au-
tore, ignorante, come tutti allora orano, della lingua
stessa barbara) che ha scritto V au per l'o, sillabe so-
lite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massimo
avendovi un altro verbo similissimo, cioè pausare
(3053) per riposare, a cui V au veramente conveniva.
Posare per deporre dee certo venire da postiti*, con-
tratto in postai, conio visitus-visus, pinsUìis-pinstis,
pprìtw-pisus, onde viser, pisare. Da posittis non con-
tratto viene depositare e lo spaglinolo depositar, di
cui pure ho parlato altrove. Aggiungete che poser in
157
(3053-3054) rBsàrgni •__
^■™7non vale bene spesso altro ohe propriamente
non hi nientissimo a far con ***** °
t se non in quanto quest'ultimo talvolta significa
E<L, f«r ta U«, e in questo senso egli è un al o
Ce viene altresì à.poner, Da postw -viene
italiano, «ori* rf^VSf^S
Moderno tecnico (27 luglio 1823). Vedi p. 3058.
* Pausare poi potrà venir da pàusa , la qual voce
Lne rió^MaVtrebbe anche (in sieme » con j^
tinnativo fatto da un i>««^ ^ 1 fv! Zo
navo o siimi verbo pari al sopraddetto verbo greco
E Porcellini e quello che altrove ho
: voci in un pensiero separato, e il glossario (27 lu-
1 glio 1823). (3054)
* A proposito di quel che ho detto
del mio disborso sui continuativi circa everter*, ^
? rar eo. vedi il glossario cang. in «pam», 3 e 5 (27
glio 1823).
* Oyrtdh» da .pé»».* gel,. La stessa metafora
l adoperata da' latini o greci por «^^.Jf^ 0
naturale adoprasi da' francesi per 1" arcale. Sto,
bwiro di cristallo fattoio (27 luglio 1823).
* Alla p. 3040, fine. Questi tali diminutivi comuni
a tutte tre le lingue figlie dimostrano che 1 «odi
essi in luogo o significato de' positivi viene dal latino
massimo che anche nel buon latino si trovano molti
diminutivi usati in luogo de' positivi disusati o. per-
duti o meno usati, ovvero indifferentemente dai posi-
tivi ec. eo. ec. I quali fanno ben probabile che
volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo
stesso anche que' diminuitivi positivati che oggi
s'usano o in tutte tre le lingue figlie, o m alcuna d,
loro oc, da noi in parto annoverati eo. oc. ec.
158
pensieri (3054-3055-3056)
Al qual proposito si osservi la voce fabula, fa-
bella, ec., ondo fabula as, fabulor art», e, favellìi., favel-
lare oc, comò ho largamente detto altrove. Ch'ella
venga da fari lo credo, ma parmi eziandio chiaro
ch'ella è un diminutivo d'altra voce. E tanto pili che
non ai dice fabulella, ma fabella, altro diminutivo,
che non vien da fabula, ma pare che insieme con que-
sto dimostri un terzo (3055) e positivo nome, del
quale ambedue sieno diminutivi '). Questo positivo
è ignoto nel latino. Non vi si usano che i detti di-
minutivi, col verbo diminutivo fabula oc. Ma noi ab-
biamo la voce fiaba che significa appunto favola; e
che poi fu applicato particolarmente a certe strava-
ganti composizioni teatrali , come anche fabula in
latino fu applicato a significare i drammi in senso
non diminutivo, ma positivo. Dubito forte che questo
fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta nello
scritto, conservata noi volgare fino a noi (21 lu-
glio 1823).
* Como pedantescamente 1' ortografia francese sia
modellata, anzi servilmente copiata dalla latina, si può
ossorvar nell' uso dell' h che in parole o sillabe affatto
compagne di pronunzia e di suono, non hanno 1' h se
in latino (o in greco ce.) non l'avevano, se l'avevano
l' hanno anche in francese. Come in Christ-cristaty
technique, théologie, homme-omettre ec. Cosi dite del
ph. } doli' y ec. Cosa veramente pedantesca o infilo-
solica (3056) elio parole nazionali usualissime, volga-
ri ssime s' abbiano da scrivere non come la nazione
lo pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui
lingue esso vennero, i quali cosi le scrivovano per-
ché cosi le pronunziavano, giacché anche i latini pro-
') botate però ohe similmente bì ili populut (mulo paptilo e
populor) e pnpelhis. In Tedio, IV, 7, v. 23 fabella is vero diminutivo di
fabula, conio popeMus lo « ili pnpulus. In tal caso favella e favellare,
die i latini dicevano fabula o fabularc, appartengono alisi classe de 1 no-
stri diminutivi prèsi invero de 1 positivi. Abbiamo nmmo favola positivo,
ina in nitro nonno, pur lutino poro. Vndi p. 3062.
(3056-3057) p ensieri 159
Iniziavano, per esempio, 1' y come u gallico ec. (seb-
: bene anch'essi da' tempi di Cicerone in poi peccarono
j nn poco nella servile imitazione della scrittura greca
i circa la parole venute o nuovamente prese dal greco),
: vedi Desbillons, «dPfirtedr.,Manheim,178C, p. LXV1H.
: Cho so lo voci nasalizzate in una lingua, e mutate
i affatto dal loro primo stato per la pronunzia della
Eazione, s'avessero sempre a scrivere nel modo in cui
; le scrivevano o le scrivono quei popoli, ancorché lon-
tanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, e se la
scrittura originale s'avesse sempre a conservare m
| ciascuna voce, cangiata o non cangiata dal tempo
: dal luogo e dalla diversa nazione e lingua , e se il
I pregio, di un' ortografìa consistesse nel conservare e
; . forme originali di ciascuna voce por forestiera eh ella
' fosse, non so perché le voci venute dal greco non si
debbano scrivere con lettere greche, e l'ebraiche e e
arabiche con lettere e punti ebraici ed arabici, e le
tedesche con lettere tedesche. Giacché usando diverso
alfabeto la scrittura originale si può imitare, ma non
perfettamente conservare. E cosi dovremmo imparare
e usare cento alfabeti per saper leggere e scrivere la
nostra lingua. (3057) Veramente nessuna nazione in
questa parte è cosi savia, e ninna scrittura cosi vera,
perfetta e filosofica come l'italiana. Gli antichi greci
se le potrebbero paragonare, so non che poche voci
forestiero li ponevano in pericolo di guastar la loro
ortografia (27 luglio 182;3).
* Condiscendere, condiscendenza, eondzcmdcr o C<m-
déseender, condescmdre, condescendance ec. vengono dal
greco. S 0 f*wipa«c per condisùmdcwsa è in S. Giovanni
Crisostomo nel Sermone, Quod nemo laedatur nisi a
seipso. "Oxt xèv Uutòv à3«o5vta ofrisic jtapapXa'lai Sti-
vata-., che incomincia ()13« |«v S« «*c ™V>*h°K> ca P; X j>
Opp. Chrysost., edit. Montfaucon, t, III, p. 457, B. Vedi
i glossari latino e greco. Vedi p. 3071.
li i( )
pexstki:. (3057-3058-3059)
* Sopra per contro (vedi Crusca in Sopra, § 2. Va-
nire sopra alcuno. Darà sopra. Il Boccaccio, Nov. 17,
Acciocché, sopra, cioè contro, Osbech dall'una parte con le,
sue forze, discendesse. E vedi par la Crusca in Scen-
dere, § 1) è pretto grecismo (ignoto noi buon latino)
e grecismo dell'ottimo e purissimo greco. I greci di-
cono Ini nel medesimo sonso, si quando questa propo-
sizione è separata, si nella composiziono, come ìreép/c-
jiixe oc. (28 luglio 1823). (3058)
* Alla p. 3053, fino. Posar spagnuolo por abitare,
onde posada ec. Pausar spagnuolo ec. Vedi i dizionari!
spaglinoli. Repossione per repos-it-ionem trovasi in
un' antica iscrizione latina recontemente scoperta e
illustrata dal Ciampi (in una lettera data da Var-
savia e stampata noli' appendice al Giornale di Mi-
lano due o tre anni fa); e sta con significazione di
luogo da riporre robe (28 luglio 182S). Vedi p. 3060.
* Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si ve-
rifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sen-
sibilissimi elio col tempo e coli' uso del mondo diven-
gono più insensibili degli insensibilissimi por natura,
come lio detto altrove, o danno noll'occesso contrario
ec. (28 luglio 1823).
* Persone imperfette, difottose, mostruose di corpo,
tra quelle elio non arrivano a nascere e si perdono
per aborti, sconciature ec. non volontarie né procu-
rate, tra quelle clie son tali dalla nascita, e muoiono
appena nate o poco appresso, per vizii naturali in-
terni o esterni; quelle ciré cosi nate vivono e si
veggono e si ponno facilmente contare , annove-
rando le mostruosità o difettosità d'ogni sorta; quelle
finalmente che tali son divenute dopo la nascita,
più (3069) presto o piò. tardi, naturalmente e senza
esterna cagione immediata, voglio diro o per vizio
Ili
inn
a co
m
161
(3059-3060)
lue naturalmente sopravvenuta soW ,
Iglienào tutti questi ^^S?^ il
col^o d'occhiò e aèt^a molta i ifl c s
«£, nel solo l^<P"| 8£3**
-vile di esso, ^r.'li glia altro intero genere
nello che trovasi m r uals v « che veggialll0
h^Srat^gtt^S domestici, che pur
n ciascheduna specie ac , coalizione e vita
Lo corrotti e inutati da! a a u gj» • ma l me nati, ma
> da noi in mille g^Sg^ùi difettosi o me-
tutto insieme il numero degl mdma .
struosi elio noi veggiamo 3n tattile sp
che ci si offrono &***%»^.^J^ che
perate insieme. La ^^^fo momento e
EU io credo, purché 1 " . a & ° c01ltraS tare. Si-
raccolga le sue reminiscenze la pò £ra le
Le ^^ e » ^^^Satamente tra
nazioni civili o le selvagge, i ì k come
lo più civili e lo meno f^f^^S. (3060)
tra' francesi, italiani ^«'^ Lerva-
Quali — TJeiri-eìe conseguente
lioui è cosi facile il vedono , m _„ irior certezza
U evidentissime ed ^.^S^SS matémà-
che possa avere una P-^f^T^SarS'Wtr» *
ticamcnte c dedotta matematicamente da i
cui non si possa dubitare (28 luglio 1823).
Fedro di DosbiUous, Manheim, 7hb, p. > ,
fab. 21, vera. 3. Quieto» « «« d * 9 WMC0, ^ ^ ™ 1
162
pensieri (3060-3061 3062)
ticolai'o il Desbillons, loc. cit., p. LXVI, ad II, 8
vers. 15. Ùsurpatus a um. Vedi Cic, ad fam.., IX, 22
verso il principio (28 loglio 1823). Vedi p. 3074.
* Alia p. 3058. Annua (e cosi semias&us) por assattté
sarebbe una contrazione che farebbe al proposito. Se
però assare non viene appunto da assus, il quale in
tal caso sarebbe participio di verbo ignoto. E s' ei
fosso il medesimo che arsus (vedi Porcellini in asxus),
il che non è inverisimile (3061) stanto l'antico uso
latino di pronunziare e scrivere la s per la r (del che
altrove, cioè p. 2991, segg.) ansare sarebbe lo stesso
che arsare, voce de' bassi tempi, della quale altrove,
continuativo di ardeo e più regolare ec. nella pro-
nunzia che cavare. l ) Vedi p. 3064. Elixus per elhcatus
(che pui' si dice) sarebbe altra contrazione al propo-
sito, se però elixo non viene da elktus, come ho dotto
di assus. E veggasi a qnesto proposito la p. 2757-8 e
2930. margine (29 luglio 1823).
:|: Niuna cosa nella sociotà è giudicata, né infatti
riesce più vergognosa del vergognarsi (29 luglio 1823).
* In proposito di favella, favellare, ha/dar ec. di
cui molto distesamente ho ragionato altrove, veg-
gansi lo voci francesi habler, hablerie, hableur ec. Essi
hanno anche falde, ec. come noi pur favola oc. o gli
spaglinoli fabula ec. dall'altro significato latino di
fabula, fabulari ec. (29 luglio 1823). Vedi pur lo spa-
ginalo lurida e hablilla ec. ser habla o habUlla del
pueblo (29 luglio 1823). (3062)
* Alla p. 3065, margine . Asinus-asellus invoce di
atsinellus, cho sarebbe intero o regolare, e che noi di-
ciamo. Opera-opella oc. (29 luglio 1823).
') Spaglinolo osar, italiano lessare, ec,
163
(3062-3063) J^f. -
l^^nens alteui rei prò JJ^W
r?^^ÌfSJdibesbiUon S , Manhenn, 1986,
L LIX (29 luglio 1823).
. Ubi duo Urtatimi veggansi » .J^Aè
i p fi voroo i. BosbilW, loc. cit, p. MI
pi Da*,»»»., X ™» y "«.li. io 1» <«-
L m pio i, a,»), -i ' i
ild.bilo splendor». »»b Ha »»•; J ""S,*"»-
,o.t„. dalla ^"-^Trfe— 17»
rur ^tT„a ! - . ^ -
poco uso della lima, silcojho
lingua (21) luglio 1823).
184
E-Ettelteu (3063-3064-3065]
* Alla p. 3040, fine. Asellus, capello equivalgono ad
asinus, capra. Vedi a questo proposito il Porcellini
in catellus (.'30 luglio 1823). Vedi p. 3073.
* Come da nose.o-notus, nonetto, cosi da na$cor~natus f
nasc.itvrus , del che mi pare di aver detto altrove (30
luglio 1823). (3084)
* Similmente morwr-mortuus-moritwus ec. ec. (30
luglio 1823).
*Alla p. 3061. Olio assare venga da ardere, e sia
10 stesso che amare, oltre la verisimiglianza ch'ha
in se medesimo, considerando i significati di tali
verbi, si fa eziandio più probabile osservando che il
nostro arrostire (francese ròtir) ch'equivale ad assare,
viene da urere ch'equivale quasi ad ardere (preso at-
tivamente, come noi sovente lo prendiamo, e come
bisogna considerarlo nel caso nostro: vedi Porcellini
in ardeo e arsus participio passato, i dizionari fran-
cesi in arder, e lo spaglinolo). E che arrostire venga da
wrere, si dimostra guardando ch'egli è corruzione (o
che che altro si voglia) d' abbrostirc il quale origina-
riamente è il medesimo verbo; e che abbrostire è quasi
11 medesimo che abbroslolire, il qual è corruzione di
abbrustolare, e che abbrustolare detratto le lettere abbr
(non so come premessegli) , è appunto il latino vstu-
lure, il cui significato è né più né meno quello di ab-
brustolare; e che ustulare è fatto da ustus di urere.
Abbruéiiare, voce fiorentina, è quanto al materiale lo
stosso che abbrustolare, mutato il iol (3065) (latino
tul) in ti, secondo il costume della lingua nostra (e
massime della fiorentina e toscana), come da oc-ul-vs
occh-i-o, da masc-vl-us rnasch-io, che i fiorentini dicono
mastio ec„ corno ho dotto altrove (cosi da mise-ul-are
misch-i-are,,i fiorentini mistiare).Lc lettere abbr abr a br
paiono nelle nostro lingue esser proprio, non so perché}
166
(306B-30a6-30«7)_ _ rMSfflU__
p^oci di ^ Sfotti £2 z^:™
^■ostire e ne' sopraddetta 0 „ e m > foresi
t Ì' cioè ""E X he «a'bbe u* verbo lato**
: dl In**» oc, bruciar, oc,
bari» no , m brustola c ^ abm _
6C - ""TSte ^ corrosióni del latino
ec. Forse queste tutte , Bono glo88a rio so
. ha nulla in P^^^'T^^-LStenere al latino, e
Ur, ^: ,É «tr5S«n tolto forse
da quella origine da cui v ^ d
ancora l'uso di pvem etto t • le »W ,
altre voci di lignificato . rftoetì W , l ^
venuto d'altra origine, cioo latina V
<* ìiAna mediante la letteratura
• Ohe la ^jgXSSS* ÌD **** 6
8Ìa fV'lE ^a moderna a quei tempi,
più divulgata cne muu » /^..^.p l a lingua Spa-
S certo per più ^^ffijtii* e in
gnuola per un certo tempo io^ in fi ^
Italia nei seicento f™^^ n tanta diffusione
vantos in ispagnnolo, mente : o «gl
della lingua francese, ohe un libro fc.»,
cese di lattei atnia o ro ie da m6 se -
raccogli da paxecol" toogfc* ^ ^ ^
guato qua e là, e da i ^
ciìuiente raccorrò. \ etli in P ^ ^ edialou0
ddla letteratura, parte ±i, i. , i - J& vita di
Veneta del Loschi t. IV, ^ i«J q > dóUa lin .
l, ° l,a noT II, voi. VI,
gua toscana, nelle £ ose j ^ è un passo
odiatone veneta, 17dU< w, I • Ma g . ^ cbe
molto interessante a quo, « 'PI, doUa 5accoH „
in altro ^^i^^ip» *'i ^rino,
di prose Ad «*« ^ «jw , ^ p
1753, p. 30!), questo passo, bua.
166 pen sieri (3067-3068)
è notabilissimamente mutato; o veggasi la profazione
al citato volume delle Prose, fiorentine, p. X-XI. Ven-
gasi ancora Speroni Orazióne in morte del Bembo nelle
Orazioni stampate in Venezia 159(5, p. 44-5. La Can-
zone de' Gigli del Caro, mandata in Trancia, o fatta
apposta per colà, come anche il commento alla mede-
sima secondo elio dico il Caro in una delle sue lettere
al Varchi, il conto fattone in Trancia ec. (vedi la
Vita del Caro); la Canzone del .Filicaia per la libera-
rione di Vienna, mandata in Gormania, e credo anche
in Polonia, e colà molto lodata, corno si vede nello
lettere del Eedi; l ) i poemi dell'Alamanni fatti in
Francia ad istanza di quei prii.cipi ec. e colà stampati
(vedi Muzzuchelli, Vita dell' Alamanni), siccome molti
altri libri italiani originali o tradotti si pubblicavano
allora o si ristampavano fuor d'Italia, nella quale certo
niun libro francese, inglese, tedesco si pubblicava o
ristampava originale, e bon pochissimi tradotti (fran-
cesi o spagnuoli); tutto questo cose, e cento altre si-
mili notizie e indizi di cui son pieni (3068) i libri del
cinquecento del seicento , e anche de' principii del
settecento dimostrano quanto la lingua italiana fosse
divulgata. Nondimeno ella ha lasciato ben poche o
niuna parola agli stranieri (eccetto alcune tecniche,
militari, di belle arti ec. che spettano ad altro di-
scorso) mentre la lingua francese tanti vocaboli e frasi
o modi e forme ha comunicato e comunica a tutte le
lingue cólte d'Europa, e in esse le ha radicato e na-
turalizzato per sempre, e continuamente ne radica e
naturalizza. Segno che la letteratura è dobol fonte e
cagiono e soggetto di universalità por una lingua,
perocché una lingua universale per la sola lettera-
tura (e per questo lato fu voramonte universale l'ita-
liana a que' tempi, quanto mai lo sia stato alcun'altra
fra le nazioni civili) non rende Ò:y>,ìótto>j<; lo nazioni
') V'ndi ii. 38IB.
1G7
(3088-3069-3070) -
r~ — " ' à mai se non materia di
in ch' ella si spande, e noi» ^ profond o
Uaài e di eruditone (www ■- * lft . 0 ter-
E* mettono h» f o ^ P ^
..minata l'influenza dola s terminata 1' m-
K ina la sua uni^WM" ^'«ata né terminerà
Lenza della nazion . { della greca ec ),
Lniversalità ^g^JTb!» P**> ^ ^
le Bi dimenticano ^J^^ della sua le te-
le modi ohe lo Studio e >n » letterature stra-
Lura aveva forse "Jjjfjg letterature. Quando
! Lre, ma non più de ' Meàici, la nostra
In Francia a temidi Cg? la lott6r aUira,
lingua si divulgo pei ^ J n appartenne alla
allora l' italianismo nel t rag* eKÌaI)dl0 fa
letteratura sola, o m 4" . ^ q circ0B tanae,
maggiore assai ^^^g sorLe quel dialogo
onde , non so qua! degli » te ^ iA voltB .
Urico del quale no J^S^^ii Milton ec. che
XI Menagio M ^"italiana, sono esempi
frissero e Pjf^.f ffi *d
non rinnovatisi, orod io, ™ f e certo
moderna-, se non tK^ i^' " ^ ""T.
•non dati né imitati ma 4 e _ g , - v6r0 c he
(3070) parimente 4™™^^ d l -lingua italiana
L cinquecento Vavejew^Ued ^
W forestieri, fognasse lingua moderna
ered'io, le uniche dove fa coga siml le m
forestiera né ^f^^ QÌ ^^^^^
Italia per nessu^altra In g« ^ u ^ hnis3Ìm i tempi
Propaganda di Roma) fino _a q ^ . in Itt ^ ??
(Vè ora qualche cattedra di li»g« ancor piu)
Uto assai: di lin gua spagnola noi
È noto poi che ^f^queccùto, come per no»,
ano secolo d'oro, ohe tu u e 4, colla qua i n a-
Bi modello* ^J^^ toppi - lie £aW ^
zione la Spagna ehbe allora pw
luglio ira»)-
ICS pensieri (3070-3071-3072)
* Benedetto Buommattei nell' Oraziane delle lodi
della lingua toscana 'detta da lui l'anno 1020 noli' Ac-
cademia Fiorentina (vita del Buommattei in fronte
alla sua grammatica, edizione Napoli, 1733, p. 22, prin-
cìpio), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di
Torino, p. 209, fine - 300, e appiè della sua grammatica,
edizione cit., p. 273, fine, dice della universal (3071;
diffusione della lingua toscana a quel tempo ciò che
ivi puoi vedere (30 luglio 1823).
* Dompter da domitare, inseritoci il p, come in
empiite, sumptus (sumpsi ec.) e simili, e come alcuni
fanno in temptare che nel codice de Repubblica di Ci-
corone è scritto teniture, corno anche si scrive emttts,
svmtus , peremtus ec. '} E il Bichelet nel dizionario
scrive domter con tutti i suoi derivati similmente e
vuol che si pronunzi dnnter, dontable ec, cosi anche altri
dizionari moderni. Cosi dompnus e domnus contratto
da dominw. E a questo discorso appartiene la voce
sommili fatta da Bitvoc, e, come dice Gollio, da sypnus-6
siqmuS'Sìimnits-somnus. Vedi il glossario se ha niente
che faccia a proposito (31 luglio 1823).
* Alla p. 3057, Similmente angustia per angoscia
(eh' è corruzione di angustia) o in simile significato
par che venga dal greco, quanto cioè alla metafora.
Sttvoyuip™:, in questo senso e in San Basilio Magno
nell'Omilia o sermone (Xófoc) rcrpì eè^aptoTtas de gratia-
rwn actione , Opp., edizione Garnier, t. II, p. 2(5, P f
cap. 3. È da veder però se tali metafore vennero a
noi da' greci, o a' greci dal latino (vedi, por esempio,
porcellini in angustia: anche noi diciamo in tal senso
strette, strettezza oc.) o dal latino - (3072) barbaro. Vedi
1 ) Ve s »;isi la il 37BI, Une,
169
(3072-3073)
, , • ■ „.. 6C0 non ha niente)
il glossario latino (porche ri greco
e lo Scapula. . .
di verbi neutri (e orf^ J non i n
rati in senso neutro (iors alice passiv amente,
ne abbondano le lingue h|ij andato, *j
8«to, w^ito, forato, »«« tutti j verbi
n6ufc ri hanno ^ J^Jg 1823). •) Vedi P . 3298.
detto senso e non alUo (31 nig
* H o discorso altrove della voce —
Vedi Fedro, IV, 22, verso 29, e m i
altri (31 luglio 1823).
* «i romani , ohe tanto ^«f^S **.
tuna; Dea più eh altro MB , fi e j sett6
Lucio Siila, che vinse U WM^ jdioé, e
Consolati di G. Mano, jifo eh
toneasi esser della gjgftjfc al nipote la sua
pregò gH Da, che OW*", p^anaati,
fortuna, la quale fa stgo* Sa
primo (1 agosto,
* « Alessandro ^^gt^
Btotile, cho volea f^*ffi.^ b . (1 agosto, di
o i barbari da bestie e sterpi,
del Perdono, 1823).
- -, . T » s-sissr ss. - ^
spaglinoli attivamente pei c«
peni oc.
PENSIERI
sensi metaforici, eccetto solamente appo Cicerone, de
repub., Ili, 16, p. 244. Anzi eziandio noi senso pro-
prio, fuor d'un luogo di Petronio, non so che si trovi
mai adoperato il detto positivo. Ma il diminutivo
tenni. Cosi dico di mix per lapis, da cui calculug,
Vedi in Forcellini in calculus o calx fi agosto, di' del
Perdono, 1828).
* Aborto as da aborior-abortus, o dal semplice orior.
Il nostro abortire o il latino abortio is (se questo verbo
è vero) sarebbero continuativi anomali. Il francese
avorter è il latino àbortare. Vedi lo (3074) spagnuolp
e il glossario se ha nulla (1 agosto, di dol Per-
dono, 1823).
* Appellito un da appelfa-appoìlatus, onde lo spa-
gnuolo apellidar, apellido sostantivo ec. (1 agosto 1823).
* Reditus a um. Vodi l'Orazione di Claudio Imp.
(citata in altri casi dal Porcellini, corno in appellilo)
ap. Gruter, p. 502, col. 1, v. 36. Cretus, concretus ec.
Vedi Porcellini, Pertaesus, Distisus , Finis, dijjisus,
confwus ec. Vedi Porcellini. Exolelus, cioè qui exolevit,
Conspiratus. Vedi Porcellini in fino vocis. Ceimis a um.
Vedi Porcellini Status a um. Vedi Porcellini noi princi-
pio di questa voce, massime il luogo d'Ulpiano. Niiptus
a um. Falsus. Vedi Forcellini (1 agosto 1823).
* E da notare che la lingua spagnuola, per suo
quasi perpetuo costume e regola , conserva ne' parti-
cipi de'verbi latini della seconda e terza maniera l'an-
tica e regolare e piena forma della quale ho discorso
altrove, non ostante che nel latino conosciuto ella sia
alterata, contratta o anomala. No' quali casi la lin-
gua italiana suol soguire ciecamente la latina, ancor-
ché contro la regola e proprio tà dello sue coniuga-
zioni o inflessioni, come ho dotto altrove in proposito
171
(3074-3075-3076) pensieri
io /„«j/Jn DP.nido e céiito simili
B ono participi intieri cjoo MWH«» _ - \
k g0 de' contratti che usa la -1**» q
scinta, cioè », vento eo. No i, i q ue tee
T n' iJtXTS tutto le lettore ito; tenu, vm»
dono nella lettela w tu™» Corregifà
da *** * C09i °f 2£ di lettera' al-
e participio intero e ^™^% ripi o la
cuna, cioè T^eXSTfer^*^^ 6 indi
lìngua, latina lece eorre^**
Sto il , nell'affine p*^^$&C
participio rimasto nel latino mloln
Lue Similmente tedo fé ^^/-gXo e
perché (307B)
spasolo non a ^ ni ^ al o( latìn0 .
equivalendo u cn spafc> • iU S0Il0 pa r_
£ Jbriai «~ d |> 6 jto„o di contratti ed
feicipii e interi e «^^jg^tow^ oltl ' e
anomali. Movitw per moto. , per
Vanalogia, da «ose», come ^ V ^fSL
„„.,„, ch'è solo oggi nel latino e ne itaL^c e
e-. Cogito, distrato « ^ no, unico
da r « ito , v'è ^ e rè anche
nel francese. Neil Galiano ^ » dj limtat ,
co^to, mutate al ^ j£ rfura ,
perche m co~to lt a s0 , aiue nte a dinotar
non proprio de la pa ola e ^ ^e ^ p ^
la pronunzia delle W*»* profferirebbero in
senza P frapposizione deUa , s p ^
.„ 1<i « ner proprietà moderna,
Rascia, omessa la s. p*- 1 V i
172
i'exsieri (3076-3077-3078)
gli antichi la (3077) scrivevano, come pure in crecef
(onde crecido-crescitus-cresciuto , por cretus crii) eon-
decender ec. ec. La lingua spagnuola suol essere re-
golarissima in questi tali participii, più assai del-
l' italiana, più della francese, e conservare più di
ambedue l' antichità o primitiva propriotà latina, anzi
conservarla, si può dir, pienamente, E ciò non meno
né in diverso modo quando la latina conosciuta è
irregolare o contratta, che quando eli' è regolare e
somplicc, come da habitus, havido o habido, che noi
colla solita mutazione diciamo avuto. Ora questo havido
nello spagnuolo ha la stessissima forma di tenido oc. Ma
non cosi in latino, benché teneo sia della stessa forma
di habeo. Puoi vedere la p. 3544. Vedi p. 3572. fine.
Non è tuttavia che alcune volte la lingua spa-
gnuola non segua in tali participii ciecamente o l'ano-
malia o la contrazione dolla lingua latina, come suol
far l'italiana e il franceso. e non ne divenga ossa stessa
anomala, come le altre due. Di visto e quièto (che
però si dice anche regolarmente querido) dico altrove.
Da tacere, haccr, (3078) olla non fa pienamente kaeido,
facitUs , ma contrattamente hecho da factus (fatto,
fait), anticamente fecho, mutato il et in eh per pro-
prietà spagnuola, come in derecho, provecho ec. ec. e
comò ho pur detto altrove; e l'a cambiata in e, come in
trecho da tractus, in teche da laete ablativo (Perticari
vuol che si dica dall'accusativo tolta la m; ma ecco
elio 1' accusativo di lac è lac: vedi però il Porcellini
appo il quale lac è mascolino in più esempii), e come
i latini ne' composti, comfehtus ec, in echar da iactare.
Dov'è notabile elio anche noi e i francesi facciamo la
stessi mutazione: gettare, jeter, comò i latini ne' com-
posti: obiectare ec. Da elicere, non decido o divido, ma
dieko-dictus-detto-dit (1 agosto 1823). Vedi p. 3362.
* La più bella e fortunata età dell' uomo, la. sola
che potrebb' esser felice oggidì', eh' è la fauci ullozza,
ITà
,3078-3079-3080) _
— - — — .. .„ in ;Ue angustie. Umori,
fatiche dall' educalo e da icjt , ch porta
Vuoine adulto «tfd» Jjffi^, la noia della vite
la cognizion del vero, il "»»8*" ' accetterebbe
feSS»** della ig-g-St T .Offri* quello
di tornar fanciullo col a contt ^ £ ^
stesso che »^/^ffSS infelice quella povera
cosi tormentata (3079) e .fatto jn^ u e
^ftJSS V tlSut diga coli, e -
a concepirsi Perche dell'uomo. Bolla per-
vi lo, cioè acquista la per» ^ u
fesione, e certo voluta da a , .^.^
ohe suppóne ^ B8 ^t^^ 8 temeute ordinato
qu el tempo che a naU, ra ha mam ^
ad essere la più felice parte ole ^ ^
a domandare. Perche latta oos ^
L*f E ^ d %rXqSno ct lo farà infelice
ji spese di tel ^ mf t"fla ooSteioiie di se stesso e
peretta la vita, cioè a «jg*
ielle cose, le" CpimOU^^W ^ ^ bl „
trarlo alle naturali, o qutaaa « ^ faB _
liti, di esser felice; perch > eolla * ^ ^
Olezza si ^ ' Sr^ colla felicita
età; o vogliamo dire perch e p ^ ^
della fanciullezza quella che la na ^^àitra
nato e preparato siccome Mg. ^ ottenuta
età aell'uomo.e oh' altnme^u eg
in effetto (l ^ osto 1823) ' { }
v „ ™me il semplice salto La-
» Assaltar* da ^'di Te ^ ono '
tino da 8«<W (1 ag° st °.
p. 35B8.
■ r. Tn erodo hene che il 7
* Alla p. "40, ìjargm e. I oj ~ fl ^ quanto
fosse posto in uso tanto pei ^ ^ ^
il p. e H f»i « ^ ^'^ Igli scrivani che in ®«
pel X9 ; posto in uso, dico, ungi
174
PBNSIKltl
(3080-3081)
primi tempi e in quolla imperfezione dell' ortografia*
non distinguevano bastantemente e confondevano ri-
spetto ai segni le varie pronunzio e i vari suoni,
massime affini, né si curavano di distinguerli più che
tanto V un dall' altro nelle scritture, o non sapevano
perfettamente farlo. Credo per conseguenza ohe anti-
chissimamente si pronunziasse e scrivesse fXIptfj
non (f).Énc ; àXei^u) si pronunziasse e scrivesse «).e£p<jw
e non àÀeiitouj; )>u*(' )>uyy?j e n° n M'f*!! &PX a % 0
non Spxawj o cosi dell' altre doppie. Ma che poi, in-
trodotto l'uso di questo doppio, si continuassero quelle
lettere a pronunziare secondo la derivazione gram-
maticale o 1' uso antico e le antiche radicali, e che
quindi, per esempio, il iji e il I avessero ora una pro-
nunzia (3081) ed ora un'altra, cioè ora no ora pò ec. non
lo credo, anzi tengo che il <\ fosse sempre pronunziato
Tia, e il ; sempre v.-. Passaggio non difficile nep-
pure nella pronunzia (o ordinario anche e rogo-
lare in milioni d' altri casi si nella pronunzia che
nella scrittura e grammatica greca) d'una in un'altra
aitino, cioè dalle palatine y e y alla palatina x, e dalie-
labiali p <c alla labiale jc. Massimo che il ti e il «
sono veramente medie nella pronunzia tra le loro af-
fini, benché si assegni il nomo di medie al f e al pi
o al o, non al t ec. Lo deduco dal latino, fra' quali
parimente il x fu sostituito si al cs che al gs, ed an-
ticamente scrivevasi o pronunziavasi,5per esempio, gregè,
Isgs, regi, non grecs, lecs, recs, come oggidì, almeno
noi italiani, sogliamo sempre pronunziare. Vedi il
Porcellini e il Digiunarlo di grammatica e letteratura.
do\Y Elicici, metodica, in X. Ma che in séguito il *
anche tra' latini, ossia, de' buoni tempi, fosse sempre
pronunziato cs, come oggi, dimostrasi dal considerare,
per esempio, i verbi lego, rego, tega e simili (appunto
venuti da' nomi sopraddetti) i quali nel perfetto fanno
rexi, texi (lego ha leyi). Dove certo la ar anticliissima-
mento equivalse a gè } come ho detto altrove, Ma ec-
175
(3081-3082-3083) pknsitoiu _ —
c^Ti" participi! lectus, rect^ Uctm che da prinia
Rosta dunque più che probabile clie ano he q e p
Sti si pronunciassero col r, rem, tee. malgrado 3082
a loÌ derivazione grammaticale e quindi e altrettanto
' ■ ab le che qualora nell'a doveva osservi Hg pa -
Ideine Giacché non v' è ninna ragione , di pia pei
^dOveSe far qnesto paggio ne' ^ti perfe i
ohe in qualunqu' altra voce (1 agosto, di del lei
( dono, 1823).
*È cosa dimostrata e dalla ragione e dall' espe-
rie ni dalle storie tutte e dalla e Jg-^JR
fi « d r^^teTca4 T ^
SS^Té Presto o tardi, qualunque sia la loro poh-
anche ne risorgono, poco dina li ™ « r
Q ,.>>* insomma nolla società non navvi ne
g 7 ' LI stato ClitU» durabile se non il monar-
2l*Z olTA^ ^mostrato, e jtfé »£
SSL prove, che ^-^^SS^S
a ia ne' suo! P™7^f/Ì^d0 tornare ad essere
costanze possa di quando m qw*«
por pochi momenti, tende sempre e «^^.JJJJ
e irrenarabilmente nel despotismo; perche stante (3083)
"Xa dell'acme, ansi d'ogni
oamente impossibile che chi ha potere "J^^J
i .noi simili, non ne abusi; vale a
oUe n on se - serva più S ^^^^ lU
non trascuri affatto gli arni i natura
se, il che è né più né meno la «ostane e la t
del despotismo, e il contrario appunto di
• fn no saia ne può esscio
dovrebb' essere e mai non in ne a» « y
la vera o buona monarchia, ente di ragione e im-
maginario. Ora egli è parimente certo, almeno lo J*
pei gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che
17tì Pensieri (3083-3084-3085)
il peggiore stato politico possibile e il più contrario
alla natura ó quello del despotismo. Altrettanto certo
si è che lo stato politico influisce per modo su quello
della società, e n' è tanta parte, eh' egli è assoluta-
mente impossibile eh' essendo cattivo quello, questo
aia buono, e che quello essendo imperfetto, questo sia
perfetto, e che dove quollo ó pessimo, non sia pes-
simo questo altresì. Or dunque lo stato (3084) poli-
tico di despotismo essendo inseparabile dallo stato
di società, e più forte e maggiore e più durevole
nelle società civili, e tanto più quanto son più civili,
l'i capitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare,
se lo stato di società nel genere umano può esser
conforme alla natura, e se la civiltà è perfeziona-
mento, e se nella somma civiltà sociale e individuale
SÌ può riporre e far consistere la vera perfezione della
società e dell'uomo, e quindi la maggior possibile fe-
licità d' ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo
tende naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva
ordinato o la felicità e perfezione eh' essa gli avea
destinate (2 agosto, di del Perdono, 1823J.
* La delicatezza, per esempio la delicatezza delle
formo dol corpo umano, è por noi una parte o qualità
essenziale o indispensabile del bello idealo rispetto
all'uomo, *) si quanto al vivo, si quanto alla imita-
zione che ne fa qualsivoglia (3085) arte, la poesia eo.
Ora egli è tutto il contrario in natura. Perciocché la
delicatezza, non solo relativamente, cioè quella tal
delicatezza che la nostra immaginazione o il nostro
concetto del bello esige nolle forino umane, e quel tal
grado e misura eh' esso concetto n' esige, ma la deli-
catezza assolutamente, è por natura brutta nello formo
umane, cioè sconveniente aesseforme. Giacché l'uomo
per natura doveva essere, e 1' uomo naturale è tutto
') ?imi voiloro la p. 3248-50.
177
3085-3086-3087J^_r™' l i _ —
robmtiasimo, come qael o Mie oiu trMto
*** b Tfi srfss: «*>
contmua fatica, e ttaJ soie delicatezza
gli nuocerebbe; ondo 8 ogl I . ^
tisce mia persona delicata aa
S e ™ duetto ffaxco per Uu ,ej^ ^ ^
valenza e te^^^J^^ come il
altri difetti «"B^*^ Tve^ili) «I porta
civile (o così gh albi *n i nali o veg , ^
dalla nascita, non per legge +V^J irregolari e
della natnra umana ma per ««J"™ rionale ec.
r »^J2^SS^ che V-mo
Por le quali cose e co 111 f „ . d Ua 8Ua spe eio
„„,„„,. . - w «. r 5-»
non entra pei nnua « ò iudispensa-
le nazioni ^^^S lo contrario è ccr-
bile parte di ta V w^er 1' uomo naturale entra
tissimo che la delicatezza per ^ se l'uomo
nell'idea della bruttezza umana ^
naturale non esigerà nelle omo te n ^ .
patibile colla natura di quel sesso, e * di v0 „
Ornerà quello forme ^^JgfS s6 sso. E se
buste*** senza uscir ^^gj^ 6 i la condan-
la robustezza «scxra f^ r £S^ quasi chela
nera, non come opposta ali ^ d « - ^ re _
delicatezza fosse parte de bel to m spro por-
lazi0 ne alla de! jj^jg^ a esso. Laddove,
zionata e fuor de ordin. ^ f e
I sl^e^*-**- no r scir
Lbopaboì. - FeMfert, v -
178
PKKsrEEa (3087-3088-3089)
della proporzione, e piuttosto ne lodano l' eccesso che
il difetto. E quando no condannano l' eccesso, lo condan-
nano solo in quanto eccesso, non in quanto delicatezza,
né in quanto opposto alla grossezza e rozzezza ; lad-
dovo l' uomo naturale, condannando la soverchia ro-
bustezza non la condanna come robustezza, ma come
soverchia secondo le proporzioni eh' egli osserva nel
generale. (3088)
Ecco dunque l' idea universale di tutte le na-
zioni ed epoche civili circa il bello umano (eh' è pur
quel bello intorno a cui gli uomini convengono natu-
ralmente più che intorno alcun altro) dirittamente
opposta a quella dell' uomo naturale, quanto alla parte
che abbiamo considerata. Dicasi ora ohe l' idea del
bello è naturale ed insita, non cho universalmente
conforme, eterna, immutabile.
E in questa differenza d' idee che abbiamo no-
tata, qual è più conforme alla natura umana, più de-
rivante dalla natura, e (se qui avesse luogo la verità)
qual è più vera, più giusta, più ragionevole? Corto
quella dell' uomo naturalo. Dunque non si dica, come
diciamo di tanti altri in tante occasioni, eh' egli non
concorda con noi circa il bollo, perché non no ha
il fino senso, né la mente atta a concepirò il vero
bèllo ideale (il che noi diremo, cred'io, ancora degli
etiopi , il cui bello ideale umano è nero e non bianco,
rincagnato, di labbra grosse, lanoso). Come mai può es-
ser bella in una (3089) specie di animali la debolezza,
la pigrizia? E pur tale olla è uell' uomo appo tutte le
nazioni civili, perocché la delicatezza non è senza
1 ; una e P. altra, e da osso fisicamente nasce, e le di-
mostri necessariamente all' intelletto.
Sentimento e giudizio degli uomini di campagna
circa la bellezza umana e la delicatezza. — Il qual
sentimento e giudizio è certamente per le dette ra-
gioni pili giusto del nostro. Del nostro, uomini di fino
senso e gusto, e profondi conoscitori del bello, ò più
(3089-3090-3091) peksieki ITO
Saturale e quindi più giusto il sentimento e il giu-
dizio di spiriti grossi, rozzi, inesercitati, ignoranti.
Quel olio bì è detto della delicatezza, dicasi di
altro molte qualità elio por consenso di tutti i secoli
e popoli civili donno trovarsi nello forme dell'uomo
per esser bolle ; e olio per natura non si trovavano, o
non doveano trovarsi nelle formo dell'uomo, (3090) o
»i si trovavano e dovevano trovarvisi le contrarie.
Perocché siccome l'animo e l'interiore dell'uomo e
quindi i costumi e la vita, cosi anclie lo forme este-
riori sono, in molte qualità, rimutate affatto da quel
eh' orano negli uomini primitivi. E intorno a tutto
queste qualità il sentimento o il giudizio di tali uo-
mini circa la bellezza umana corporale differisce o
espressamente contraddice a quello di tatto le nazioni
ed epoche civili universalmente ; e sempre è più ra-
gionevole (4 agosto 1823).
* Come le formo dell' uomo naturale da quolle del-
l' uomo civile, cosi quelle di una nazione selvaggia
differiscono da quolle di un' altra, quelle di una na-
zione civile da quelle di un' altra ; quelle di un se-
colo da quello di un altro, per varietà di circostanze
fisiche naturali o provenienti dall'uomo stesso; e (per
non andar fino alle famiglie e agi' individui) è cosa
osservata e naturale che gli uomini dediti alle varie
professioni matoriali (senza parlar delle morali, che
influiscono sulla fisonomia, dei caratteri e costumi
acquisiti, (3091) che pur sommamente v'influiscono,
e la diversificano in uno stesso individuo in diversi
tempi), ricevono dall' esercizio di quelle pi-ofessioni
certo differenze di forme, ciascuno secondo la qualità
dèi mestiere eh' esercita o secondo le parti del corpo
[ che in esso mestiere più s' adoprano o pivi restano
inoperose, cosi notabili che l'attento osservatore, e
in molti casi senza grande osservazione, può facil-
mente riconoscere il mestiere di una tal persona sco-
rasatami (3091-3092-3093)
nosciuta eh' ei vegga per la prima volta, solamente
notando corto particolarità dolio suo l'orme. Cosi si
può riconoscere l'agricolture, il legnaiuolo, il calzo-
laio, anche sonz' altre circostanze clie lo scuoprano.
Qual ó dunque la vera forma umana ? Ed essendo
diversissimo e in parte contrarissime le qualità che
di essa si osservano in intere nazioni, classi ec. di
persone, benché goneralmonte o regolarmente, comuni
in quella tal classe; come si può determinare esat-
tamente essa l'orma secondo i capi delle qualità re-
golari e delle parti che regolarmonto la compongono?
E non potendosi determinare la forma umana (3092)
regolare e perfetta, perocch' ella regolarmente per in-
tere classi, nazioni e secoli si diversifica, come si po-
trà dotorminaro la bellezza della medesima? Quando
appena si troverà una qualità che la possa comporre,
la quale non manchi o non sia mancata regolarmente
ad intero classi e generazioni d' uomini, o non sia
stata anzi tutto V opposto ? Clio cosa ò dunquo questo
tipo di bellezza ideale, universalmente riconosciuto,
eterno, invariabile ? quando noppuro intorno alla nostra
propria forma visibile se ne può immaginar uno che
sia riconosciuto por talo da tutti gli uomini, in tutti i
tempi, o che non possa, o non abbia potuto non es-
serlo ? quando esso non si trova noppur noi la natura?
dove dunque si troverà, o dove s' immaginerà, o donde
si caverà egli ?
Perocché egli è certo che so taluno fosse (conio
corto furono e sono molti), il quale non avesse mài
veduto altra forma d'uomini che l'ima di quello tali
sopraddette, propria di una cotal nazione, o classe, o
schiatta ec. oc, (3093) l' idea eh' egli si formerebbe
della bellezza umana visibile non uscirebbe dolio, pro-
porzioni o delle qualità eh' ogli avrebbe osservate in
quella tal forma, e sarebbe lontanissima, o talvolta
contrarissima, all' idea che si formerebbe un altro che
si trovasse nella stessa circostanza rispetto a un'altra
(3093-3094-3095) pensieri
ISI
maniera di formo. ÀI quale la bellezza immaginata o
riconosciuta da quel primo parrebbe vera bruttezza,
0 composta di qualità eh' egli, se non altro in parto,
giudicherebbe onninamente brutte e sconvenienti, per-
ché diverso o contrario a quello eh' egli sarebbe as-
suefatto a vodore. Un agricoltore il quale non avesse
mai veduto forme cittadine, crediamo noi che si for-
lj|Éierebbe della bellezza un' idoa conforme o simile a
quella do' cittadini ? anzi non contraria affatto in
molto parti essenziali ? Un popolo di calzolai conce-
pirebbe la bolla forma dell' uomo tozzotta, di spalle
larghe e grosso, gambe sottili e ripiegate all' indentro,
1 iraecia quasi più grosse dello gambe oc. (3094)
Tutto ciò spetta a quello che nelle forme umano
'.dipende dalla natura largamente presa, cioè dalle cause
fisiche oc. l>i quello poi cho dipende dalle usanze, elio
dovrà dirsi? pareva impossibile nel sedicesimo secolo,
[secolo di squisito gusto, al Oellini, finissimo conosci-
tore del bollo, di dar grazia o bell'aria al ritratto del
Bembo (eh' egli aveva a fare in una medaglia), perché
il Bembo non portava barba. E il Bembo si loco cre-
scor la barba per farsi ritrattare dal Celimi, e che il
ritratto facesse bella vista essendo barbato, o cosi fu
fatto. Che ne sarebbe parso a un artista de' nostri
tempi? Molte cose si posson dire dello varie opi-
nioni ee. di vario nazioni e tempi sopra l'uso della
barba (eh' è pur cosa naturalo), rolativamento al bollo.
Cosi de' capelli e delle cosi diverse e contrarie petti-
nature o tosature (totali o in parte) tenute por bello
o per brutto in diverse età da una stessa nazione, in
diverse nazioni ec. Eppure anche intorno ai capelli
v è la pettinatura naturalo oc. ec. (D agosto 1823).
(3035) '
* Futuri del congiuntivo usati da' latini invece di
'lucili dell'indicativo, del che altrove. Odoro, memi-
Wro, credo anche coepero, ìwvcro. Forse ero coi com-
182
posti poterò, subero ec. furono originariamente futuri
del congiuntivo (5 agosto 1823).
* Riprendono nell' Iliade la poca unità, l'interesso
principale olle i lettori prondono per Ettore, il doppio
Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero
nello parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però
preso insieme, nella condotta del poema, nella rego-
larità è inferiore agli altri epici, particolarmente a
Virgilio. Certo so potessero esser vere regole di poesia
quelle eho si oppongono al buono e grande effetto
della medesima e alla natura dell'uomo, io non di-
sconverrei da queste sentenze. ')
Omero fu certamente anterioro alle regole del
poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavato.
Considerandole d iniquo come cavate e dedotte da' suoi
poemi, o fondate sull'autorità di Omero, e principal-
mente dell'Iliade, dico che (3096) chi ne lo trasse
prese abbaglio, o elio d'allora in poi, fino al di d'oggi,
s'ingannarono o s'ingannano tutti quelli che lo se-
guirono o le sostennero, o le seguono o sostengono
(ciò sono tutti i litteratores) come appoggiato sul-
l'esempio di Omero: perché quest'esempio non sussi-
sto, o dalla forma dolla Iliade non nascevano e non
si potevano cavar quelle regolo. Considerandole poi
come indipendenti da Omero, come sussistenti da se,
o supponendo (il che non è vero) eh' elle sieno il parto
della ragione e dolla speculazione assoluta, dico senza
tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe,
cosi noanche le sogui, ma seguendo la natura, molto
miglior maestra delle Poetiche e do' Dottori di scuola
e delle teorie, s'allontanò effettivamente da osse re-
golo; od aggiungo che queste sono errate da chiunque
le immaginò, perché incompatibili colla natura del-
') In proposito disilo cose contenute "«1 seguito di questo pensiero
vinli I» p. 470, capoverso •>.
(3096-3097-3098) PBH8IBM
183
l'uomo, perché seguendole il poema epico non può
produrrò il grande e forte e bollo effetto eh' ei deve,
o per lo mono (3097) non può produrre il maggiore
e migliore effetto che gli sia d'altronde e in se stesso
possibile; e che por conseguenza esso regole sono cat-
tive e false.
Nella Iliade pertanto non v' è unità. Due sono
realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl'in-
teressi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo di
questi Eroi e per la sua causa, l'altro poi secondo o
por la causa dei greci. Interessi affatto contrarli che
Omero volle espressamente destare e desta, volle ali-
mentare e mantenere continuamente vivi ne' suoi let-
tori, e l'ottiene; volle far ciò dell'uno e dell'altro
interesse ugualmente e corno di compagnia, e cosi fece.
È proprio degli uomini V ammirar la fortuna e il
buon successo delle intraprese, Tessere strascina!! da
questo e da quella alla lode, e per lo contrario dalla
mala sorte o dal tristo esito al biasimo, l'esaltare
chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non V ot-
tenne, lo stimar colui superiore al generale, costui
uguale o inferiore, (3098) il credersi minor di quello
e da lui superato, maggior di questo od uguale; in-
somma, il distribuir la gloria secondo la fortuna. Que-
sta proprietà degli uomini di tutti i tempi avea mag-
gior luogo che mai negli antichi. L'esser fortunato
era la somma lode appo loro (vedi fra 1' altre la
p. 3072, fine e p. 3342). E ciò per vario cagioni. Pri-
mieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta
dal merito, por modo eh' eziandio non conoscendo il
merito, ma conoscendo la fortuna d' alcuno, si reputava
aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come
hagli stati littori pochi avanzamenti si possono otto-
nere senz' alcuna sorta di merito reale, e come gli an-
tichissimi popoli nella distribuzione degli onori, dello
dignità, delle cariche, dei promi, avevano ordinaria-
mente riguardo al merito sopra ogni altra cosa, cosi
184
PENsnnu
(3098-3099-3100)
e conscguentemente stimavano che gli .Dei non com-
partissero i loro favoli, che la fortuna non si facesse
amica, se non di quelli che n'erano degni: talmente
che anche i doni naturali, conio la bellezza o la forza,
si stimavano compagni (3099) ed indizi de' pregi del-
l' animo e de' oostumi, e la atossa ricchezza o nobiltà
e l'altro felicità della nascita cadevano sotto questa
categoria. Secondariamcnto. non supponendo gli an-
tichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a
erodere cho i morti, anche posti nell'Elisio, s'interes-
sassero più della terra che dell' Avcrno, c che gli Dei
fossero più solleciti delle cose terrene che delle cele-
sti, ne seguiva cho considerassero la felicità come
priiicipalissinia parte di lode, perocché il merito in-
felice come può giovare a se o agli altri? e come può
parer buono e grande quello ch'ó inutile? o so il morito
era infelice, come poteva risplendere ? e non rispon-
dendo e non giovando in questa terra e per questa vita,
dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato
luco e splondoro? dove e a cho cosa avrebbe giovato ?
Era dunque la felicità principale ed essenzial
cagiono c parto di lode e di stima e di ammirazione
e di gloria presso gli antichi, ancor (3100) più clic
presso i moderni; e massimamente appo gli antichis-
simi. Perocché insomma ella è cosa naturale il pre-
giar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragione-
vole eh' ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le
opinioni e la vita degli uomini sono più vicini e con-
formi alla natura, quali erano in fatti nella più re-
mota antichità. Omero dunque, pigliando a esaltare
un Eroe od una naziono, o togliendoli por soggetto
del suo canto e della sua lode, e facendo materia del
suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di
sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non
avessero conseguito l'intento di quella impresa di
eh' egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pi-
gliare un Eroo fortunato.
1 WS
(3100-3101-3102) PB Msmw
E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero
c i suoi pregi eroici il coraggio e, valor dell' animo, e
l'impresa una guerra. Perocché se ne' tempi moderni
e/iandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la lode
di quella guerra (3101) che non è terminata dalla vit-
toria, molto più si deve stimare ohe cosi fosse appo
Mi antichi. Era' quali effettivamente l'esser vintoci
teneva por ignominia, e il vincere in qualsivoglia
modo era gloria, non si considerando allora gran latto
altra giustizia che quella dell'armi, altro diritto che
della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema
(siccome poi vollero gli altri epici) adombrar quasi
un modello o un tipo di uomo superiore al generale e
maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero,
come poteva egli farlo superiore agli altri uomini e
singolarmente mirabile per le virtù proprie della sua
professione, s' ei non V avesse fatto vittorioso? anzi
tale che ninno gli potesse resistere? Como poteva , egli
fare che questo Eroe fosse vinto, cioè superato dagli
altri in quello virtù e qualità per le quali egli inten-
deva di mostrarlo a tutti supcriore e tra tutti unico,
affine di produrre la maraviglia, ed eseguire (31 Mi)
quel tipo di compiuto guerriero eh' ei si proponeva.
Non è della guerra come d'altre molte imprese che
possono venir fallite e mancare del loro intento a ca-
gione di ostacoli insuperabili all'uomo e di forze su-
periori alle umane. Ma la guerra è dell'uomo coli uomo,
e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol ter
superiore agli altri uomini e singolare nella sua spe-
cie per le virtù guerriere. Ohi cede nella guerra, cede
all'uomo, cosa chejoggidi potrà essere scusata, ma di
rado lodata; fra gli antichissimi, non che lodata, era
pur di rado scusata, e generalmente spregiata com el-
fetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene in-
volontaria, era poco meno spregiata della viltà, come
lo sono anche oggidì proporzionatamente e la debo-
lezza e tanti altri difetti degl'individui o delle na-
180
pensieri (3 i 02-3 1 03-3 1 04-3 ( 05)
latrai, esteriori o interiori, che non dipendono dallà
volontà di chi n' ò il soggetto. Dico che la guerra è
(3103) dell'uomo coll'uomo, sebbene Omero o'intra-
ìnette anche gii Dei. Ma questa finzione era per ab-
bellire e non per alterare la natura della guerra ec-
cetto in alcuno parti poco essenziali. Come quando
s' introduce Achille alle prese col Csanto. Nel qual
caso, non essendo la battaglia d'uomo con uomo, ma
colla superior potenza di un Dio, Omero non si fa scru-
polo d'introdurre Achillo chiodontc aiuto e fuggente,
né stima che questo tolga alla sua superiorità, per-
di' ei lo vuol far superiore agli uomini non agli Dei,
e vittorioso nella guerra de' mortali, non degli etorni.
E infatti l'intervento degli Dei, corno non doveva
(volendo conservare il buono effetto) alterare, cosi ef-
fettivamente non altera appresso Omero la sostanza
della guerra umana.
Conveniva dunque che l'Eroe e la nazione presa!
da Omero u celebrare fossero fortunati e vittoriosi,
massimamente aggiungendosi alle (3104) predetto con-
siderazioni generali questa particolarità che l'Eroo da
Omero celebrato era greco, e la naziono era la greca,
cioè quella alla quale egli cantava e a cui egli appar-
teneva, e la guerra era stata coltro i barbari. Molto
conveniente cosa, pigliare per soggetto dol poema epico
lo lodi e le impreso dolla propria nazione e una guerra
contro i perpetui e i naturali nemici di lei, ciò erano
i barbari. Cosa che raddoppiava, anzi moltiplicava
l'interesso dol poema, siccome accade nella Lusiade,
siccome ancora nell'acide ec. Onde Isocrate pensa
cho gran parte della celobrità di Omero e della gl'aria
in che sempre furono i suoi poemi appo i greci, derivi
dal patriotismo do' modesimi poemi e dalle battaglie
e vittorie contro i barbari, che in essi sono celebrate.
(Vedilo nel Pamegfrieo, odirione del Battie, Isocr. Orafi.,
VII, et episU., Cantahrig., 1729, p. 175-70). Or come po-
teva Omero tìngere o narrar perditori (3105) la sua
1 87
(3 105-31 OS) pensieri _____
nazione e un Eroe della medesima, e ciò in una guerra
Latro i barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato
tanto pi» assurdo che tra i moderni, quando anche le
lodi e l'interesse del poema fossero stati tutti por u
fereci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero
avesse mosso le lagrime e i singhiozzi sopra le loro
sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di maniera,
che 'sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. I riluco
ateniese, gran tempo dopo Omero, fece suggetto di una
tragedia la presa di Mileto fatta da Dario, e mosse
gli uditori a pietà sopra quella sciagura dei greci per
modo, che, secondo 1 ! espressione di Longino (sect. 24)
tutto il teatro si sciolse in lagrime. Gli Ateniesi lo
multarono in mille dramme (PiXmJ^R^P%»V t *
Strano, 1. XIV, Schol. Aristoph., uesp.),perch egli aveva
rinfrescato la memoria delle domestiche calamita e
ripostele Sotto gli occhi rappresentandole al vivo,
(Hbrodot., 1. VI, c. 21); (3106) di più vietarono con
decreto che quella tragedia fosse più recata sullo sceno
(Tzetzb, C/i i/-, Vili (alibi reperio l.),Ust., 15<>): anzi, se-
condo Eliano (Var., 1. XIII, e 17), lagrimando, le cac-
ciarono dal teatro osso stesso che stava rappresentando
la sua propria tragedia (vedi Fabricius, Biblica
Graeca, in Catal. Tragicorum^envs., BiU. Att.; J3ent-
ley. Din. ad Ep. Phalar, p. 256. Vedi p. 4078).
' Adunque per tutte queste cagioni doveva ncl-
l'Eroe di Omero e nella nazione da lui celebrata
concorrere colla virtù la fortuna. Ed ecco l'uno do-
gl'interessi che campeggiano w\Y Iliade senza inter-
ruzione per tutto il corpo del poema; interesse il
quale consisto noli' ammirazione ispirata dalla stra-
ordinaria e superiore virtù; al quale interesse e alla
qual maraviglia, cioè al pieno effetto di tal virtù
descritta e figurata nel poema, richiedevasi necessa-
riamente la felicità e il buon successo, che in tutti i
tempi, ma negli antichissimi principalmente, sono con-
siderati corno il compimento della virtù, anzi pure come
188
(3106-3107-3108)
indispensabilo perfezione (31 07)di lei, o corno isolo indi-
zio ohe possa dimostrarla vcrainon lo perfetta e somma.
Altra proprietà dell' uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta eolla fortuna
non produce se non un interesse debole, cioè 1' am-
mirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù,
produce un interesso vivissimo, durevolo e dolcis-
simo. Perocché l' uomo si compiace nel sentimento
della compassione, perché nulla sacrificando ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni
occasione gli è gratissiino, cioè una quasi coscienza
di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio
verso lo sventurato, porche l' uomo per natura odia,
come il dolore, cosi le idee dolorose. Mirando dun-
que, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato,
e non abbominaudolo né disdegnandolo quantunque
tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi (3108) mali,
pare all' uomo di faro un sforzo sopra so stesso, di
vincere la propria natura, di ottenere una prova
della propria magnanimità, di avore un argomento
con cui possa persuadere a se medesimo di esser do-
tato di un animo suporiore all' ordinario; tanto più
ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il compas-
sionevole interessandosi per altrui, stima con questo
interesso che niun sacrifizio gli costa mostrarsi a
so stesso straordinariamente magnanimo singolare,
eroico, più che uomo, poiché può non essere egoista,
e impegnarsi seco medesimo por altri che per se
stesso. ') L'uomo nel compatire s'insuperbisce e si com-
piace di so medesimo: quindi è ch'egli goda nel com-
patire, e ch'oi si compiaccia della compassione. L'atto
della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa
') Vegga»] lo imgg. 3291-97 4 3480-2.
(3 108-3 109-3 NO)
PENSIERI
189
tra se stesso. Cosi anche la compassiono che sembra
1' affetto il più lontano, anzi il più contrario all' amor
proprio, e che sombra non potersi in nessun modo e
per niuna parte ridurre o riferire a questo aiuoro, non
(3109) deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti)
se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto
di egoismo. Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi
un piacere col persuadersi di morire o d'interrom-
pere le sue funzioni, applicando l'interesse dell'indi-
viduo ad altrui. Sicché l'egoismo si compiace, perché
crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere
di egoismo. Tedi p. 3167.
Tornando al proposito, il primo dei detti inte-
ressi, cioè quello della maraviglia, ora rilevato in
Omero dalla circostanza cho 1' ammirazione cadeva
sopra la superiorità, la virtù e la felicità di un eroe
e di un esercito nazionale, sopra un' impresa fatta
dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali
nemici. Questa circostanza rendeva non solamente
possibile ma naturalissima la vivacità e la durata di
tale interesso ne' lettori o uditori greci (per le quali
scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta
questa circostanza, il detto interesse non può esser
né molto vivo né molto durevole. Il lettore non s'in-
teressa gran fatto per coloro per cui vede continua-
mente interessarsi lo stesso poeta. L' interesse del
lettore (nel senso in cui presentemente ci conviene
intenderlo) è quasi una cura ch'egli si prende (SUO)
di quello persone su cui l'interesse cade. Or dunque il
lettore trova inutile il darsi gran pensiero di quelli
a' quali vede aversi bastante cura da altri. Il poeta
e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe
a, fare il lettore interessandosi; essi medesimi prov-
veggono al fortunato: il lettore non ha dunque niuna
cagione di farlo ogli, ei non desidera quello che gli
è spontaneamente dato, quello ch'egli ottiene già senza
darsene briga e sollecitudine. Per queste cagioni ac-
190
pensieri (31(0-31 I] -3 i 12)
cade olio poco e poco dnrevolmonto c'interessi il for-
tunato, massime no' poemi epici e ne' drammatici.
Ed effettivamente oggidì i lettori dolla stessa iliade.
non essendo greci, o non s'interessano mai vivamente
per li greci, i quali sanno già dovere uscir vittoriosi,
o presto lasciano d'intoressarsene. *) Ma non bisogna
dall' effetto ohe l'Iliade fa in noi misurar quello ch'ei
faceva nei greci, ai quali essa era destinata, né per
conseguenza l' arte del poeta che la compose, né il
pregio e valore del poema. (3111) L' altro interesse,
cioè quello della compassione, non poteva Omero in-
trodurlo nel suo poema in modo ch'ex si riferisse ad
Achille o ai greci; non poteva, dico, per le suddette
ragioni. Solamente poteva fare cho la compassiono si
riferisse pur talvolta ai grooi o a qualcuno di loro,
come a soggetti secondaiii e accidentalmente (qual è,
per esempio, Patroclo), non corno a soggetto primario
della compassione, al qua! soggetto tendessero tutte
le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese nella
parte contraria alla greca, in quella parte alla quale
doveva appartener la sventura, se alla greca doveva
appartener la felicità. Egli scelse o tìnse tra'nemici un
Eroe,, per cosi dir, di sventura, il quale fosse opposto
all'Eroe della fortuna, e l'interesse do! quale dovesse
perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare
l'interesse dell'altro nell'animo dei lettori. Questo
Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille,
ed anche ad Aiace e a Diomodo, perché la superio-
rità delle forze doveva (3112) esser V attributo e la
lode principale della parte greca (lode ch'era ai tempi
eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio
lo fe' superiore a tutti gli altri greci e troiani, di
coraggio e magnanimità lo foco pari allo stesso Achille,
e nel rimanente ornandolo di qualità diverso da
quello di costui, lo venne però a far tale che tanto
') Veggoai la p. 3452, (iiic-58.
PENSIERI
191
pesasse egli quanto questi. Somma pietà verso gli
Dei. verso la patria, verso i parenti, somma affabi-
lità , giovanezza e ci vii bellezza sopra ogni altra
(giacché quella di Paride non era virilo) della sua
parte. Di più accortezza e destrezza nel maneggio
della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza,
.provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche,
arte di parlare no' consigli pubblici o a' soldati, di-
sprezzo d' ogni pericolo, l' onore stimato sopra ogni
cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città
vedendosi venir sopra Achille, e dopo l'onore, la pa-
tria; costanza ec. ec. Insomma com' egli aveva fatto
in Achille un uomo (3113) sommamente ammirabile,
cosi fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente
amabile. E come la vittoria riportata da Achille so-
pra l'invincibile Ettore porta al colmo 1' ammira-
zione por colui .cosi la sventura di Ettore metto il
colmo alla sua Amabilità o volge l'amore in compas-
siono, la quale, cadendo sopra un oggotto amabile, è
il colmo, per cosi dire, del sentimento amoroso. Molte
sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono
nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema,
ad essa tendono tutte le fila del modesimo niente
meno e del paro che alla vittoria di Achille, o sem-
pre unitamente: in essa il poema si chiude. Alle,
quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando
che Ettore fosse il principal soggetto dell'interesse
nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il prin-
cipale scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente
ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la mcn-te d'Ettore,
stimando che Omero non avesse bene inteso so (31 14)
stesso o hi sua propria intenziono quando ne' primi
versi della Iliade annunziò espressamente un altro as-
sunto. Nel che s'ingannò grandemente, per non aver
minilo alla natura umana, alle qualità di quo' tempi,
alle circostanze di Omero (giacché se oggi noli' i Uade
V unico, non che principale, interesse è per Ettore,
192
pUs&tóiii f3 1 1 4-3 1 i 5-3 116)
non cosi fu anticamente, né tale fu l' intenzione di
Omero scrivendo ai greci), o por avere avuto l'occhio
allo moderne opinioni circa l'unità dell'interesse e
del soggetto principale. Ma come nell' intenzione di
Omoro 1' unico interesse non dovette esser quello di
Achille, né l'unico soggetto e scopo la sua vittoria
per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto
incontro un tal Eroe qual fa Ettore; cosi neanclio l'in-
teresse d'Ettore dovette esser l'unico, né la sua sven-
tura per se medesima l' unico soggotto e scopo del
poema. Doppio dovette essere secondo l'intenzione di
Omero, e doppio infatti riusci (3115) a' lettori o adi-
tori greci l'interesso, lo scopo e l'Eroe del poema.
E qui si devo considerare il maraviglioso artifizio
di Omero. Non solevasi a' tompi eroici, cioè quasi
selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli
portava la parte contraria, quell'odio il quale faceva
che ciascun soldato considerasse l'esercito o la na-
zione opposta come nemici suoi personali, e con questo
sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima.
E quando ancho s' avesse cagiono di stimare il ne-
mico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cer-
cava a tutto poterò di deprimerlo si nella propria
immaginazione che presso gli altri, e ricusava di ri-
conoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva né si
conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi
fortemente combatte e di chi vin.ee è tanto maggiore
quanto più forte o stimabile è il nemico e il vinto.
Ma sebbene allora (31 IG) ciascuno amasse e corcasse
la gloria sopra ogni altra cosa, ed assai più che al
presente, ninno si cimava di accrescerla a costo dol
proprio odio verso il nimico, ninno sosteneva di ag-
grandire a' propri occhi o agli altrui il pregio dolla
propria vittoria col considerare e render giustizia al
valore della resistenza ; ognuno proferiva di tenere
anzi l' inimico por vile e codardo e tale rappresen-
tarlo agli altri, perché l'odio e la vendetta pili si
1 stì
(3 1 1 6-3 1 1 7-3 1 1 8) pemsi ebi ^
•Soddisfa e godo dispreizando il nimico e privandolo
d' ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e Vincen-
dolo e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli
che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche ri-
sorse poca varietà, poco campo di passioni al poema
Lieo. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si con-
tentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e
fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o
.' rarissimo, di vantarsi e compiacersi (3117) di 'ina
vittoria riportata sopra un nemico nobile e vaioloso.
Questo piacerò fu veramente Omero che lo ««capi.
Omero che lo produsse; ei non era proprio de tempi,
non nasceva dalla maniera di pensare o dalle dispo-
sizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia
d' Omero ; Omero, per dir cosi, ne fu 1 inventore.
Questo gli diodo campo di moltiplicare e incoiai
gl> interessi, di variar le passioni e gli effetti cagio-
nati dal suo poema nel? animo de' lettori.
Come la stima, cesi la compassione verso U ni-
mico, ancorché vinto e virtuoso, era impropria di quei
tempi (vedi quello elio altrove ho detto in proposito
d'un' azione d'Enea appo Virgilio, dopo morto 1 al-
iante). Gli animi naturali non provano nella vittoria
altro piacere che quello della vendetta. La compas-
siono, anche generalmente parlando (cioè quella an-
cora che cade sulle persone non mimiche), nasce bensì,
come di sopra ho detto, (3118) dall'egoismo, ed è un
piacere, ma non è già propria né degli animali, nt
degli uomini in natura, né anche, se non di rado e
scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali
er,,no i più a' tempi eroici). Questo piacere ha bisogno
di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà
sensitiva, di ima raffinatezza o pieghevolezza di egoi-
smo, per cui egli possa come nn serpente ripiegarsi
fino ad applicarsi ad altri oggetti, e persuadersi che
tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benché
realmente essa riverberi tutta od operi in se stesso o a
Lkoi'ahdi, — Peneieri, V. 1{
fine di se stesso, cioè nell'individuo oho compatisce.
Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la
compassione non è propria se non degli animi cólti e
doi naturalmente delicati e sensibili, cioè fini o vivi.
Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno cor-
rotti cho nello città, rara, o poco intima e viva, e di
poca efficacia e durata, è la compassiono. Ma lo spi-
rito di Omero era certamente (31 19) vivissimo e mo-
bilissimo, o il sentimento delicatissimo e pieghevolis-
simo. Quindi egli provò il piacere della compassione,
lo trovò, qnal egli è, sommamente poetico, perocch'egli,
oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento
di propria nobiltà e singolarità cho l'innalza e l'ag-
grandisce a' suoi occhi, voro e proprio effetto della
poosia. *) Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi
farne l'uno de' principali fini del medesimo, l'uno
de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle
accompagnar questo piacere o questo affetto con quello
della maraviglia, affetto appartenente all' immagina-
zione e non al cuore, che fino a quel tompo era forse
stato l'unico o il principal effetto della poesia. Volle
che il suo poema ojierasso continuamente del pari e
sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra
sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d' immaginare
e da quella di sentire. Questo suo intento è manife-
stissimo (3120) nel suo poema, più manifesto che appo
gli altri poeti greci venuti a tompi piti cólti, più ozian-
dio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maravi-
glia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son
soli, sempre tengono il primo luogo. Vedcsi aporta-
niente cho Omoro si compiace nelle scene compassio-
nevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono,
egli immodiatamonto le accetta, che altre ne introduce
a bella posta e cercatamonte (come l'abboccamento
d'Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad
') Veggaal hi p. 3167-3 e 3191-7.
(3 120-3 12 1-3 122)
l'KKSUÓli]
195
altro, è destinata fi ordinata quella improvvisa, vomita
d ! Ettore in Troia, noi maggior fuoco della battaglia, e
in tempo che può veramente parerò inopportuno, intem-
pestivo e imprudente), e che noli' une e nell' altre ei
non trascorre, ma oi si forma o ci si diletta, e raccoglie
tutte le circostanze che possono eccitare o accrescerò la
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con gran-
dissima arte e intelligenza del cuore umano. E il sog-
getto di tutto (3 121) quoste scene, dove l'animo de' let-
tori è sommamente interessato, non sono altri che que-
gli stessi che Omero ha tolto a deprimerò, i nemici
de'greci ch'egli ha proso ad esaltare. Né pertanto egli
a' astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra
i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sven-
ture ch'essi avovano cagionate, del che egli nel tempo
stesso sommamente li celebra.
Grande, caro, artificiosissimo e pootichissimo ef-
fetto dell' Iliade, che Omero ottenne col duplicare
«Spressamonte o 1' interesse e lo scopo e 1' Eroe, che
non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto in-
venzione ed opera di Omero, voglio dir l'unione e
l'armonia di questi due interessi e fini contrarli, e il
pensiero d' introdurli ambedue nel suo poema, o so-
stenerli congiuntamente fino all' ultimo, facendoli am-
mirar sempre del pari. Con che, oltre all'avere rad-
doppiato l' effotto del suo poema, interessando per
V una parte 1' immaginazione, por 1' altra il cuore;
(3122) oltre all' aver potuto congiungere l'interesse
che deriva dalla virtù felico con quello che deriva
dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare se
non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, peroc-
■ehé, accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e
facendo che di sventurato divonisse felice, o di folice
terminasse nella sventura, l'uno e l'altro interesse sa-
rebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distrut-
tivo 1' uno dell' altro, per modo ohe, finita la lettura,
- 1 un solo di essi sarebbe rimasto come accado, per
196
(3122-3193-3124)
esempio, nelle cosi dette, assurde tragedie, di. lièto
fine' 2 ); oltre, dico, all'aver potuto mettere in moto
nel suo poema ambedue quegl' interessi che fortissi-
mamente operano nell'uomo e grandissimo piacere gli
recano, e sono poetichissimi, cioè la maraviglia della
virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine,
interesso che in quei tempi principalmente ora di
gran forza, e la compassione della somma virtù ca-
duta in somma e non medicabile né consolabile cala-
mità; (3123) oltre tutto questo Omero ottenne di po-
tere introdurre nel suo poema un porpotuo contrasto
di passioni contrarie continuamente operanti ne' let-
tori, continuamente equilibrantisi l'ima l'altra, conti-
nuamente sottentranti e implicantisi e mescolantisi
l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione del-
l' interesse dello scopo e della persona principale, la
qual duplicazione, in virtù di questo perpetuo e per-
petuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia
ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'Iliade
nell'animo de' lettori, o la vivacità delle sensazioni, e
il commovimento e 1' agitazione dolio spirito, propria
operazione della poosia.
Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il
mezzo e l'arto da lui adoperati por conseguirlo, tale
la vera natura, il vero carattere, il vero andamento
del suo poema, la vera forma ch'egli ha o che l'au-
tore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e
i loro poemi, e (3124) le regolo dell'epopea che dopo
Omero furono concepute e insognate e poste e se-
guite.
Videro tutti la necessità di far che 1' Eroe e la
impresa principale cho si prendesse a lodaro o a nar-
rare nell' epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato
per regola e questa regola fu seguita da tutti. Mas-
simamente che dietro 1' esempio dell' Iliade, (benché
*) Vergila! la p. 3348, aojjg., o in particolare p. 3350-1
^3124-3 1 25-3126) l'EKsmm 197
fWdtoea ministrasse pura un esempio diverso)
non fu stimato proprio soggetto di poema epico altro
che imprese guerriere, né d'altro genero d' Eroe la
creduto elio l'epopea dovesse rappresentare il modello,
«e non che del gran Capitano. Onde parvo tanto piti
necessaria la felicità nell' Eroe del poema e aell im-
presa che no fosse il soggetto, non giudicandosi de-
gno d' epopea un Capitano vinto da' nemici ne ima
guerra perduta.
Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo
inconveniente che l'interesse che i lettori possono
prendere per li fortunati, ancorché virtuosi, e scarso,
<lebole e breve, e non (3125) si può reggere pel corso
d'un lungo poema, né tutto, per cosi dire, animarlo e
vivificarlo, né anche sufficientemente animarne una sola
parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna,
olirò che ne scapita la verità dell'imitazione, essendo
pur troppo il vero cho questo contrasto sussiste nel
mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato e
soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema,
e impedisco l'illusione, ») (massime a' moderni tempi,
perché a quelli d'Omero era altra cosa); ne seguiva
anche il pessimo effetto della freddezza, perche il
lettore non ha cho interessarsi per la virtù, veden-
dola felice, ed ottener già quello che le conviene.
Quindi è cho ne' poemi epici posteriori ad Omero
V Eroe e l' impresa felice nulla avrebbero interessato
i lettori, se dosso eroe, dessa impresa, dessa felicità
non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori
medesimi, come Achille oc. ai greci. In verità mi (3126)
poema epico di lieto fine richiede necessariamente
la qualità di poema nazionale; e por ciò che spotta
e mira a esso fine un poema epico non nazionale
non può interessar ninno ; nazionale non può mal
produrre un interesse universale né perpetuo, ma
') Veggasi la p. 34&I-2.
I 98 pensieri (3 1 26-3 127)
solo nella naziono e per certe circostanze. L' Eneide
fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli
episodi e tutte lo parti e allusioni cùe spettano alla,
storia ed alla gloria de' romani, V Eneide, anche per
suo proprio soggetto, potè produr ne' romani il primo-
di quell'interessi che abbiamo distinto in Omeri):
perocché i romani si credevano troiani di origine
sicché la vittoria d'Enea consideravasi o poteva con-
siderarsi da essi corno un successo e una gloria aviiu.
e ad ossi appartenente, e da essi ereditata. Il sog-
getto della Lusìade fu nazionale e di più moderno.
Egli non poteva esser più felice quanto al produrrò
quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto.
àoXVEnriade è affatto nazionale e la memoria di quél*
l' Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la
scelta dell' argomento in genere fu molto giudiziosa,,
massime eh' e' non era né troppo antico né troppo mo-
derno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa,
distanza a cui fu la guerra troiana da' tempi d'Omero.
Il soggetto e l'eroe (3127) della Gerusalemme furono
anche più ohe nazionali e quindi anche più degni;
o furono attissimi ad interessare. Dico più che na-
zionali, perché non appartennero a una nazione sola,
ma a molte ridotte in una da una medesima opinione,
da un medesimo spirito, da una medesima professione,
da un medesimo interesse circa quello che fu il sog-
getto del Goffredo. Dico tanto più degni, perché, es-
sendo d' interesse più generale, rendevano il poema
più che nazionale, sonza però renderlo d' interesse
universale, il che, trattandosi di quollo interesse di
cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di
ninno interesso. Dico attissimi a interessare, perché,
quantunque fosse spento in quel secolo il fervoro delle
Crociate, durava porò ancora generalmente ne' cri-
stiani uno spirito di sensibile odio contro i turchi,
quasi contro nemici della propria lor professione,
perche in quel tempo i cristiani , ancorché corrottis-
1 <K1
(3127-3128-3129) pensieri 1M
«imi ne' costumi e divisi tra loro nella fede, consi-
deravano per anche la fede cristiana (3128) come
cosa propria e i nemici di lei come propri nemici cia-
scuno ; e quindi non solo con odio spirituale e per
amor di Dio, ma con odio umano, con passiono, per
cosi dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto e
per inclinazione odiavano i maomettani non che il
inaomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di
Cristo era cosa di che allora tutti a' interessavano,
siccome in questi ultimi tempi della distruzione
della pirateria tunisina e algerina , benché questa e
quella fossero più noi dosiderio che nella speranza,
o certo più desiderate che probabili : aggiunta pero
di più la differenza do' tempi, porocché nel cinquecento
le inclinazioni e lo opinioni e i desideri! pubblici
erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e co-
stanti eh' e' non possono essere in questo socolo. Sicco-
me nel trooento il Petrarca (Canz. 0 aspettala), cosi nel
cinquecento tutti gli uomini dotti esercitavano il loro
ingogno nell'esortare, o con orazioni o con lettere o con
poesie pubblicato per le stampe, lo nazioni e i principi
d'Europa (3129) a deporrò le differenze scambievoli
e collegarsi insieme per liberar da' cani ') il Sepolcro
e distruggere il nomico de' cristiani, e vendicar le
ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel so-
colo il vóto generalo cosi delle persone cólto, ancor-
ché non dotte, come ancora, se non de' gabinetti ,
certo di tutti i privati politici, elio in quel secolo di
molta libertà della voce e della stampa, massimamente
in Italia, non eran pochi ; ') e di questo voto bi faceva
') Tetrarca, Tr. dellu Fama, cnp. 2, terzina 48.
« Erano allora i politici privatista .11 «.line» in Italia «ha altrove,
1' opposi,, appunto ili oggidì, perché pare al contrario di oggidì era in
quel aoc.olo maggiora in Italia olio altrove, e pivi comune o divulgata nelle
aiverae classi, la coltura « l'amor dello lettere e «lonzo od erudizione
par mia pane (le quali cosa tra noi si trottavano in lingua volgare, e tra
gli altri por lo più in lutino. Inorali o in lapas" 11 ) e per l'altra una turbo-
lenta Uberto fomentata dalla moltlplloita o piccolezza degli alati elio dava
200
pensieri (3 129-31 30-3 131)
continuamente materia allo scritture e allusioni di-
gressioni ec., e di quol progetto o sogno ohe vo-
gliala dire si riscaldava l' immaginazione do' poeti e
de' prosatori, è se ne traeva l' ispirazione dello scri-
vere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della
libertà della Grecia fino ad Alessandro, il desiderio,
il vóto, il progotto di tutti i savi greci, la concordia
di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guorra
contro il gran re e contro il barbaro impero per-
siano perpetuo nemico dell'uomo greco. F corno Iso-
crate (3130) per conseguir questo fine s' indirizzava
collo suo studiatissime ed epidittiche, scritto o non
recitate, orazioni ora agli ateniesi (nel Panegirico, e
vedi 1' Orazione a Filippo, edizione sopra citata, pa-
gine 2(50-1), ora a Filippo , secondo eh' ei giudicava
questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare o più
atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla
contro i barbari, cosi nel cinquecento lo Speroni s' in-
dirizzava pel dotto effetto con una lavoratissima ora-
zione stampata, e non recitata né da recitarsi a Fi-
lippo II di Spagna, od altri ad altri secondo i tompi e le
occasioni. Ma tutto indarno, non come accaddo ai greci,
il cui vóto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra
1' altre cose, come è fama (vedi Eliano, Var., 1. 13 e
ónóiÌEc:. tou, npò? tfiUn. ).ó-f ou )j dall'orazione appunto che
Isocrate n' avea scritto a Filippo suo padre, P uno e
V altro già morti.
Or, considerate queste circostanze, si trova vera-
mente savissima, opportunissima, nobilissima la scolta
fatta dal Tasso e degna di quel grand' animo che
seppe concepire nientemeno (3131) che un poema eu-
ropeo (qual fu il Goffredo, non meno per l'argomento
che per gli altri pregi), dove la generalità dell' in-
luogo a poter rudimento trovar sjoarezza e Impunità col passare i confini
e mutar soggiorno ehi aveva o violato le leggi o troppo llboranionte
parlato 0 scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello atato Italiani)
in eh' ei dapprima wi trovava.
|9l3t-3l32) pen sieri 201
torero non pregiudicasse (di' 6 pur si difficile e raro)
alla vivacità o forza del medesimo. ») E in vero se
dalla estensione dell' interesso si deve misurare, al-
meno in qualche parto, il pregio d'un poema, anzi
dV'ni scrittura, niun poema epico m questa parte
né vinse no agguagliò la Gerusalemme, siccome an-
cora secondo lo opinioni di que' tempi, no' quali ci
dobbiamo riporre coli' intelletto , niun poeta epico si
propose mai scopo pili nobile né più degno ne più
magnanimo che il Tasso, il quale, intese col suo
poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori
insieme ad eccitare i principi cristiani a quella sacra
e generosa guerra ce, coli' esempio e la lode di quelli
che l'avovano intrapresa e valorosamente operata e
felicemente terminata (puoi vedere per meglio cono-
scere le opinioni e i sentimenti (3132) dell'Europa
cristiana verso l' impero Turco nel cinquecento la
BMiotheca Grava del Eabricio, t. XIII, pag. 600-6 . )
Molto ragionevolmonte adunque ì sopraddetti
poeti (por non parlare degli altri, come di Voltaire
e di ErciUa, autore AelV Araucana, e del Tnssmo oc )
scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la
qual circostanza (largamente però intendendo la parola
nazionale, come, per esempio, circa la Gerusalemme) e
assolutamente impossibile dare alcuno interosse a un
poema epico che abbia e sorbi la unità, com'ella oggi
s' intende. Ed è perciò ben poco lodevole l'assunto di
») Notisi «he il Tasso procurò eziandio 'li render lUUlonale 1 MgO-
gn.ucnto della Gerusalemme col duro tra' cristi»..! le maggiori vari, del
valore a due italiani Tancredi di Campagna nel Napoletano, « q«f» «»
patria del Tasso, e ninnalo d' liste progenitore del Duca a coi il lasso
indirizzava il poema. E Einnldo si è propriamente, non puro il seconde,
ma l'altro Eroe della Oewalanme co.. Goffredo, corno lio detto a ano
luogo, e, secondo Pinteuaion del Tasso, a parti uguali, ma in effetto
o 1 riesce maggior dì GoltVcdo. ' • ,
s ) Vedi p. 3173. Vedi ancora particolarmente lo Speroni, Orastum.
Venezia, 1886, p. 23 e p. 56 e 10D o Castiglione, Cortigiano , odi/.. Von..
1541, carta 173; ediz. Von,, 1565, p. l'IZ-i, libro IV.
202
pensieri (3132-3133-313*)
quel moderno ohe volle dare all' Italia una nuova Ge-
rusalemme (Amor, Gerusalemme distrutta).
Ma l'interesso ohe nasce dalla virtù felice è, come
ho dotto, sempre debole anello in un soggetto nazio-
nale e soffre moltissimi inconvenienti, massime in
tempi cosi diversi da quelli di Omero, come sono i
moderni e corno furono quei di Virgilio elio in molte
parti si rassomigliano ai presenti.
1°, Tutte quelle speciali circostanze che ne' tempi
antichissimi rendevano singolarmente progevolo (3 133}
la felicità, e cagione di stima per so medesima, peri-
rono ben tosto, ed altre contrarie no sottentrarono che
produssero e producono contrario effetto, o sempre lo
produrranno, porche queste soconde circostanze non
sono per passar mai.
2°, E cosi falso, ') o per lo meno straordinario,
che la virtù sia compagna della fortuna, che un vir-
tuoso fortunato, un meritevole elio ottiene il suo me-
rito (e tanto più s' egli è straordinariamente merite-
vole, so la sua virtù è veramente singolare, il che oggi
sommamente nuoce), eccede quasi quel grado di sin-
golarità e rarità che è compatibile colla credibilità,
colla illusione, coli' immedesimarsi che doo faro il
lettore no'casi e ne'personaggi narrati dal poeta, con
quella cotal somiglianza che il lettore doo pur trovare
tra quoi casi e i presenti, tra quelle persone e se stesso;
dove, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch'ei
ci provi interesse. Di quosto inconveniente ho già detto
di sopra. 8 ) Esso ancora non è mai per passare, anzi
cresce e crescerà, si conforma e confermerassi ogni di
mangi ormeT1 te. (3134)
3", E ciò tanto più, quanto 1' idea che noi ab-
biamo della virtù è ben diversa da quella che s'aveva
a tempi d' Omero. La virtù qual suol essere concepita
<) Volgasi In p. 3451-2.
z ) Vegga»! I* p- 3125.
203
dai moderni lia la fortuna assai più nemica, che non
queliti virtù concepita dagli antichissimi, la quale
consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e
nel coraggio; qualità che, so non sempre, certo assai
spesso yon seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e
molto giovano a conseguirla. Ond' era tanto più ra-
gionevole e conveniente che a quei tempi 1' eroe del
poema epico, il qualo dov'essoro sommamente virtuoso,
si sccgl l'osso felice, purclii: quella virtù in circi si
doveva rapprosentare eccellente conduce infatti alla
felicità, e il mostrar ch'ella non avesse conseguito il
proprio intento l'avrebbe mostrata imperfetta, come-
quella cho non era bastata a produrrò quel eh' ella
suole, e a che ella naturalmente serve e conduce.
Massime che gli uomini sogliono giudicar dai suc-
cessi (3135) ed estimare assolutamente la natura, le
qualità, il grado, il valore e la propria bontà delle
cose dai loro effetti. Ma la virtù modernamente con-
siderata è por sua stessa natura, non solo non condu-
cente, ma progiudizievole alla fortuna. Questo di-
scorso ha massimamonte luogo ne' tempi più moderni
in cho l' idee morali, e per cagione del cristianesimo
e por altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si
raffinano quanto più divengono inutili, o tanto si per-
fezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno se-
gregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente
le dotte considerazioni sono anche applicabilissime ai
tempi di Virgilio ; e infatti la virtù di Enea è im-
mensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di
perfetto eroe, concepito e voluto esprimere da Virgilio,
fu diversissimo e in buona parte contrario a quello
di Omero.
4°, Oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo.
Anche ne' romani al tempo di (3136) Virgilio esso era
abbastanza raffreddato, perché quasi niun di loro con-
siderasse più la sua patria come cosa individualmente
sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e
204
pensieri (3 1 36-3 1 37-3 ! 38)
come questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'ossi
manifestava nell'operare per la patria, cosi produceva
il grando intorosso ohe ciascuno pigliava alle glorie
d'ossa patria, cantate dai poeti. Questo spirito non si
trovava più no' romani, o poro non potò essere se
non mediocre in esso loro l' interesse verso le vitto-
rie e le lodi di remotissimi loro antenati, che oltrac-
ciò portarono un nomo diverso dal loro (troiani).
Omero cantò ai greci liberi , e Virgilio ai romani,
dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi,
e di più pacificamente tiranneggiati, perché quello
fu quasi il più pacifico tempo dell' impero romano, e
in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero
del giogo. Dolio nazioni moderno poi, nulla dirò.
Parlino i fatti; e se ne deduca quanto vivo e (3137)
durabile interesse possa cagionare in un' epopea la
nazionalità dell' impresa e dell' Eroe. Quando non esi-
ste quasi nazionalità nello nazioni. Ciò vale sopra-
tutto per l' Italia.
5°, Einalnionto l' intorosso elio può produrre in
un poema epico un Eroe ed un' impresa nazionale, fe-
lice, né può, come è chiaro, riuscire universale né
anche può essore perpetuo, come più sotto si mostrerà
cogli esempi. Unico interesse che possa in un'epopea
riuscire universale e per luogo e per tempo, cioè co-
mune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è quello
che nasce dalla sventura e più dalla virtù sventurata,
dalla beltà, dalla giovanezza e anche dal valor militare
personale sventurato. E questo altresì può solo esser
vivissimo e durare in chi legge, per tutto il corso della
lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo di
poi, come pungolo lasciato nella piaga.
Ma l'unico modo che v'aveva d' introdurre questo
interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero
nell'Iliade, cioè di duplicare onninamente l'Eroe, l' in-
teresse e lo scopo poetico di tutta 1' epopea, non so-
lamontc (3 1 38) dagli epici posteriori ad Omero non tu
r>05
(3138-3139-3140) . pensieri
&to abbracciare, ma fn sopra tutte l'altro cose fuggito,
-omo creilo die dirittamente avrebbe esclusa quella
unità d'interesso, di scopo e d'Eroe, che quei poeti
e j Doltoii de' loro tempi e do' nostri davano pei
«rimana e supremamente indispensabile qualità del
La epico: la unità, dico, non quale e quella della
Iliade, dalla quale pur furono tratte le regole, lo
torme o il tipo dell'epopea, ma quale i posteriori .in-
segni metafisicamente sottilizzando e troppo artisti-
camente e strettamente considerando la concepirono,
determinarono e prescrissero. Ond> è che quantunque
in ciascuno denominati poemi epici v' abbiano molte
sventure cantate, ed avendovi una parte Vittorio» e
fel ice v' abbia altresì necessariamente una parte soc-
combente e sfortunata, si guardarono però bene tutti
i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura,
come aveva fatto Omero; e di condurrò il poema in
modo che (3139) all'ultimo la vittoria dol a parte
avventurosa, benché sempre desiderata e allora ap-
plaudita dal lettore, fosse noi tempo medesimo cor-
dialmente da lui pianta e lagrimata, destandosi cosi
nel suo animo, si pel corso del poema si massima-
monte nel fine, e durando in esso dopo la lettura quel
vivo contrasto di passioni e di sentimenti , quella
mescolanza di dolore e di gioia e d' altri similmente
contrarli affetti che dà sommo risalto agli urn e agli
altri, o ne moltiplica le forze, o cagiona nell animo
de' lettori una tempesta, un impeto, un qnasi gorgo-
gliamento di passioni che lascia durevoli vestigi ai
se, e in cui principalmente consiste il diletto che si
riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muo-
vere e aqitare e non già lasciar l'animo nostro m
riposo e in calma. Questi mirabili effetti li produsse
divinamente la Iliade, costringendo gli uditori greci a
piangere sulla morte' e sui funerali di Ettore ucciso
dalle armi de' loro (3140) maggiori, in guerra, por
loro giusta e con giusta causa (cioè la vendetta di
pen sieri (3140-3 141)
Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di
Andromaca e della desolata città nemica, già vicina
ali ultima calamità, che, per cosi dire, le loro proprio
«rnu o i loro propri i eserciti gli avevano infatti re-
cata. Sublimissimo effetto concepito, disognato o pro-
dotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non
saputo concepire né produrre da vermi altro epico in
tempi civili. Perocché, temendo di raddoppiar l' in-
teresse (eh' era appunto ciò che avevano a fare, o
senza il che non ora possibile quel divino effetto),
evitarono espressamente e studiosamente di fare in
modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa
riuscisse più che tanto virtuoso o per qualunque lato
interessante sino al fine. E maggiormente si guarda-
rono di sempre ugualmente condurrò e in ultimo an-
nodare le fila della loro epopea tanto all'esito (3141)
dell'Eroe vittorioso quanto a quello di un altro Eroe
« lui por molti lati pari e seco lui compensabile e
comparabile; ma soccombente. Come fece Omero, perché
noli' Iliade, Ettore è, e In voluto rappresentare, espres-
samente comparabile ad Achille.
j, r Tumo non 0CCU P U so non pochissima parte del-
1 Eneide, e riesce cosi poco interessante che certo la
sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno
un sospiro. Gli Eroi do' barbari nella Gerusalemme
SOiw appostatamele pili d' uno e di ugualissimo pre-
gio, ') sicché l'interesse non si determina por alcuno
di loro, né della loro morte o calamità ninno si com-
piango, né a veruna di queste morti o calamità ten-
dono lo fila dol poema. Di più il Tasso, stante lo
spinto del suo tempo, e stanto che in quel caso pa-
reva che la religione interdicesse, come suole, e con-
fondesse colla empietà l'imparzialità, non potè a meno
') Argute, Clorinda , Solimano. Questi ed Arganta sono anche
espressamente omnli, ma tatti tre pari di valore. Altri eroi degl' infedeli
non v ha nella Gerusalemme. Vedi p. 3&5S
(3 141 -3 142-3 143) PENSIERI
di rappresentare con tratti odiosi (in alcuno più in
altri manco, ma generalmente, o massime in Solimano
'ed Argante, odiosi) i nemici de' cristiani. Quindi
nella presa di Gci-usalonimo ninno sente por niun
modo la sventura e il disastro di quella città infedole,
né (3 142) la presa è descritta o narrata con intenzione
di muovoro a compati mento, né in maniera da po-
terne mai ragionare né meno a caso. Altrettanto di-
casi delle sconfitte degli eserciti maomettani o pagani.
E similmente si discorra dell'altre moderno epopee.
Non è già che Virgilio e gli altri volessero e
intendessero spogliare affatto d' ogni valore, d' ogni
virtù, d' ogni pregio la parte contraria alla vincitrice.
Anzi, intendendosi a' tempi loro meglio elio a' tempi
d' Omero, che tanto più si loda colui che vince non per
caso ma per virtù, quanto s'amplifica quella dol vinto,
non lasciarono di volere espressamente rappresentare
virtuosi in molte parti o degni di stima e lodevoli an-
che i nemici, si tutti insieme, come parecchi distinti
personaggi del loro numero. Ma ciò facondo, inton-
tissimamonto evitarono che l' interesse pe' nomici o
per alcuno do' medosimi non giungesso di gran lunga
a pareggiare quello che volevano ispiraro ai lettori
verso la parte e 1' Eroo vittoriosi. Nel che riuscirono
ottimamente, anzi al di là della loro intenzione, perché
laddove ossi vollero pur (3143) comunicare alcun poco
d'interesso a questo o quel personaggio nemico o alla
parte inimica, niuno glione comunicarono.
Queste sono lo forme di poema epico, e queste le
regole e il processo soguiti o adoperati dall'una parte
da Omero, dall' altra parte dai poeti epici che, por dir
cosi, da lui nacquero. Comparate cosi le forme, l'idea,
e ; so cosi vogliamo dire, lo cagioni e le intenzioni
dc'poeti, consideriamo ora generalmente o paragoniamo
i rispettivi effetti.
Neil' Iliade oggidì l' interesse por Achille e pel-
li greci, come ho detto, è poco o niuno, porche i suoi
207
208
pensieri (3143-3144-3145)
lettori non sono più greci. Nondimeno l'interesse nel-
V Iliade è vivissimo, continuo e durevole eziandio dopo
la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I let-
tori di qualsivoglia nazione, dopo tanti secoli, dopo
tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti
efficacemente e continuamonto s'intorossano leggendo
la Iliade. E tutti non per altri che per li troiani e
per Ettore, cioè per la sventura; o questo interesse
(3144) si riduce principalmente, e come a suo capo,
alla compassione. Questa cioè è quel sentimento do-
minante e finalo , elio noi nolla Iliade provando ,
chiamiamo intoresse della medesima. Le quali coso
mossero il Cesarotti a intitolar quel poema, come ho
detto, La Morte d' Ettore, misurando l'indole e 1' in-
tento primitivo , proprio e vero del poema dall' ef-
fetto ch'ei produco sopra di noi in tanta diversità
e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, di
carattere e di costumi. Neil' Eneide V intoresse della
compassione non v' è. Dico non v' è, come interesse
finale. Quollo elio si concepisco por Bidone, quello
por Niso od Eurialo sono interessi episodici che non
ci accompagnano se non per piccola parto del poema,
né hanno che faro colla sostanza o collo scopo di esso,
talmente che possono affatto risecarsi senza che la
testura né il principale e finale effetto del pooma per
nulla se ne risentano o ne sieno cangiati. L'interesse
per 1' Eroe felice , cioè per Enea e per la parte
felice, cioè per li troiani, dovotto esser mediocre an-
che a principio , (3 1 45) come di sopra ho mostrato ,
ed ora è pili che mediocre. E ciò non ostante che il
lettore di Virgilio non possa quasi a meno di trasfe-
rire o di continuare ne 1 fortunati troiani dell' Eneide
quell'interesse ch'egli ha conceputo per gli sfortu-
nati e vinti troiani della Iliade. Perocché egli è cer-
tissimo che l' Iliade, oltre all'aver partorito l'Eneide^
oltre all'averla nutrita e cresciuta, per dir cosi, del
suo proprio latte (voglio dire averle somministrato
3145-3 1+6-3147)
rENSiF.ni
209
l'argomento e i materiali in gran parte, o datogliene
l'occasione, e d'altronde avorio porto i mozzi e i modi
di trattarla, e gli ornamenti ee., cioè il modello e lo
immagini o le l'ormo delle invenzioni, dell'ordine,
dello stilo poetico ec). la sostiene e l'aiuta anello og-
gidì', comunicandole parte del suo proprio interesse,
riscaldandola del suo fuoco, e riverberandosi sulla
Eneide, e in essa influendo e derivandosi e quasi ir-
rigandola gli a (Tetti clic la lettura o la notizia della
.Iliade inspirò. Laonde se la Eneide , quanto al suo
principal soggetto, ispira alcuno interesso, egli è pur
da notare che grande e forse la massima parte di
esso, non a loi propriamente appartiene, ma lo vicn
di fuori, c l'è totalmente accidentale ed estrinseco,
non interiore ed essenziale, né in essa (3146) nasce ma
altrove ed anteriormente nacque. Il che non si deve
confondere col proprio o nativo interesse doli' Eneide . ')
La Lusiade avrà corto interessato ed interesserà
forse anche oggidì i lettori portoghesi, né si può ba-
stantemente lodare lo sfortunato Òamoens per l'avere
scelto un soggetto cosi strettamente nazionale, e di
pili per l'aver saputo adattare e far matoria di poema
epico un argomento allora modernissimo, qualità che
per l'una parte produce estremo difficoltà lo quali a
•'molti sono sembrate in un poema epico insuperabili,
e per l'altra sommamente contribuirebbe a produrre
o singolarmente accrescerò l'interesse d'un' epopea,
come ancora di un dramma e di qualsivoglia, poesia.
Ma por li lettori dell'altre nazioni non so quanto nella
Lusiade possa essere l'interesso, né se ne' medesimi
portoghesi, mancata la recente memoria di quello im-
preso, e raffreddato, come por tutta l'Europa, l'amor
Razionalo e gli altri sontimenti magnanimi, la Lu-
siade produca per ancora un interesse abbastanza (3147)
vivo, continuo 0 durabile
!) Hi questi interessi acciiliiiituli volli la p. 2G45-8.
Lbopahdi. — Panieri, V.
li
210
pensiehi (3147-3148-3149)
Quello spirito dell'Italia o dell'Europa cristiana
verso gl'infedéli (e. diciamolo ancora, verso il cristia-
nesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tompo
del Tasso e ne' precedenti, che in lui ancora grande-
mente potè, che ispirò e produsse la Gerusalemmi;, è
totalmente sparito e perduto, e le nostro condizioni a
questo riguardo sono affatto cangiate in tutta l'Eu-
ropa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della Geru-
salemme. Dico che la Gerusalemme, non ha più real-
mente veruno interesse finale e principale, cioè non
ispira più quell'interesse eh' ella principalmente e per
istituto si propone d'ispirare; perocché esso non ha
più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati corno
sono, né può pili nascere in alcuno quell'interesse, es-
sendo mutate e quasi volte in contrario le circostanze.
Benché certo la Gerusalemme al suo tempo ispirò
moltissimo interesse, e forse maggiore che VEnr/de
al tempo suo, od oltre di questo universale nello cólte
nazioni, (3148) dove quello dell'Eneide non potè es-
ser che nazionale. Né certo la Gerusalemme mancò
dol suo fine. Ma ora non per tanto non può più pro-
durlo. Interessi perciò opisodici e non finali ve n'hanno
molti nella Gerusalemme. V ha quello di Olindo e So-
fronia c nasco dalla sventura. V ha quello di Ermi-
nia, quello di Clorinda, e nascono dalla svontura.
V ha quello dol Danese, e nasce dalla sventura, e,
quel eh' è notabile, da sventura toccante alla stessa
parte che aveva a riuscir vittoriosa e fortunata, cioè
a diro alla cristiana. Colla quale occasione è da consi-
derare la bella e straordinaria facoltà che concedeva al
Tasso lo spirito del suo tempo, cioè di congiungere la
compassione alla folicità, di far nascere questa da
quella, di salvar l'unità estrema che si esigeva ne' poemi
epici, pigliando un|Eroo felice e facendolo non per tanto
compassionevole. Alleanza impossibile anticamente,
difficile e di poco buono effetto oggidì. Ma le opinioni
cristiane (elio al suo tempo fiorivano) riponendo (3149)
(3149-31501 PEKSirau _ 211
lafelicit.à propria dell'uomo nell'altra vita, facendola
indipendente da quella di questo mondo, considerando
le sventuro temporali come vantaggi e reali fortune, in-
gegnando massimamente esser felicissimo ohi soffre
per la giustizia e poi- la fede e per Dio, e più chi
muore per loro amore e cagiono, davano luogo al Tasso
di rappresentare come felice e come giunto al suo de-
siderio e scopo un - personaggio, il quale, facendolo
temporalmente sventurato e nello sventure magna-
nimo oc, poteva pur fare sommamente compassione-
vole o tenero. Né altrimenti egli si governò circa il
Danese, il quale ei non diede già per infelice, ma per
felicissimo veramente, essendo morto, e generosa-
mente morto por Dio. e noi tempo stosso il volle fare
e il fece oggetto di compassione o di tenerezza per la
temporale sventura e per questa morte fortemente in-
contrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalore di
tal facoltà né di tali opinioni e disposizioni del suo
tempo, se non quanto a personaggi secondarli (come
questo e Dudone (3150)) e in episodii; e l'eroe prin-
cipale volle farlo felice, non solo eternamente ma tem-
poralmente altresì, e la principale impresa volle che
bene uscisse non puro secondo il ciclo, ma eziandio
secondo la terra. Nel che non m'ardisco però di ri-
prendere il suo giudizio, né so biasimarlo s' ei cre-
dette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi
i contrarli alla natura e che troppa forza le fanno) non
dovessero gran fatto influire sulla poesia, né potessero
molto giovare a produr con essami buono, bollo e splen-
dido effetto. Siccome essi poco veramente influivano,
anche al suo tempo, sopra le azioni o le quasi secon-
darie opinioni degli uomini ; né valsero in alcun tempo
a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in
ogni tempo il poeta. In vorità due sorti di opinioni e
di dogmi, l'ima dall'altra distinta, e che quasi nulla
comunicavano insieme, tenevano all'età del Tasso e
no' secoli a lei precodenti gì' intelletti degli uomini.
■212
rKNSifinr (3150-3151-3152)
Li' una cristiana, l'altra naturale; quella quasi del
tutto inefficace (3151) c inattiva, la cui forza non si
.stendeva fuori dell'intelletto e no' termini di questo
si restringeva la sua esistenza: l'altra efficace, attiva
che dall'intelletto stendevasi a influirò e muovere la
volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocché
gli uomini sono sempre mossi dalle opinioni, né altro
che le opinioni può cagionare le loro azioni volon-
tarie, no v'ha opera umana volontaria che dalla opi-
nione, ossia giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma
l'intelletto umano è capace di contenere al tempo
stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrari],
e di contenerli conoscendone la scambievole, inconci-
liabile contrarietà, come accadeva ai detti tempi.
Ben diversi dalla primissima età del cristianesimo,
quando un solo genero di opinioni regnava nogli
animi, cioè quelle della religione, ed ora efficace, o
stendevasi alla volontà ed al reggimento delle azioni
interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò as-
sai meno di quel che può credere (3152) chi non co-
nosco la storia ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto,
o chi in essa si lascia imporre dai nomi, e dal lin-
guaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, so
non altro, divenno in breve assai raro. Del resto, egli
è duopo distinguere in ciascuna età, nazione, indivi-
duo le opinioni efficaci dalle inefficaci che noli' intel-
letto purainento si restringono. Quello talor possono
servire alla poesia, talora non possono (come lo pre-
senti, e vedi la pag. 2944-6), talor più, talora meno;
queste sempre pochissimo o nulla. Parlo delle opi-
nioni che in so hanno relazione alla pratica e al go-
verno della vita, non dell'altro, che son fuori del mio
discorso. Per esempio, quelle opinioni, illusioni ce.
antiche o moderno elio, derivando dalla immaginazione
o dall' esperienza ec, persuasero e occuparono, o per-
suadono ecii l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla
che far colla pratica della vita por lor natura, non
(3152-3)53-3154) pBNtsmu
213
influiscono sulla volontà, o sono inefficaci, o ciucate
possono però, ed anche grandemente, servire alla,
poesia.
' Da questa digressione, non aliena, ered' io, dal
proposito, tornimelo in via, ci rosta a considerare corno
sia strano o quasi assurdo clie Omero in tempi feroci
abbia tanto l'atto ginocaro la compassione noi suo
poema, n' abbia tatto un intorcsse principale e finale,
abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che,
anche oggidì, mancato l'altro interesso all'Iliade, non
si può forse tuttavia legger cosa ohe (3153) tanto in-
teressi, non avesse riguardo di far cadere ed esage-
rare la compassione quasi unicamente sopra i nemici
de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali
non istimavano gran l'atto la generosità verso il ne-
mico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e clic i
poeti moderni abbiano affatto od espressamente esclusa
la compassione dal grado d'interesse finale, abbiano
per lo più evitato di farne cader più elio tanta sopra
i nemici della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare
(la compassione per Clorinda nella Gerusalemme non
dava scrupolo al Tasso, perch'ei la fa morir conver-
tita, o nel medesimo canto la scuopre por cristiana
di genitori e di nazione; si eh' olla cade in ultimo,
fecondo l' intenzione finale del poeta, sopra una cri-
stiana) oc. ec. In verità egli sarebbe stato credibile,
e certo egli avrebbo dovuto aceadore, tutto l'op-
posto.
1°, Quella raffinatezza dell'amor proprio e della
facoltà di sentire, la quale è necessaria perché la
compassione trovi luogo nell'animo umano, (3154) la
produco, e seco il piacere eh' altri ne gusta non fu
in alcun modo propria de' tempi d'Omero, e propris-
sima di quelli di Virgilio e do' moderni, perocch'ella
nasco dalla civiltà. Parlo qui della compassione inef-
ficace, qual è quella che si prova leggendo un poema,
o che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili,
%ll pensieri (3 154-3 155-3 i 56)
massime destaridovela lo charme, e l' artifizio della poe-
sia e degli abili prosatori. La compassione efficace
la qua! ci muovo a sovvenire alle miserie altrui, Na-
sce anch' essa dalla detta raffinatezza, e quindi dalla
civiltà, ma richiedo una raffinatezza maggiore di quella
elle la civiltà soglia ordinariamente produrre e pro-
duca nel comuno degli uomini, e una facoltà naturalo
di sentire maggior dell'ordinaria e quindi olla è e fu
in ogni tompo ben rara.
2°, Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava
quello elio negli uomini si chiama cuore, moltissimo
l' immaginazione. Oggi, por lo contrario (e cosi a' tempi
di Virgilio), l'imui agi nazione (3155) è generalmente so-
pita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è
ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficil-
mente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla
immaginativa, od esser grande per quella parto che
propriamente spetta all'immaginazione e per ciò die
da lei deriva, come furono Omoro e Danto. Se l'animo
degli uomini cólti ò ancor capace d' alcuna impres-
sione, d'alcun sentimento vivo, sublime e pootico,
questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti
oggidì appresso gli altri poeti di vorso o di prosa il
cuore è sottentrato universalmente e quasi del tutto
all'immaginazione, quello gl' ispira, quello ossi mirano
a commuovere, e su quello realmente operano sempre
ch'oi sono atti a riuscire nel loro intento. I pooti
d' iminaginaziono oggidì manifestano sempre h) stonto
e lo sforzo o la ricorca, e siccome non fu la immagina-
zione che li mosse a poetare, ma essi che si espres-
sero dal corvello e dall' ingegno, (3156 ) o si crearono
e fabbricarono una immaginazione artefatta, cosi di
rado o non mai riescono a risuscitare e riaccenderò
la vera iminaginaziono, già morta, nell'animo de' let-
tori o non fanno alcun buon effetto. Cosi dico di
quelle parti cho ne' moderni scrittori sono di pura
immaginazione. Lord Byron è un'ecoozione di regola,
(3156-3 1 57 ì PENS ieiìi - J - L ''
forso unica, per se stesso. Vedi p, 3477. Quanto al-
l' effetto delle sue poesio sopra i lettori, dubito eh' elle
debbano essere eccettuate dal numero delle altre poe-
sie d'immaginazione. Vedi p. 3821. L'animo nostro è
troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quolla
immaginativa eh' egli ha conservata, ina ohe noi ab-
biamo per sempre perduta. *) Ora tra i pooti epici
egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto
mirato al cuore, e che Virgilio o i moderni non si
sieno proposti per oggetto finalo ed essenziale de' loro
poemi che di muovere l'immaginazione. Perocché il
soggetto essenziale e unico principale de' loro poemi
ai è un Eroe felice e un'impresa felicemente (3157) ter-
minata. Ora la felicità non vale che por la maraviglia,
la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore.
Tanto possono fare errare i più grandi spiriti lo re-
golo e l'arte, e tanto nascondere la natura dell'uomo,
de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro
e occultare il proprio scopo e la propria essenza di
quelle cose medesime eh' essi intraprendono ed alle
quali esse regole appartengono.
3°, Lo idee, i principii di generosità, di equità,
di umanità, di beneficenza verso il nemico si ne' giu-
dizi si ne' sentimenti si nelle azioni, nacquero, si può
dir, dopo Omero, mitigati cho furono i ferocissimi e
implacabili ed eterni odii nazionali, proprii degli
uomini ancor vicini a natura. s ) Essi principii sono
*) Ancbe Omero e Dante hanno assiri che Curo pei ridestai la nostra
Umnaglnazioue. C'oiituttocio, quantunque la finitasi» ili Lord Byron sia
coito naturalmente straordinario, nondimeno e pur vero che anoh'ella è in
grandissima parte artefatto, o vogliamo dire spremuta a l'orna, oudo si
vedo chiaramente che il pili delle poesie di Lord Byron vengono dalla vo-
lontà o da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispirazione
u da fantasia BpontoiuHainouto mossa.
*) Veramente di tutti i poemi epici il piti antico, cioè 1' Iliade, è,
quanto all' insiome , allo scopo totale e non parziale, al tutto o non alle
parti, all' inton/ioii (Inalo o primaria, non episodica, addietliva o secon-
daria e qua»! estrinseca, accidentale oc, è, dico, il pi* sentimentale, anzi il
solo seutimuutalc; cosa voramonto strana a dirsi, c cho par contraddit-
21(i PKMSIKRI (3 1 57-3 158-31 59 j
massimamente comuni ed efficaci ne' tempi moderni
ne'quali non si possono avere odii nazionali, non aven-
dovi quasi nazioni, o niuno individuo considera, come
anticamente, per nomici personali quelli della nazione,
i quali altresì ed effettivamente noi sono né per sen-
timento neper fatto, ma nemici (3158) solamente del
suo re ec. Anzi i detti principii oggi degenerano in
totale indifferonza verso il nemico della nazione, la
qual porta a non distinguerlo quasi affatto dall' amico.
Or non è egli maraviglioso che il poema d'Omero sia
cento voltolili impacialo e generoso verso i nemici
della sua propria nazione, che non sono i poemi mo-
derni verso la parte contraria a quella ch'in essi si
oelobra? e tanto ohe volendo nella Ilìade investigare
i proprii sentimenti del poeta, e non mirando se non
se all'espressione di questi, appena si potrebbe oggi
distinguere se Omero fosso greco o troiano, o d'una
terza nazione, e, in quest'ultimo caso, per qual di quelle
due fosso più propenso nel suo animo.
*"; Oggi, «o^e ho già detto, c proporzionatamonte
eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non
esista interasse pubblico, se non in quei pochi che le
cose pubbliche amministrano, e che il pubblico rap-
presentano, (3159) anzi, si può dir, lo compongono e
costituiscono. PJd è ben cosa ragionevole e consentanea
che l'interasse pubblico negli altri più non esista (e chi
governa non leggo poemi). Ora dunque i poemi, lì cui
soggetto non ò che qualche folicità e gloria nazionale,
poco possono oggidì interessare, o certo assai meno
che a' tempi d' Omero. Ma la sventura, e massime
degl'immeritevoli, è sempre dell'interesse privato di
ciascheduno uomo. Ninnò è che non si stimi infelice
o conseguentemente noi sia, e ninno è parimente che
tovlans'toiriuini, ed è intatti mostruosa «1 opposta alla natura da'progressj
ordalia atoriu dolio spìrito umano e dogli noi ì, « dello differenza dc'tom-
in, «Un Datata rispettiva doli' antico ni inodorilo, o viceversa ec. È anche
il poema pui erlstUuw, l'oidio iiiloressa pai nemico, poi misero oc. ec."
(3159-3160-3161) VEKSHHW
217
non si reputi immeritevole della infelicità oh' ei so-
stiene. Queste, disposizioni benché comuni a tutti i
tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poiché
per lo circostanze politiche la vita non ha più come
vivamente occuparsi e distrarsi, e d'altronde il lume
della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere,
o impedisco dol tutto qualunque illusione di felicità.
Quindi, eziandio di pendon temoli te dalla compassione,
egli era (3160) tanto più conveniente oggidì che
a' tempi d' Omero il far molto giuocare ne' poemi epici
le sventure degli uomini, quanto che oggi il senti-
mento della infelicità nello nazioni civili è più vivo
che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento
e il pensiero pei 1 cosi dir dominante, da cui ninno
oramai trova più come distrarsi. E la infelicità indivi-
dualo dogli uomini è, per cosi dire, il carattere o il
segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel
d'Omero, il quale forse godette di quella maggior fe-
licità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo
nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande
attività della vita e dalle grandi e forti illusioni,
coso proprissime di quel tempo , massime nella Ore-
eia. Or dunque oggidì le sventure cantate da' poeti
non possono non interessar grandemente, c più che in
ogni altro tempo, o tutti; essendo il sentimento della
propria sventura l' universale e più continuo senti-
mento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente
gli uomini di parlare o (3161) udir parlare delle cose
proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come
propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolar-
mente di quelli che loro più si assomigliano, né po-
tendosi trovar somiglianza più universale che quella
della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di ve-
dere in altrui o di leggor ne' poeti i suoi propri sen-
timenti, e contando per somma ventura ogni volta
di' egli incontra o nella vita o ne' libri qualche nota-
bile conformità o di casi o di circostanze o di opi-
218
l'KXSI URI
(3161-3162
nioui o di carattere o di pensieri o d' inclinazioni o
di modi o di vita e abitudini, collo sne proprie; e
consolandosi ciascheduno dello sue sventure coll'esem-
pio vivamente rappresentato, o più col vederle quasi
Celebrate e piante in altrui (e ciò in soggetto o cir-
costante e persone e avvenimenti illustri, come son
quelli cantati ne' poemi epici), innalzando il concotto
di se stosso, qiiasi il canto del poeta avesse per sog-
getto la di lui stossa infelicità, ed intonerondosi nella
lettura quasi sui propri mali. Che in verità qualora,
leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie
noi ci sentiamo (3162) commuovere da quelle vero o
finte calamità, e ci lasciamo andare allo lagrime, cre-
diamo forso di piangere le miserie altrui, ma più spesso
e più veramente, o più intonsamente, piangiamo in
quel medesimo punto lo nostre proprio, o mescoliamo
il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa
mescolanza (eh' è vera e propria e debita arte, e de-
v'essere scopo del poeta l'occasionarla) è principal
cagiono di quelle nostre lagrime. E ci accade allora
(e cosi ne' teatri ec.) come ad Achille piangento sul
capo di Priamo il suo vecchio padre o la breve vita
a so destinata ec. ec, sublimissimo e bellissimo o na-
turalissimo quadro di Omero. Le sventure, quando
sieno nazionali o in altra maniera più particolarmente
appartononti ai lettori, interesseranno sempro più,
per la maggior somiglianza e prossimità, che non è
quella dello sventurato in genorale, e perché sarà tanto
più facilo e pronto il passaggio dell'animo del lot-
terò da quelle calamità alle sue proprio oc. Onde
sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema
sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre pre-
feribili agli altri, o la nazionalità conferirà moltissimo
all' interesse.
Venendo oramai a ristringere il mio discorso,
dico che l'Iliade, benché, oltro al non esser noi greci,
sieno corsi, da eh' ella fu scritta o cantata, ben von-
9i9
(3 1 62-3 1 63-3164^ __ i>knsMU ^_
Kl^ecoli con tutte quelle innumerabili e sostan-
te inT^sità che si lungo tratto di tóm^a
Kto allo spirito od alle circostanze estenor H 3l63)
T i ior <1 U'uomo e dolio nasoni, c'interessa sen-
t un Paragono più che 1' Eneide scritta in tempi
ti o «osiriori, e più conformi ai nostri, od aiutata
non o, come Lo detto, dall' interesse mede-
«raale interesse cosi inteso, manca quasi afl tat o
poemi che dalla IHa* derivarono; peroodh s nonb
sogna confonder con esso il piacere ^ « "gj^
irSat^ir^ .e .principale
scopo e scioglimento del poema; ne ancl i aUico
lari (o episodici o non episodici) interessi _< a o U
sparsi, non finali né continui (3.64) o
sconti da questa o da quella parte o non d^ n ^
e dal tutto del poema; né anche f™ h ™f°^\2-
teresse che può nascere dal semplice intreccio iute
rosse di pura curiosità, che non aspira né corre ad
altro che l voler essere informato dello ^f^T.
nodo, conosciuto il quale esso interesse finisce > mte
resse pochissimo interessante, e suporficialissm o ne
V animo; interesse che può esser sommo in poc nu
drammi ed opere di ninno ^—^^2^1
ne sommo ne principale ne anone j
sensibile, se non se in poemi, drammi ed opere di
niun intimo e profondo interesse e di P°^™T> ™
lor poetico, perché il destare, pascere e
curvità non ò effetto che abbia punto che fare coUa
natura della poesia, né le può esser altro che acciUcn
220
tale e secondario. Or dunque i poemi derivati dalla
Jliade leggonsi con molto piacere, destano di tratto in
tratto alcuno interesse più 0 men vivo e durabile,
(3165) ma essi mancano quasi affatto di quell'inte-
resse totale, finale e perpetuo, di cui V Iliade, dopo
ventisette secoli, appo uomini non greci, sommamente
abbonda, e dal quale si dee senza fallo misurare il
pregio e il grado di bontà del complesso e dell'intero
di un poema epico, siccome d' ogni altro pooma.
Per lo die, tornando finalmente là donde inco-
minciai, conchiudo ohe tutto all'opposto di ciò che si
dice e si crede, il poema dell'Iliade sarà forse dai po-
steriori poomi vinto ne' dettagli o nello qualità se-
condarie, come dir lo stile, o alcuna parte di esso,
qualche immagino, qualche parte o qualità dell'in-
venzione; sarà forse eziandio vinto in alcuna, parte
della condotta, come nel celare più studiosamente
I esito, laddove Omero par che studiosamente lo sveli
innanzi tempo (e forse anche questo si potrebbe difen-
dere, e in ogni modo non nuoce che all'interesse di
curiosità, del quale Omero, o come superficialissimo
o non poetico ch'egli è, (3166) o come narrando forse
cose universalmente allor cognite alla nazione, non si
feco alcun carico); ma cho nell'insieme, nel totale del
disegno, nell'idea, nello scopo e nell'effettivo risul-
tate del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga
■M' ilùtde. 1 E soggiungo che in ciò gli cedono appunto
per aver seguito una unità cho Omero non si propose,
e a causa di quello stosso incremento e stabilimonto
•dell'arte che li conformò e regolò, e che in essi si
vanta, e che Omero non conobbe, e che peccano appunto
per quella maggior perfezione di disogno che loro si'
attribuisco sopra l'Iliade, e cho in questa pretesa per-
icolone consisto appunto il maggioro ed ossenzial pec-
oatodeljoro disegno, peccato che ninno ci riconosce,
') Veggasi In p. 3289-91.
(3168-3167-3168) pens ieri ^
nou potando però lasoiaro di sentirne gli effetti, ma
rapportandoli a non vere cagioni , e malo esigendo
che quei poemi producano effetti non compatibili real-
mente con quel disegno che in essi lodano, e senza
cui gli avrebbero biasimati; e finalmente ohe Omero
(3167) non conoscendo l'arte (che da lui nacquo) e
seguendo solamente la natura o so stesso, cavò dalla
sua propria immaginazione ed ingegno un'idea, un
concotto, un disegno di poema epico assai pili vero,
più conforme alla natura dell'uomo e della poesia,
più perfetto che gli altri, avendo il suo esempio e in
esso guardando, o ridotta che fu ad arte la facoltà
ond' egli aveva prodotto que' modelli, e determinata,
distinta o stretta che fu da regole la poesia, non sep-
pero di gran lunga fare (5-11 agosto 1823).
* Alla p. 3109, margino. E l'egoista lusinga il suo
amor proprio anche col persuadersi di non essere egoi-
sta e di amare altri che se, e col credere di dame a se
stesso una prova. Quindi per gli animi raffinati ò
anche più dolce la compassione verso gì' inimici che
verso gli amici o gl'indifferenti, prima perché tanto
più facilmente e vivamente 1' nomo si persuade che
quel sentimento eh' egli allora prova sia sgomino e
puro il' ogni mescolanza e influenza d'egoismo; poi
perché tanto maggior concetto (3168) egli allora forma
della grandezza e generosità e nobiltà del suo proprio
animo, e tanto più s'aggrandisco a' suoi propri occhi,
(considerando la compassione ch'ei concedo agli stessi
nemici), del quale effetto della compassiono ho dotto
p. 3119. Onde veramente somma fu l'arte, squisitis-
sima l'intenzione o lo scopo e supremamente bello l'of-
fotto della poesia d' Omero, il quale rivolge principal-
mente sui nomici la compassione di che egli anima
tutto il suo poema, ed alla quale, come all'uno do' prin-
cipali offett.i di questo, egli mira.
La compassione è quasi nn'annogazionc che l'uomo
222
pensieri (3168-3169-3170)
fa di se stesso, quasi un sacrifizio che l'uomo fa del
suo proprio egoismo. Or questo è fatto per egoismo,
niente meno che il sacrifizio della roba, de' piaceri,
della vita medesima, che l'uomo fa talvolta, non da
altro mosso che dell' amor proprio, cioè dal piacere
eh' ei trova in far quella tale azione. Cosi l'egoismo
giunge fino a sacrificar se stesso a se stesso: tanto è
l'amor ch'ei si porta, ch'ei si fa volontaria vittima di
se medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace
di tanti (3169) e si strani e si diversi travestimenti,
che per suo proprio amore ei cessa anche di esser
egoismo, e quando voi lo vedote sacrificar se mede-
simo, egli è allora il pili raffinato egoismo che si trovi,
il più efficace e potente e imperioso, il piti intimo e il
più grande, porocch' egli è maggiore negli animi in
proporzione ch'ei sono più vivi, delicati e sensibili
(come altrove più volte ho detto), quale è necessario
oho sia in sommo grado chi può veramente di sua
volontà e scelta sacrificar se medesimo (12 agosto, di
di Santa Chiara, 1823).
* Alla p. 2776. Vedi la grammatica del Weller,
edit. Lips., 175G, p. 50, vers. 7-8, p. 58, fine (12 agosto,
di di Santa Chiara, 1823).
* Et Davus non recte scribitur. Davos scribendnm:
quod nulla litora vocalis geminata unam syllaham
facit (geminata, cioè por osempio due a, o, come in
questo caso, due w). Sed quia ambiguitas vitanda est
nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario
prò hac rogala digamma (3170) utimur. et scribimus
DaFus, serFus, eorFtts. Donatus, ad Tcì-v. Andr., I, 2, 2
^12 agosto, di di Santa Chiara, 182, ! 5).
* Cosi ridondante, o con un certo cotal significato
che non si può altrimenti esprimere se non col gesto,
si crede essor proprietà della nostra lingua, e idióf-
O03
(3170-3171) PRK8IMU ■ _ • .
fc„o del nostro dir familiare (benché molto usato
Si eleganti .scrittori). Vedi pure Cicerone ad
AH XIV 1, o il Porcellini in Abeo, «fl 16°. Ma quest ubo
f iatino e greco. Vedi il Porcellini in Sic ai §fe , sesto,
Lho, decimo; Catullo, XIV, 16 o Platone nel
ed. Àstii, Lips., 1819, segg t. HI p. 440, v «.
Gli spaglinoli hanno qualcosa di simile (12 agosto,
di di Santa Chiara, 1823).
* Tramare, approfittare, profiter , aprovechar ec.
' quasi profetare, da profectus di prò fido. Pntextar spa-
pmolo, prétexter francese da (12 ago-
sto, di di Santa Chiara, 1823).
* Diciamo volgarmente uomo indigesto per difficili,
bisbetico. Or tale appunto si è il proprio significato del
ereco Sùgv.oÌ.o;, per metafora morosus, opposto di i ««ofco«.
I vedi la Crusca in discolo (12 agosto, di di Santa
Chiara, 1823). (3171)
* Ninna cosa maggiormente dimostra la grandma
e la potenza dell'umano intelletto, ne l'altezza e noUlt.
dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e Meramente
comprendere e fortemente sentire a sua p.ceo le/,a.
Quando egli, considerando la pluralità de mond! »
sente essere infinitesima parte di mi globo eh è mi-
nima parte d'imo degli infiniti sistemi che compon-
gono il mondo, e in questa considera .ione stupis ce
della sua piccolezza, e profondamente se pendola e
intentamente riguardandola, si confonde quasi col
nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della im
mensità dello cose, e si trova come ^amte nella
vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con que
sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova
possibile della sua nobiltà, della foraa e della mimo, sa
capacità della sua mente, la quale, rinchiusa m si pic-
colo e menomo essere, ò potuta pervenire a conoscere
22 4 . pensieri (3 17 1-3 172-3 173)
e intender cose tanto superiori alla natura di lui, ì
può abbracciare o contener (3172) col pensiero questi
immensità medesima della esistenza e delle cose. Corto
niuno altro essere ponsante su questa terra giunge mai
pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola
o in so o rispetto all'altre cose, eziandio eh' ei sia
quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per
nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri
più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si
è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del
sentimento dolla propria piccolezza. Onde avviene che
questa conoscenza o questo sentimento anche tra gli
uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordi-
nari, continui e pieni, quanto l'individuo è di maggioro
e più alto e più capace intelletto ed ingegno (12 agosto,
di di Santa Chiara, 1823).
:i: Al proposito di habeo c di ìym usati per essere
spettano i verbali habitus e oy^u. Sfa etc. Per esom-
pio, habitus cor2)oris, cioè modus habendi o se kabendi,
modus quo corpus h(d>ei (3173) o se kabet, vale pro-
priamente modo di essere del corpo ec. (12 agosto di
Santa Chiara, 1823).
* Alla p. 3132, margine- principio. Da quello clic
si legge nell' epistola di Antonio Eparco a Filippo Me-
lantone (eh' era pur non cattolico, ma famoso eretico
o poco si doveva curare de' luoghi santi), la qua! epi-
stola è riportata dal Fabricio noi citato luogo; e dalle
vario scritturo ed anche storie di quei tempi, si rac-
coglie che in verità il gabinetto ottomano mirasse
a soggettarsi l'Europa, non tanto per diffondere la
religione di Maometto (sebbene anche questo, s'io
non m' inganno, è precotto o consiglio dell' Alcorano,
che si procuri di diffonderla coli' armi il più elio si
possa, promettendo premi noli' altra vita a chi sostenga
di morirò combattendo per questa causa oc.) quanto
per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando
( 3 ! 73-3 174-3 175) ^^fbnsi ebi ^
éTi altri principio regni europei coinè cristiani, quanto
Lpetendoli come materia di conquista. O certo pare
che "li altri gabinetti europei riguardassero tutti la
potenza ottomana con maggior sospetto eh' ei non si
Gnaulavano l'un l'altro, temendone, non per la reh-
Ld cristiana, ma per se (3174) stessi. E senza fallo
potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo
nell'opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il
gabinetto ottomano conservava ancora le intenzioni e
i progetti di conquistatori. Né poteva essere spenta
la memoria e il terrore di quando, non più che un se-
colo addietro, quella nazione tartara, dopo lo tante
improse e conquiste e progressi fatti per si lungo tempo
nell'Asia, presa Costantinopoli, antichissima sede del
"reco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della po-
tenza, romana, aveva finalmente piantato nell'Europa
risorgente alla civiltà uu trono barbaro, una lingua
e un popolo asiatico (cosa fino allora, per quanto si
Estende la ricordanza delle storie, non più veduta), ol-
tre una religione diversa dalla cristiana (cosa pur
non veduta in Europa da' tempi pagani m poi, eccetto
i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare an-
che sotto i rispetti detti di sopra); ed aveva imposto
il giogo della schiavitù orientale alla più colta na-
zione elio fosse in quei tempi, come apparvo dai tanti
esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che, fuggendo la
turca tirannide, si erano sparsi per le altro parti
d'Europa, portando i greci codici e la greca letteratura,
e rendendo comune e proprio di quel secolo, più che
d' ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lin-
gua nelle scuole e fra' letterati d'Italia, di Trancia e
di Germania, od aiutando universalmente il progresso
delle rinate lettere. Spettacelo veramente terribile, la
cui impressione non poteva nel seguente secolo essore
spenta, né si poteva ancora (3175) aver cessato di
temere e di odiare generalmente il Turco, si nelle
corti e si nel popolo, non solo come conquistatore, ma
lite.
Luci' Aitili, — Primieri, V.
15
22(1
PENSIERI
(3175-3176}
di pili come conquistatore barbaro o crudele, minac-
ciante le nazioni civili (quasi corno i goti e gli altri
popoli settentrionali no' bassi secoli), anello astraendo
affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e
degli scrittori di quel secolo per la lega universale
contro i turchi prende un aspetto anche più grave,
e non è solamente da riguardarsi com' effetto di anti-
che opinioni e rimembranze roligiose, e di fanatismo
e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante
alla politica, e derivante dalla considerazione delle
reali circostanze d'Europa in quel secolo. E tanto più
importante n'apparisco il soggetto, e più degno, sag-
gio e nobile il pensiero, la scelta e l' intenzione del
Tasso, che nel suo poema fece servire la roligionc e
le opinioni e lo spirito popolare del suo tempo, e le
altro cose che si prestano alla poesia (perocché lo
speculazioni politiche non possono esser materia da
ciò) a promuovere quello scopo eh' era allora de' più
importanti per la conservazione della civiltà, della
liberti, dolio stato, del ben essere di tutta Europa,
cioè la concordia do' principi europei per essere in grado
e di respingerò c di distruggere il (3176) barbaro che
minacciava 0 era creduto minacciare di schiavitù tutto
lo nazioni civili, il comune nemico che macchinava o
era creduto macchinare la conquista di tutta Europa
dopo quella di gran parte dell'Asia, e insidiare per-
petuamente ai regni europei, come anticamente i per-
siani alle greche repubbliche. Né certo minor gravità
od importanza dovranno sotto tale aspetto essere ri-
putati avere il poema del Tasso, la canzone del Pe-
trarca e l'altro poesie o proso italiano o forestiero
appartenenti a tal materia, di quella che avessero lo
orazioni d'Isocrate contro il Persiano, o di Demosteno
contro il Macedone: anzi, por ciò cho spetta alla ma-
teria, tanto maggiore di queste, quanto questo tocca-
vano l'interesse della Grecia sola, piccola parto di
Europa, e quelle miravano alla salvezza dell'Europa
: 3 17B^3 1 77-3 178; raENSIBltl
intera o di tutte le sue nazioni e lingue, (15 agosto.
Assunzione di 51 arici Vergine Santissima, ]823). S«
la niniicizia degli europei verso i maomettani, e di
questi verso quelli, si restringeva alle sole opinioni e
discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, 1 ) come appa-
risce dallo impreco de" ( 'avalicri Ospitalieri di SauGio-
vamii di Gerusalemme (3177) clic in quel medesimo
secolo, dopo duecento dodici anni di possedimento
(1310) perdettero Rodi (1522) ed ebbero prima Vi-
terbo dal Papa, e poi Malta (1530) da Carlo V, e con
prodigioso valore la difesero (1566) quattro mesi con
morto di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai;
dalle impreso di Carlo V con tra i maomettani d'Europa
e d'Affrica; da quelle do' veneziani nel detto secolo;
dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dallo fiotto
spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci
anni avanti (1571), che fosse pubblicata la Gerusa-
lemmi: (1581), o certo in tempo clic il Tasso la stava
componendo o meditando, poiché fin dieci anni avanti
(1561) egli n'aveva già scritto o abbozzato sei canti
(vedi Tiraboschi, t. VII, parte 3, p. 118) (16 agosto
1823). Vedi p. 4236, e l'Orazione del Giacomini in
lodo del Tasso nelle Prose fiorentine, la qua! finisce con
un' esortazione alla guerra contro i turchi.
* Alla p. 2834. Questa tal grazia definita di sopra
è la grazia più ijraziosa e più fina, anzi quella cho
propriamente si chiama grazia, e che suol esser con-
siderata dagli artisti, dagl'intendenti, dagli specula-
tori teorici o pratici del bello, quella che sogliamo
intendere col nomo di grazia, od a cui principalmente
appartiene l' indetinibilità e inconcepibilità (3178) che
alla grazia s'attribuisce. La grazia nascente da di-
fetto (come quella di Roxolane appo il Marmontel),
227
') Vedi Turbo, G d'usui emme, XVII, 03-4, dove parla <1< Alfonso II
<H MwWim n conlioiitiUo eoi luoglii tifilo Speroni il" me notati p. 3132,
B^rgino -principio. Vedi p. 4017.
228
PENSIERI
(3178-3179)
è più grossolana e poco degna dell'artista o di qua-
lunque imitatore del bello. Essa ò bensì più comune-
mente sensibile (perocché quell' altra grazia non tutti,
anzi pochi, la sentono), e sempre eh' ella ò sentita,
fa maggior effetto dell' altra, eziandio nogl' inten-
denti del bello, negli spiriti di buon gusto, e negli
animi delicati e sensibili. E ciò perché il contra-
sto in essa è più notabile e spiccato, o maggiore la
straordinarietà. Ma porciò appunto questo effetto è
piiji grossolano, e per cosi dire più materiale e cor-
poreo, laddove quell'altro è pivi spirituale e più deli-
cato, e quindi più dirittamente e giustamente proprio
della grazia, l' idea della quale inchinde quella della
delicatezza. La grazia derivante da difetto punge e
solletica come un sapore acre e piccante, o aspro, o
acido, o acerbo, che per se stesso è dispiacevole, e
puro in un certo grado piace, e quindi molti spiriti
che non hanno mai potuto sentire quell' altra grazia,
o che sono di già blascs sul bello, a causa del lungo
uso ed assuefaziono, sono (3179) mossi o allottati da
quella grazia, por dir cosi, difettosi, come i palati o
ruvidi e duri per natura, o stanchi de' cibi piacevoli
per la lunga assuefazione, sono dilettati e solleticati
da quei sapori. Laddove l' altra suddetta grazia è
quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o
di rosa, che nulla ha di acuto né di mordente, o
quasi uno spiro di vento che vi reca una fragranza
improvvisa, la qiiale sparisce appena avete avuto il
tempo di sentirla, e vi lascia con desiderio, ma vano,
di tornarla a sentirò, e lungamente, e saziarveue
(16 agosto, di di San Hocco, 1823).
* È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto
nel genere umano millo spezie di morbi che prima di
lei non si conoscevano, né senza lei sarebbero state ;
e ninna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qual-
cuna, cosi poche, e poco acerbe o poco micidiali, che
(3 179-3 180-3 181) pensieri 229
sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con
oneste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e
mortalità di quello (vediamo infatti quanto poche e
blande sieno le malattie spontanee degli altri ani-
mali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e
similmente de'selvaggi, o massime de' pài (3180) na-
turali, corno i oalifornii; e che anche quelle dogli
agricoltori sono molto più poche o raro e men feroci
che quello do'cittadini). È parimente indubitato che
la civiltà rende l'uomo inetto a mille fatiche e sof-
ferenze ohe egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare
in natura, o suscettibilissimo d'esser danneggiato da
quelle fatiche e patimenti che, o por natura generale
o por circostanze particolari, egli è obbligato a so-
stenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto
senza vermi detrimento, e, almeno in parte, senza in-
comodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo
umano, a cui por natura (siccome a ogni altra cosa
proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale,
privo di forza, o con minor forza della sua natura,
non può essere che imperfettissimo; e eh' ella rende
propria dell' uomo civile la delicatezza rispettiva di
corpo, qualità che in natura non è propria né del-
l'uomo né\H veruno altro genere di cose, né dov'es-
serlo (vedi la p. 3084, segg.). È indubitato cho le ge-
nerazioni umane peggiorano in quanto al corpo di
mano in mano, ogni generazione più, si per se stossa,
si perch'olla cosi peggiorata non può non produrre
una generazione poggi or di se ec. ec. Da tutte queste
e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi
considerato, si fa più cho certissimo o si tocca con
mano, cho i progressi della civiltà portano seco e pro-
ducono inevitabilmente il successivo deterioramento
(3181) del suo fisico, deterioramento sempre crescente
in proporziono d'essa civiltà. Nei progressi della ci-
viltà, e non in altro, consiste quello cho j nostri filo-
sofi, e generalmente tutti, chiamano oggidì (e molti
230
['KNNII'IIÌI
(3 18 1-3 182)
anche ìd antico} il perfezionamento dell'uomo e dello
spirito umano. È dunque dimostrato e inori di con-
troversia che il perfezionamento dell'uomo include
non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il
corrispondente e sempre proporzionato deterioramento
c, per cosi dire, imperfezionamento di ima piccola
parto di esso uomo, cioè del sno corpo: di modo che
quanto 1' uomo s'avanza verso la perfeziono, tanto il
suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l'uomo
aarà pienamente perfetto, il corpo umano, general-
mente parlando, si troverà nel peggioro stato eh' e' mai
siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi
generalmente. Se con ciò si possa giustamente
chiamare perfezionamento quello che oggi s' intende
sotto questo nome, cioè so l'incremento della civiltà
sia perfezionamonto dell' uomo, e la perfezione della
civiltà perfezióne dell' uomo,* so nna tal perfezione ci
possa essere stata destinata dalla natura; (3182) so la
nostra natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna
natura richiegga o possa richiedere una perfezione di
questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, o
in quanto egli è civilizzabile ei sia, come dicono, e
come stabiliscono e dichiarano per fuori d' ogni con-
troversia, perfettibile; si lascia giudicare a chiunque
non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino all'ul-
tima perfeziono dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto
1' uso del raziocinio, e non serbi neppur tanta parte
dol discorso naturale quanta è propria ancora degli
altri viventi (17 agosto, domenica, 1823).
* Trcmhler, temhlar sono verbi diminutivi, cioè fatti
da un iremulare, il quale è da tremere, come misculare
(onde mesler , cioè meler, mezdar, mescolare, meschiare,
mischiare) da mìscere, secondo che ho notato altrovo. Ma
ossi verbi trembler e temblar hanno il sonso del positivo
tremare che noi francese e nello spagnolo non si trova,
Noi abbiamo e tremare e tremolare, quollo positivo, e
3182-3183-3184)
l'KNKIKLtl
231
questo, cosi di t'orina come di significazione, diminu-
tivo. Diciamo anche tr emulare, o piuttosto lo dico-
vano i nostri antichi, più alla latina, benché questo
werbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel
13183) basso latino: vedi il glossario cang. Il Fran-
jnosini scrive, tr emular ; lo chiama vocabolo barbaro,
e lo spiega tremare. Gli spagnoli dicono pure tremolar
(Somk, IIìhì,. de Mexico, 1. I, capit. 7, principio), ma
attivamente por agitare, dimenare, sventolare (corno tre-
molar una» vanderas nel citato luogo del Solis), alla qual
significazione par che appartenga l'ultimo esempio del
glossario cang. in Tramutare (lì agosto 18215, domenica).
* Gli uomini che noi mondo sono stimati e sono
tenuti da quanto gli altri o da pili degli altri, lo sono
per l'ordinario in quanto coll'uso della società essi si
sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti
naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscu-
rata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono,
coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e
mutata si la natura individuale o lor propria, vaio a dire
il loro naturai carattere, e gli abiti a che essa parti -
colar natura gli avrebbe condotti, si la natura gene-
ralo degli uomini, tanto la stima generale verso di
essi è maggioro. Voglio dir che la più parte dolle qua-
li iù che negli uomini ottengono stima appo il mondo,
o sono totalmente acquisite e por nulla naturali, anzi
sposso contrarie alla natura lor propria o generale;
ovvoro sono talmente svisato (3184) dal naturale che
per naturali non si ravvisano, e più ohe sono svisate,
più, per l'ordinario, si stimano. Perocché egli è ben
raro che una qualità semplicemente naturale, e tale
qual olla è da natura, sia stimata punto nella società,
e quando pur sialo, questa stima non è né durevole,
né salda, ne generalo, né molta, ed è sempre inferiore
a quella dolio qualità acquisito o snaturate, le quali
ai apprezzano per regola, stabilmente o seriamente,
232
pensieri (3I8+-3I85-318G)
ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare,
per passa tempo, momentaneamente. Quello si stimano
come gravi, sorie e da negozio; queste come lievi, di
poca importanza ed utilità, da semplice trattenimenti)
e da ozio: o la società presto se ne annoia.
Questo genere di persone, eh' è l'unico generali
mento stimato nella società, tiene il mezzo fra duo
generi, non istimato né l'uno né l'altro, ma l'uno
non istimabile, l'altro stimabilissimo e molto più sti-
mabile veramente di quello che il mondo stima. Del
primo genere sono quelle persone, in cui la natura
non La avuto forza bastante per cangiarsi; cioè quelle
che non furono capaci dell'arte, onde, vivendo nella
società, non hanno da lei saputo apprendere, né su di
lei modellarsi e per (3185) poca abilità naturalo hanno
conservata la loro natura, il loro naturai carattere,
gli abiti a cui la natura o propria o generale gl' in-
clinò; sicché vivono o conversano nella società, tali
appresso a poco quali dapprima vi entrarono. Ciò
sono lo persone povere di spirito, di tardo e duro in-
gegno, di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano
a quosto genere coloro in cui la natura si conserva
per mancanza di coltura che la scacci o la tramuti.
Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o ninno
uso sociale, poco o nulla assuefatte alla civile con-
versazione, le quali recano nella società, sempre che
vi si accostano, il loro primitivo carattere, e le natu-
rali abitudini, non mai cangiate da quello cho furono
da principio, non moscolato o accresciute con alcuna
qualità sociale acquisita; e ciò non per durezza d'in-
gegno, né per naturale insufficienza e incapacità di ap-
prendere, ma per mancanza d'insegnamento, di esercizio,
di coltura dell'ingegno e delle maniero. Questo genere
di pèrsone, sia della prima specie sia dolla seconda, non
è punto stimata, né ricercata, (3186) né gradita nella
società, perch' egli conserva la natura, al contrario di
quello persone che ho detto essere apprezzato noi mondo.
(il 88-3 187)
fcl secondo genere l ) sono coloro in cui la natura
^ordinariamente forte, e più potente die nel co-
mune dogli nomini, ha superato o respanto 1' arte *
T le C lasciato luogo da situarsi, non per «tet-
te a e cortezza d'essa natura, ma perche ^ £
bbno amplissima ed estesissima, tutto il lnogo essa
Sosimi irremovibilmente occupo. Ciò sono le per-
le di carattere origin ale, straordinari amente _ vigo-
no, costante, fermo, i quali rigettano le abitudm
contrario alla loro gagliarda natura e al dette carat-
tere, di qualunque genere ei sia; e non soffione di
piegarsi c adattarsi agli altrui costoni, dittine le
altrui inclinazioni, di cangiare o di modificai e , o di
.ascondere e mascherare o finalmente di smentii se
stessi; non animo) Urno né nnnh, ne usanze no gusta,
né occupazioni, né istituti di vita, ne parole ne latti
se non conformi esattamente alla loro primitiva na-
tura ed indolo, e da essa richiesti, cagionati, mossi,
suggeriti. Questi sono (3187) gli nomini ^mtópm
golari o originali; non mai stimati (certo oggidì o
nello nazioni più civili e socievoli, non mai), pei lo
più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre densi.
In questi tali tetto è forza, c per la forzasi conseua
in essi immutabile la natura. Altri pur v' ha del me-
desimo genere, ne' quali avvengaché la natura sia pa-
rimente fortissima e potentissima, contuttocio n me-
scola in essi e nella natura loro ima sorta di debolezza,
e non poca. Ciò sono quello persone di vastissimo,
finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa
capacità od ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si
>) PnA voi,,™ la p. 3431-4 oirea la timidità oha è
sto Becomln «cnoro e <*„> allatto Impedisce «tmmto nella . W lrtà,
««ir..»,» q,«,l„ n qno 3 ti„„. si poto*» «■« computo di un imi id o
prima ,li con„ s «u-{,> Ella * sovente comnno ancl.e "I pr.-no «r-nou n»
Mio con ,,,,,111 ,11 ,:ni hanno wflTMfoW , 1^<">™ ™ T"* » ^
porche ,„,,,« tu» hanno di «o stasi. B1U» 6 »n-^<> «ta
Sai sonoro intermedio, o questo A il «oh. .'ho ne «la «nol.ro «wnto « al
tulin atenro,
2;M pensie ri (3187-3188-3189)
Pedono le cose piccole; per la troppa finezza riescono*
dj&oihssime e impossibili ad apprendersi, a seguirsi
a possedersi le coso grosse: per In troppa alte?!
escono di vista le cose basse. Non già ch'essi sempre
lo sdegnino, anzi bene sposso con somma o intentisi
sima cura le cercano e studiano, ina con gran mera-
viglia loro o dei pochi elio ben li conoscono, non viene
lor fatto di conseguire in quelle cose appena una cen-
tesima parte di quell'abilità e di quel successo ohi?
gl'ingegni mediocri, e talora (3188) piccoli, con molto
minor cura c studio, facilmente o perfettamente con- '
seguono, possiedono o adoprano. Il medesimo eccesso ]
della cura e della contonzion d'animo che quei rari
ingegni pongono a conseguire od esercitare le qualità
sociali, cura e contenzione abituale e familiare in ossi,
e che mai e' non sanno intermettere o rilasciare- il
medesimo eccesso, dico, togliendo loro la possibilità
della disinvoltura, del riposo d'animo, della facilità
deli-abbandono, della sicurezza, della confidenza in ;
se stessi (che a chi suol riflettore sulle cose, e cono-
scerne e investigamo e smentirne e pesarne lo diffi-
coltà, e a chi sempre mira alla perfeziono, e d'al-
tronde sa bene per molte esperienze o solite quanto
olla sia difficile, a questi tali, dico, la confidenza in
se stessi è impossibile); togliendo dunque loro la pos-
sibilità di queste qualità che sono d'indispensabilis- '
sima e primissima necessità per godere nella società e
per piacerle, e generalmente per ottenere collo parole
o coi fatti qualunque successo nel mondo; il dotto ec-
cesso, torno a ripetere, impedisce a quei rari ingegni
di mai, se non imperfettissimamente, conseguire, di
mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adope-
rare od esercitare le (3189) qualità elio nel mondo si
apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benché :.
grandissimi ingegni, benché fecondi di bellissimi, uti-
lissimi, altissimi, nuovissimi pensieri, benché scrittori
sommi in questo o quel genere, o pur letterati o filo-
(3189-3190) PENSIERI 235
m
sofi o privati politici di altissimo valore, benché
d'animo nobilissimi, sensibilissimi, rarissimi, benché
messo capacissimi di dilettar sommamente o di som-
mamente giovare a qualsivoglia società e a qualunque
genero di persone coi loro scritti o colle produzioni
Lalunque dol loro ingegno, lungamente e matnra-
nente. o almeno riposatamente, pensate; anzi, benché
e dette misere qualità siano pur troppo proprissimo
do' singolari ingegni, e tanto più quanto alcun d'essi
più e' innalza sopra il comune, e a proporzione di ciò
più invincibili e costanti; e benché quasi tutti gl'in-
gegni veramente singolari e sommi, massime quelli
che risplendettero o risplendono negli studi delle
scienze, delle lettere o delle arti, fossero e sieno più o
meno partecipi di tali qualità caratteristiche, si può
diro, degli straordinarii e sublimi talenti (vedi fra
l'altre cose il Pseudo-Donato nella Vita dì Virgilio,
(3190) cap. 6, fino, dov'è l'autorità di Melisso Gramma-
tico, liberto di Mecenate, contemporaneo di Virgilio:
Porcellini in Melmus, Fabricius, Blbliotheca Latina,
% 494); contuttociò questi tali nella società, se non da
quelli elio conoscono per altra parte il loro merito, e
ohe conoscendolo sono capaci di apprezzare chi lo pos-
siede, sono generalmente (e non irragionevolmente, pe-
rocché niun diletto e molta noia o fatica reca la loro
conversazione) disprezzati ed evitati, ancor maggior-
mente che quelli dell'altra specie, e confusi dai più
coi primi dol primo genero, ai quali infatti, nell'este-
riore e in ciò che d'essi apparisce, quasi a capello si
rassomigliano. In questo genere si può recar per esem-
pio della prima spocio l' Alfieri, della seconda G. G.
Rousseau. L ) Anche questo genere di persone, benché
') L'abitafline Ai sempre peow» « ' ll *** P" r, » ro > rtl ' ^f . ,u *'
taitn a |mkmi vomir -li Inori ; <« trattone™! on., a» «te*». *•««» ™«-
001,0 o.™,' „„ «oro,,,, di poco agir», pn» conversar ..«Ite coro < e - ,
l»« 0 tratterò per attonite™ «fili «tmli : b]><„h1c.<o bitte .le ano lacci te no
proprio Inter, ... on . tatto r sto coao sortono 1' molvi,!,,,, moapaet «1
236 PEKSIT3HI (3 1 90-3 191-31 921
Stimàbilissimo, non estimato, perocck' ei conserva la
natura, o non è bastantemente mutato dal naturale!
^ Sicché tra quello che non è stimabile e quello
eh' è degno di somma stima, restano solamente sti-
mati quelli che tengono il mezzo, c ciò gli nomini
mediocri e mediocremente (3191) degni. 11 ritrovarsi
per questa via e sotto questo rispetto, siccome per
tutto l'altro vie o per ogni altro riguardo, trionfare
nell'umana conversazione la mediocrità.
Né solamente alla stima del mondo, ma a qua-
lunque altro successo nella società, come al far for-
tuna, all' avanzarsi nel favore o de' principi o de' pri-
vati, e a coso tali si può applicare la triplice distin-
zione e la successiva suddivisione degli uomini da
me fatta fin qui, e troverannosi dovunque gli effetti
corrispondere ai sopra osservati, secondo i generi e le
spezie surriferite (18 r.gosto 1823).
* All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi
delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci re-
cano nogli scritti o nel discorso le parole chiamale
espressivo, cioè quelle che producono in quanto a loro
una idea vivace, o per la vivacità dell'aziono o del
soggetto^ qualunque ch'elle significano (corno spaccare),
o perché vivamente rappresentano all'immaginativa
questa (3192) medesima azione o soggetto, qualunque
portarli bene nejla società quanto m altro dio sia pur .li moli.,, meno ta-
lenta ì perooolé a Ini mano» l'enenrissio dell' oppure, del conversare, del
E* l,I «ef^«Ml»>8 <li coso frivolo, come bisogna bo.) e io dette ano qualità
«1 abitudini positive escludono anche positivamente la capacità di con-
trarre le abitudini e di acquistare le qualità sociali. (Inai la gravite a mi
un tale Individuo fi necessariamente abituato, la serietà, il pigliar lo cobo
par 1 importante, o so non Importano lasciarle, «scindo la possibilità di
acquistar la leggere**», l'abito di dar peso naturalmente allo cose mi-
ni ni e, d. Mheraare, d- Interessarsi eoi) verità per lo bagattelle, di trovar
materia il. discorso dovo anaolUl«tnante non v0 n'ha co. ec, tntte cose ne-
cessarissime In società : pigliar lo cose, le materie anche importanti o serio,
«ai iBtonon benportante e non socio, o trattarlo non seriamente, saperli,
.•lalmcme, scherzevolmente on. co. o come bagattèlle on. ee. e lo profonde
a flor d'acqua, ee. ec.
"87
(3192-3193) PEK8Ute__
u Imouo perch' esse vivamente lo rapprese»"
8iaS \ m 2 vare più vivamente rappresenta l'afono
tin0 con «p. - 1 . vivii ch6 /e?irfet , per
ripuhoaU e d ^to un - ^ ifìcar6 , e lungo
r' farlo o p^ché di un'azione o di un sog-
S^S;- destano però un. viva opre-
gente idea (18 agosto 1823).
10 l"^ 1 »d Ì«a di questi due e di Orazro
che esp— te dltodo-o^ odanoci
farlo. Perocché i nostri pedani ^ per ma-
dotti e degli indotti tengono la lingua g «J l *
dre della latina. Ma hanno a y»^^^
madre della latina, ma sorella, ne p» ne
incese e la spagnola Siene sorelle ^
Ben ò vero che la greca letteratura e (3 «») ^
fu, non sorella, ma propna «d»»**
filosofia latina. Altrettanto per deve accade o a
attingere, pò dre dolla nos tra, peroc-
cose. La quale nev ossei imi"! „;, iml lMi-e
17 , iM-,l>iamo del proprio, stante la singolare
che noi non 1 abbiamo aei } 1 ,
inerzia d'Italia nel secolo m ohe e a
d'Europa seno stute e sono pur attive ohe « ^a
eun' altra. E voler creare di nuovo e di P« J
filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci
manca eh' è la letteratura propriamen te moderna)
oltre che dove sono gl'ingegni da questa
ma quando anche vi fossero, volerla creare ,djpo eh eUa
e creata, e ritrovare dopo trovata eh' eli da pi* che
un .ecolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo à Ausa
e abbracciata e trattata continuamente da tutto
y;l8
■ MWUWj (3I93-3I94-3IB,
mani bambina e s^TSelk^^eS ^ H
crebbero gli stu di noi t„ì , , mtr °dusflero e
«te oggi i„ Itdia nL '' b tr. altri Ì W i .
rinnovSe é iffi, r T Nó P ° rò ossi vollero
e gli altrui ( f I? 01 ' da 1" csti le misero,
e ri eC i r Sbracciarono o coltivarono
de' osCn Hn " 10 ° 1,ÌndoIe doIIa ^ionei
-.-il il non ornarle ibi . e *■••>. 1
»s zi t »*
(3 1 9 5-3 1 96-3 1 9 7 i MuMSIERl JdJ
ài geiik» o di lingua ce. elio l'italiana), e vostitc di
modi, formo, frasi o parolo francesi (da tutta l'Eu-
ropa universalmente accettate, e da buon tempo usato):
dalla Francia, dico, lo verrà la filosofìa e la moderna
letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole
ricevere, noi potrà altrimenti che ricevendo altresì
assai pardo e frasi di là, ad osse intimamente e in-
divisibilmente spettanti e fatte proprie; (3196) sic-
come appunto convenne faro ai latini delle voci e
frasi greche ricevendo la greca letteratura e filosofia;
e il fecero sonza esitare. E noi colla stessa giustifi-
cazione, od anche col vantaggio della stessa facilità
il faremo, essondo la lingua francese .sorella dell' ita-
liana, siccome della latina il fu la greca, e produ-
loendo la filosofìa e la filosofica letteratura francese
una letteratura inodorila ed una filosofìa italiana, sic-
come già la greca nel Lazio. E tanto più saremo for-
tunati degli altri stranieri che dal francese attinsero
voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che
S noi nel francese avremo una lingua sorella, e non,
oom'essi, aliena e di diversissima origine (18 ago-
sto 1823).
*AUa p. 1011, inargine - fine. Aggiungete ancora
che la lingua latina è della italiana madre cono-
sciuta e corta e fuori d'ogni controversia. Non cosi
accade all' altre lingue d' origine diversa. Si saprà
per corto che la lingua tedesca è d'origine teuto-
nica, la svedese d' origine slava, ina quale delle anti-
che lingue teutoniche o schiavone sia madre della te-
desca, e della svedese, non si potrà senza moltissimo
■ controversie, né senza grandi (3197) dubitazioni e in-
certezze, né più che largamente e mal distintamente,
determinare ec. ec, *) (19 agosto 1823).
') Noi saldiamo bone qnal sia e dio cosa aia qneatft lingua latina
' Ire <lnir ihilmia, passini»» ileliuitiinioiite additarla 8 mostrarla tutta
Mera. Ma dir clic la teutonica o la slava o simili A madre della tedesca
l'ENSlUlil
(3197-3198)
* In molti luoghi di questi miei pensieri ho dimo-
strato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze
all' assuefazione, all'esercizio: quanta parte di ciò che
si chiama talento naturale, e diversità o superiorità o
inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assue-
fazione, esercizio ed opera di circostanze non naturali
né necessarie ma accidentali, e diversità di aHsuefazioni
e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e
maggiore o minor favore o disfavore di circostanze
c di accidenti secondarii: la diversità delle quali cose
accresce a dismisura lo piccole differenze e le piccole
superiorità o inferiorità di facoltadi elio si trovano
naturalmente e primi tivamento tra questo e quello
ingegno di questo o quello individuo o nazione, in
questo o quel secolo. Io però non intendo con ciò di
negare che non v'abbiano diversità naturali fra i
vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi carat-
teri degli uomini ; ma solamento afformo e dimostro
che tali diversità assolutamente naturali, innate e
primitive sono molto (3198) minori di quello che altri
ordinariamente pensa. Del resto, che gl'intelletti, gli
spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano
naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con
minuto differenze bensì, ma pur vere ed offettivo e
notabili differenze; e che vario sieno le loro naturali
disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed
ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi
altri, ò cosa, come da tutti e sempre creduta, cosi
vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni, le
quali, o alcune di esse verrò qui sotto segnando per
capi, sommariamente però, ed in modo che sopra cia-
scun capo potrà e dovrà molto più esten dorsi il di-
scorso di quello che io sia per estenderlo.
o della russa ae., r quasi mi .lini in «ri», benché sia rera, nò tinelli pos-
sono dBflnitamente additaroi q nn i„ Indlvldonlmente sia questa lor Ungili
madre, né, se no» confusamente e por laceri avanzi, mostrarcela,
(3 [98-31 99-3200) pensieri
2-11
1°, Notabili sono le differenze che passano tra
l'esteriore figura e conformazione degli uomini, para-
gonando .secolo a socolo; nazione selvaggia o corrotta
o civile 1' una coli' altra; nazioni civili tra loro; cosi
nazioni selvaggie o barbarizzate; clima a clima; fa-
miglia a famiglia; individuo a individuo. Differenze
regolari o irregolari; ordinarie o straordinarie; natu-
rali o accidentali, ma pur (3199) sompro fisiche; mo-
struosità oc. .La differenza delle lingue dimostra una
vera differenza negli organi corporali della favella
tra' vari popoli parlanti; differenza cagionata o dal
clima o da qualsivoglia altra cagiono naturalo, indi-
pondento però certo dall'assuefazione nell'essenziale
e generalo e costante che in essa differènza si trova.
Negli altri vari organi ostoriori dell' uomo si trovano
eziandio molto notabili differenze naturali tra uomo
o uomo, clima e clima, naziono e naziono, individuo
o individuo; differenze di disposizione, cioè disposi-
zione a maggiore o minor numero di abilità, a tali
o tali abilità piuttosto che ad altre, o disposizione
maggioro o minoro; più o meno scioltezza e spedi-
tezza o sveltezza fisica, secondo le qualità naturali
de' muscoli e de' nervi che a quel tale organo ap-
partengono. Se 1' esteriore adunquo dogli uomini
differisco notabilmente per natura nell'uno nomo
paragonato coli' altro, è bon ragionevole che si creda
notabilmente differirò anche la naturale conforma-
zione dell'interiore ne'divorsi uomini ; quando non si
può volgere in dubbio la manifesta analogia e per-
fetta corrispondenza (3200) che passa tra l'esterno e
interno dell'uomo sotto qualunque rispetto. E nel
particeli re dell' ingegno, la divorsa conformaziono
estorioro del capo ne'divorsi individui e nazioni, la
quale è visibile o non si può nogaro, dimostra chia-
ramente una diversa conformazione di ciò che nel
ca l»o si contiene, noi elio risiedo l'ingegno; onde
Vltì 'w a esser provato che. tra gli nomini v'hadiffo-
Lkopaudi. - Panieri, V. 10
242
PENSIERI
(3200-3201)
ronza naturale d'ingegno. E infatti è quasi dimostrato
che la fronte spaziosa significa grande e capace in-
gegno naturale, e per lo contrario Li fronte angusta;
e cosi lo altre differenze esteriori del capo osservate
dai craniologi; le osservazioni de' quali se non sono
tutto vere, non lasciano di provaro generalmente una
differenza naturale di spirito e d' indolo ne' diversi
uomini ; nel giudizio delle quali differenze se coloro
spesse volto s'ingannano, ciò nasce porch'ei non guar-
dano che il fisico; ma l'assuefazione e le circostanze
talora accrescono, talora cancellano, talora volgono
affatto in contrario lo differenze dello disposizioni
naturali; delle quali sole possono pronunziare i cra-
niologi, non do' loro effetti, che da troppo altro
cause (3201) sono infiniti, e spesso riescono contrarli
ad esse disposizioni. E vedi a questo proposito il fatto
di Zópiro e Socrate, ap. Cic, Tose, lib. IV, cap. 37.
Qua pur si dove riferire la diversità delle fisonomie.
dogli ocohi, che tanto esprimono e dimostrano del-
l' animo e dell' ingegno, o 1' arte de' fisionomi.
2°, Differenze generali, regolari e costanti si
trovano fra i caratteri, i talenti, le disposizioni spiri-
tuali dello diverso nazioni, massimo secondo i diversi
climi. Quelle d'ingegno grossissimo, come i lapponi,
questo d'acutissimo, come gli orientali; altro pigre,
altre attivo; altre coraggioso, altre timide; in altre
provalo l'immaginazione, in altre la ragione, e ciò in
altre più, in altre mono; altre riescono e riuscirono
sempre eccellenti in una parte, altro in altra oc. ec".,
e tutto questo costantemente. Non si può negare che i
principii o lo fondamenta di tali differenze non siono
naturali, e quindi non si può negare che non v'abbia
una vera primitiva differenza d'indole o d'ingegno
tra nazione e nazione, clima e clima, come v'ha roale,
visibile, naturalo o, generalmente parlando, costante
differenza di esteriore, di fisonomia ec. tra nazioni e
climi, selvaggi o civili ec. ec. Dunquo proporzionata-
(320 1-3202-3203) pensieri
243
mente (3202) ò da dire che anche tra individuo e
individuo di una stesati o di diverse nazioni esiste
dalla nascita una reale differenza d'indole o di ta-
lento, o vogliamo diro un principio e ima disposizione
:4i differenza, che ad idem, redit.
8°, Lasciando da parte il tanto che si potrebbe
dire sull'influsso fisico, ossia sulla naturale aziono
del corpo e de' sensi, e quindi degli oggetti esteriori,
sull'animo indipendentemente dall'assuefazione, ne
toccheremo solamente alcune coso che più fanno al
proposito. Ho udito di uno abitualmente scempio o
tardissimo d'ingegno, che, caduto di grande altezza, e
percosso pericolosamente il capo, divenne, guarito ohe
fn, d'ingegno prontissimo e furbissimo, o questi an-
cora vivo. Ho udito d'altri molto ingegnosi, per si-
mile accidente divenuti stupidi e sciocchi. Lasciando
questo, egli è certissimo cho la malattia del corpo (o
cosi la sanità) influisce grandissimamente sull'inge-
gno e sull'indole. Tacendo dello minori influenzo, che
tutto giorno si osservano, si può notare quello che
narra il Oalnso nella lettera appiè della Vita di Al-
fiori, circa i versi d'Esiodo, da Ini una (3203) sola
volta letti, eli' oi recitava francamente nella sua ul-
tima malattia. E mi fu raccontato da testimoni! di
udito del maraviglioso spirito, dogli aleutissimi motti
e risposte, di ima prontezza affatto straordinaria di
mento e di lingua, di una prodigiosa facilità, fecon-
diti'! e copia d'invenzioni che si fece osservare in un
vecchio cardinale (Eiganti) (non molto usato a face-
zìe, né di molto spirito, e di carattere ben diverso
dalla energia e rapidità e mobilità) dopo poco essere
stato còlto da una apoplessia (della quale infermità
rimase impedito nolle membra, o mori parecchi mesi
appi-osso), o stando in lotto. Esempio di Ermogene e
do' «noi simili elio puoi vedere nella Dissertazione, del
Cancoll lori sugli Smemorati oc. Corrispondenza che,
geuerabiionto parlando, si osserva tra gl' ingegni e i
244 raNSrjsm (3203-3204-3205)
caratteri degli uomini por una parte, e le rispettive
complessioni dall'altra. Pazzi e frenetici; febbricitanti,
deliranti. La malattia, cambia talora, eoin' è detto,
l'ingegno o il carattere, o per sempre o per momenti
o per più o men tempo: ciò massimamente quando
ella interessa in particolare il cerebro. Il quale, se può
essere notabilissimamente diversificato dallo malattio
e dalle varie circostanze e accidenti che accadono du-
rante (3204) la vita a uno stesso uomo, non si può
non credere e giudicare ohe la tanta e inesauribile di-
versità dello circostanze e degli accidenti che concor-
rono nolla generazione de' vari individui, non diver-
sifichi, siccome le loro, complessioni, e questa o quella
parto del corpo, cosi eziandio quella in che risiede
l'ingegno e l'animo, cioè il cerebro, o quindi il ta-
lento e l'indole nativa e primitiva de' vari individui,
nazioni oc.
4°, L'uomo, ancheindipendentemente affatto dalle
assuefazioni, ossia in parità di studi, di esercizi, di
scienza, di pratica ec, si trova, per cosi dir, vario
d'indole e di talento da se medesimo ancora, non solo
dentro la vita, ma dentro la stessa giornata eziandio.
Oggi il mio ingegno sarà svegliatissimo, la mia in-
dole piacevolissima, domani tutto l'opposto, senz' al-
cuna cagiono moralo né apparento, ma certo non sonza
cagioni fisiche, lo quali diversamente affettando l'ani-
mo, lo tramutano effottivamonte d'ora in ora, di giorno
in giorno, di stagione in istagione (fu chi disse ch'ei si
trovava pili atto a comporro nel sommo caldo o nel
sommo freddo cho nello medie temperature dell'anno;
la (3205) mattina che la sera oc.) ec. ec. e lo ritor-
nano nello stato di prima, ed ora lo rendono atto a
una cosa, ora a un'altra, ora a più cose, ora a meno,
ora più, ora meno atto ec. ec. Le diverso circostanze
fisiche cho evidentemente influiscono, cambiano, re-
cano, tolgono, accrescono, scemano, diversificano ec. ec.
Iti passioni o inclinazioni in uno stesso individuo, in
PENSIERI
2<ir>
Riversi individui, in vario nazioni o climi o tempi ec,
Iidipondent.emento affatto e dalla volontà e dall'aBsae-
fazione; non tante e, si vario che infinito sarebbe il
volerlo onnmerarc e descriverò, coi loro (evidentis-
simi o incontrastabili) effetti.
5», Spessissimo l'indegno è svogliato da cause
fisioho manifeste od apparenti, corno un snono dolco
0 penetrante, gli odori, il tabacco, il vino oc., 1 ) o quel
che dico dell'ingegno dicasi dello passioni, de' sen-
timenti, dell' indolo ec; e quel cho dico dolio svogliare,
dicasi dol sopire, dol muoverò, doli' affettare, modifi-
care C ome ohe sia, dell'accrescere, dolio sminuire, del
produrrò, dol distruggere o per sempre o por certo
tempo oc. Tutti questi effetti noi casi qui considerati
non -hanno a far coli' assuefazione, e dimostrano per
conseguenza che lo sjririto doli' uomo (3206) può es-
ser modificato e diversamente conformato da cause,
circostanze o accidenti tisici diversi dalle assuefa-
zioni. Cosi, per esempio, la luce è naturalmente ca-
giono di allegria, siccome il suono e le tenebro di
malinconia; quella eccita sovente l' immaginazione od
ispira; questo la deprimono ec. Un luogo, un appar-
tamento, un clima chiaro e sereno, o torbido o fosco,
influiscono sulla immaginativa, sull'ingegno, siili' in-
dolo dogli abitanti, sicno individui o popoli, indipen-
dentemente dall'assuefazione. Cosi una stagione, una
giornata, un' ora nuvolosa o serena ; il trovarsi per più
o men tempo in un luogo qualunque oscuro o luminoso,
senza però abitarvi, tutte queste circostanze fisiche,
indipendenti dall' a ssuo fazione e dallo circostanze mo-
rali, affettano, quali momentaneamente, quali durevol-
mente, lo spirito dell' nomo, e variamento lo dispon-
gono , o ne producono le assuefazioni e le differenze
di queste ec. ec. ec. (19 agosto 1823). Vedi p. 3344.
* Dimostrato che nelP idea dol bollo non conven-
') Tetìi p. 33SE, fine.
pensieri (32Q6-3207-3208Ì
gono né gli uomini naturali fra loro, né gli spiriti
incorrotti e «empiici corno quelli de' fanciulli, e quindi
ch'essa idoa non si trova una in natura; e olio d' al-
tronde gli uomini cólti, savi, esercitati, profondi; (3207)
gli artisti medesimi e i pooti ec. disconvengono circa
il bollo, ed anche in coso essenziali, più. o meno, so-
condo la differenza delle nazioni, climi, opinioni,' as-
suefazioni, costumi, generi di vita, secoli; disconven-
gono, dico, eziandio bene sposso dove credono di
convenire (perocché tra loro non s'intendono); discon-
vengono tra loro . o dai fanciulli e dagli uomini o
naturali o ignoranti; e che tali difforenzo circa l'idea
del bello si trovano fra individuo e individuo in una
stessa nazione, si trovano in un medesimo individuo
m diverse otà e circostanze, si trovano, e costante-
mente, fra nazione e naziono, clima e clima, socolo e
sooolo, civili o non civili; si trovano fra barbarie
barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti, selvaggi
e selvaggi, cólti e cólti, più e men barbari, più 0 men
civili, fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti
e intendenti, artisti ed artisti, speculatori e specula-
tori, filosoli e filosofi; dimostrato, dico, tutto questo,
come ho già fatto in molti luoghi, viene a esser pro-
vato che il bello ideale, unico, eterno, immutabile,
universale è una chimera, poiché né la natura l' inse-
gna o lo mostra, né i filosofi 0 gli artisti l' hanno mai
scoperto o lo scuoprono, a forza di osservazioni (3208)
o di cognizioni, come si sono scoperte e si scuoprono
le altre idee stabili e invariabili appartenenti allo
scienze del vero oc. ec. (20 agosto 1823).
* Ohe quello che nella musica è molodia, cioè l'ar-
monia successiva do' tuoni, o vogliamo dire l'armonia
nella successione de' tuoni, sia determinata, come qual-
sivoglia altra armonia, ovver convenienza, dall' assue-
fazione o da loggi arbitrarie; ossorvisi oho le melodie
musicali non dilettano i non intendenti, so non quanto
3208-3203-32 10) pbhbibiu
217
la successione o successiva collegazione do' tuoni in
esso è tale clic il nostro orecchio vi sia assuefatto;
cioè in quanto esse melodie o sono dol tutto popolari,
sicché il popolo, udendone il principio, ne indovina il
mezzo o il line o tutto l'andamento, o s'accostano al
popolare, o hanno alcuna parte popolare o che al popo-
lare si accosti. Né altro è nello melodie musicali il
popolare, se non so una successione di tuoni alla quale
gli orecchi del popolo, o degli uditori genoralmente,
siano per qualche modo assuefatti. E non per altra
cagione riosco univorsalmente grata la musica di Ros-
sini, se non perché (3209) le suo melodie o sono to-
talmente popolari e rubato, per cosi dire, allo bocche
del popolo; o più di quelle degli altri compositori si
accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo
generalinento conosce ed alle quali osso è assuefatto,
cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili
ovver più simili che dagli altri compositori non s'usa,
al popolare. E siccome le assuefazioni del popolo e
dei non intendenti di musica, circa le varie succes-
sioni de' tuoni non hanno regola determinata e sono
diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che
tali melodie popolari o simili al popolare altrove piac-
ciano più, altrovo meno, ad altri più, ad altri meno,
secondo eh' elle agli uditori riescono o troppo note e
usifato; o troppo poco; o quanto conviene, colla com-
petente novità elio lasci però luogo all' assuefazione di
far sentire in quollo successioni di tuoni la melodia,
la qual dall'assuefazione degli orecchi è determinata.
Onde una medesima melodia musicalo piacerà più ad
uno che ad altro individuo, più in (32 1 0) una che in
altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà
al popolo o non agi' intendenti, e trasportata in tran-
cia o in Germania non piacerà punto ad alcuno, o
piacerà agi' intendenti e non al popolo ; secondo che
le assuefazioni di ciascheduno orecchio circa le suc-
cessioni de' tuoni saranno pili o meno o nulla conformi
I'Ensieri (3210-3211-3212)
o affini agli clementi o membri ( v .é\r.) che comporranno
essa metodi», ovvero a quello che si chiama il motivo
E di qui, o non d'altronde, nasce la divorai ti.
de gusti musicali no' diversi popoli. Dico ne' popoli, e
non dico negl'intendenti, i quali avendo tutti un'arte
uniforme, distinta in regole, universalmente abbrac-
ciata e riconosciuta, co 1 suoi principii fissi e invaria-
bili e universali, siccome quelli di qualsivoglia altra
scienza che tale è in Italia quale in Polonia, in Por-
togallo, in Isvezia; nel giudicare di una melodia mu-
sicalo non mirano all'orecchio, ma alle regole o a' prin-
cipii eh' essi hanno nella loro arte o scienza, cioè nel
contrappunto; ed essendo esse regolo e principii dap-
pertutto gli stossi e dappertutto ugualmente ricono-
sciuti, i giudizi che i diversi intendenti pronunziano
non possono grandemente (3211) disconvenire gli uni
dagli altri, e tanto meno quanto essi più sono inten-
denti. Ma non cosi do' popoli e de' non intendenti, i
quali non hanno altra regola e canone che l'orecchio, e
questo non ha altri principii che le sue proprie assuefa-
zioni, o non già alcuni dettati o infusi universalmente
dalla natura, come si crede. E però le nostre inelodie
non paiono pur melodie a' turchi, a cinesi né ad altri
barbari, o diversamonte da noi, civili. Che se questi
pure alcuna volta se ne dilettano, il diletto non nasce
m loro dalla melodia, cioè dal senso della successiva ar-
monia de' tuoni, la qua lo essi non sentono né compren-
dono, posto pur eh' ella frisse tra noi l' una delle più
popolari; ma nasce da puri suoni per se, e dalla deli-
catezza, facilità, rapidità, volubilità del loro succe-
dersi, moscolarsi, alternarsi (sia nella voco o in istru-
menti), dalla dolcozza delle voci o degl'istrumenti,
dal sonoro, dal penetrante e da simili qualità de'me-
desimi, dalla soavità eziandio do' rapporti rispettivi
d'un tuono coll'altro in quanto alla facilità e alla de-
licatezza del passaggio da questo a quello (laddove i
passaggi nello (3212) musiche do' barbari sono aspris-
(3212-3213) 'vw ajàm' _ ^ 9
«imi perdio fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o
T conio a cordo troppo distanti), c insomma da cento
Salita (por cosi diro estrinseche) della nostra mu-
£ che nulla hanno a faro colla rispettiva scambie-
volo' armonia o convenienza do' tuoni nella or suc-
cessione, cioè colla melodia o col senso e gusto della
Medesima, che né i turchi né gli altn barba* ude^
la nostra musica, non provano punto mai La ^ al
cosa appunto, salva però la proporzione, accade ai non
S to,d,iri di musical popolo fra noi,
odono, come tutto di avviene da quelle
nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto
ne provano se non quello, per cosi dare estrinseco
che disopra ho descritto, e che nasce dalle qualità
della musica, diverse e «dipendenti dall'armonia
de' tuoni nella successione. Di queste non popola i
melodie, che sono la più gran parte della nostra mu-
sica, parlerò poco sotto. E per conchiudere il discolo
do' barbari e delle nazioni che hanno circa la musica
ideo o gusti e sentimenti affatto diversi da nos n,
dico che in ossi, siccome (3213) fra noi, le assuela-
zioni determinano quali siono le successivo co lega-
zioni de' tuoni che siono tenuto por melodie, e le as-
suefazioni cagionano, siccome fra noi, il Beo» e il
piacere d'esse melodie, quando olle sono udite. E que-
sto, se in essi popoli non v'ha teoria musicale ac-
cade a tutta la nazione. Se alcun d' essi popoli ha
teoria musicale, come l'hanno i cinesi, diversa però
dalla nostra, gl'intendenti fra loro hanno altra ca-
giono che determina il loro giudizio e produco m loie
il diletto circa lo melodie; e questa cagiono si e, come
nei nostri intendenti, la conformità di quelle cotali
successioni de' tuoni co' principi! e i canoni della loro
teoria o arte o scienza musicale, i quali principi! e
canoni essendo diversi da' nostri, diverso eziandio
dev'essere il giudizio di quegl' intendenti circa lo va-
rie, o nazionali o forestiere, melodie, da quello de no-
250
_ i'ems ibiu^ (32 1 3-32 14-32 Ifiì
sferi, e diverso similmente ,1 piacere. E cosi è infatti
nella Gina , dove o il popolo (che dappertutto do
stesso modo) e gl'intendenti (il che non potrebbe avi
venire ne le nazioni barbare che non hanno teoria
musicale (3214) Sufficientemente distinta per pr S
m o regole e ordinata e compiuta, come l'hanno 1
cinesi), giudicarono espressamente più bella la loro
musica che l'europea, la quale i nostri, favoriti in
ciò espressamente da un loro imperatore, volevano
mtrodurvi, insieme colle nostre teorie, li ciò furono
so ben mi ricorda, i Gesuiti. '
Ho eletto in principio che la melodia nella mu-
sica non è determinata se non dall'assuefazione o da
leggi arbitrane. Delle melodie determinate dall'assmS
su™' 6 P ° r - 10 '" 0110 mel0die ' P erohó tali
successioni di tuoni convengono con quelle cho di
orecchi sono assuefatti a udire, ho discorso fin qui.
Le melodie determinate da leggi arbitrarie sono
quelle che il popolo e i non intendenti non gustano
«a non se nel modo specificato di sopra, senza* né o-
noscere ne sentire ch'elle sieno melodie, cioè che quei
non, oo^ succedendosi e intrecciandosi o alternandosi,
a mcn mmo C100 conve ngano, tra loro; quelle che pel
popolo e per li non intendenti non sono infatti melo-
dio, ma solo per gì' intendenti quello che gì' intendenti
.oh gustano in vn-tù del giudizio, qualisono infiniti altri
diletti umani (vedi Montesquieu, Essai sur le goùt. De
tesew «bzhté^. 892), massime nelle arti; quelle che non
1*215) sono melodie se non perché ed in quanto oor-
r . pendono alle regolo circa la successiva eombina-
2!f A T h Conse ^ at6 ™ ™a scienza o arte, non
dettata dalla natura ma dalla matematica, universale
sono mC ^° ric0n08ci uta * Europa, come lo
sono tutte lo altre arti e scienze in questa parte del
mondo legata ausieme dal commercio o da una modo-
«ima civiltà eh- ella stessa si è fabbricata e comuni-
vr^- —
(32 [ 5 -32 I G 32 1 7 ■ rEMsmui . 251
Lta di nazismo a nazione, ma non riconosciuta fuori
d'Europa né dallo nazioni non civili, né da quelle elio
hanno un' altra civiltà da osse fabbricata o d'altronde
venut i; final ù sopra tutte la nazion cinese, la quale
0 d ha una scionza musicale e in essa non conviene
plinto con noi. Ho dotto che la nostra scienza o arte
musicalo fu dottata dalla matematica. Doveva dire
costruita. Essa scienza non nacque dalla natura, né
in essa ha il suo fondamento, come lo piò dell'altre;
ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che
alla natura somiglia o supplisce e quasi equivale, in
quello eh' è giustamente chiamato seconda natura, ma
che altrettanto a torto quanto (3216) facilmente e
sposso ò confuso e scambiato, come nel caso nostro,
colla natura medesima, voglio dire noli' assuef aziono.
Lo antiche assuefazioni de' greci (per non rimontar
più addietro, che nulla rileva al proposito) furono
l'origine o il fondamento della scienza musicale
da' greci determinata, fabbricata, e a noi no' libri e
nell'uso tramandata, dalla qual greca scienza viene
per commi consenso o confessione la nostra ouropoa,
che non è se non se una continuaziono, accrescimento
e perfeziono di quolla, siccome tanto altre e scienze ed
arti (anzi quasi tutto le nostre) che la moderna Eu-
ropa ricevè dall'antica Grecia o perfezionò, e a molto
cangiò faccia a poco a poco del tutto. La greca mu-
sica popolare, le ragioni della quale non altrove erano
che nell'assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia
musica popolare), fu l'origine, il fondamento o per cosi
dir l' anima, e l' ossatura dolla musica greca scientifica,
e quindi altresì della nostra, elio di là vieno. Ma sic-
come accado a tutte le arti ch'elio eoi crescere, col
perfezionarsi, col maggiormente determinarsi, si di-
lungano a poco a poco da ciò che fu loro origine, fon-
damento, subbietto primitivo o ragione, o fosse la
natura (3217) o 1' assuefazione o altro, e talvolta giun-
gono Uno a perderlo affatto di vista, ed esser fonda-
l'ENSiEiu (3217-3218)
mento o ragiono a se stesso, il die ó intervenuto in
buona parte alla poetica, intervenne ancora all'arte
musica. ') Quindi è che spessissimo sia giudicato
buono ed ottimo dàgl 1 intendonti, e perciò piaccia
loro sommamente, e elio sia melodia per essi, quollo
che dal popolo e da' non intendenti ò giudicato o me-
diocre o cattivo, elio poco o uhm effetto produce in ossi,
ohe poco o nulla gli diletta, che per essi non è assolu-
tamelo molodia: sebbene ei lodano sovente ed am-
mirano cotali composizioni di tuoni, o in vista dolio
qualità indipendenti dall' armonizzare della loro com-
binazione successiva, che di sopra ho descritto, o mossi
dalla fama del compositore o dalla voce degl'inten-
denti o dal favore o dal dilotto altro volte ricevuto
nelle composizioni del medesimo o dalla coscienza
della propria ignoranza o dalla maraviglia delle dif-
ficoltà o stranezze che in tali composizioni ravvisano
o dalla stossa novità, benché per essi nulla dilette-
vole musicalmente, o in fine da cento altre cause
estrinseche e accidentali, o diverse e indipendenti dal
dilotto che nasce dal senso della molodia, cioè della
convenienza scambievole de' tuoni nel succedersi (32 1 8)
l'uno all'altro. E per lo contrario interviene spessis-
simo che quelle successioni de' tuoni, lo quali per il
popolo sono squisitissime, carissimo, bellissimo, spic-
catissime e dilettosissimo melodie, non ardisco diro non
piacciano agli orecchi degl'intendenti, ma con tutto ciò
dispiacciano al loro giudizio.e ne sieno riprovate, tanto
che por ossi talora non sieno neppur melodie quelle che
per tutti gli orecchi e por li loro altresì' sono melodie
l
) MfcggJormente sconvenevole- por» ai è questo nella musica elio
nella poesia. Perócohé la solente musicalo, in ordino alla musica, odi pili
bosso e lieti pia lontano rango, cho non è la poetica in ordine alla potai».
Il contrappunto è ni musico qnol ohe al poeta la grammatica. La musica
non ha un'urto clic risponda a quel oh' è 1» poetica alla poesia, la retto-
rie» air oratoria, Jlen potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ri-
durre n prlnoipii o regole le cagioni degli effetti morali della musica o
061 diletto che da lol deriva, o i mera! di produrli eo.
(3 21 B-32 19-3220) ^jmmu__
■Lintisaime evidentissimo, notabilissime o giocondis-
fe l c e , ,mò vedere in fatto nel giudizio degl'i*-
Kn ito" ìl comporr, di Bobini, e gencralmen te
Era il modo della moderna composizione, la qua e
I tut i " sentita esser piena di melodia molte più
| e e antiche e classiche e da chiunque sa e giudi-
ca non resero in grammatica ed essere scorretUs-
£x e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se
non perché gl'intendenti giudicano, e
tono (cioè col fattizio, ma reale sensorio dell mtcl
tto e della memoria), secondo i principii e le norme
Illa loro scienza; e i non fendenti sentono e sen-
tendo giudicano secondo le loro assuefazioni relatne
al proposito. Le quali assuefazioni segue e si pio
Ione (32.9) o loro si accosta il moderno modo d
comporre, assai più che 1' antico, ignorando o t ascn
rande più o manco i canoni dell'arte, di che gli antichi
furono peritissimi e religiosissimi ^servaton.
Con queste considerazioni s'intenderà
I perché nelle melodie sia, come si dice, difficili* in >a
e rarissima la novità, cioè solo difficilissimamente e
di rado possa il musico trovare nuove melodie il
che' mirabilmente conferma le mie osservazioni, le-,
rocche veramente il disporre in nuove maniere ,
scambievole successione do' tuoni secondo le i egole
dell'arte musicale, non è punto difficile, essendo in-
finite le diversità di combinazioni successive sia Qi
tuoni sia di corde (cioè generalmente di notè) a cu esso
regole danno luogo. Ma limitatissimo e poche e non
più assolutamente che tante, sono le assuefazioni
de' nostri orecchi; ond'è che pochissime nono, quelle
combinazioni successive di tuoni (dico pochissime ri-
spetto all'immenso numero d'esse combinazioni asso-
lutamente considerate) che possano parer melodie
all' universale, o al più di una nazione o secolo, e
produrre in osso il dilotto ohe nasce dal senso della
melodia. Ed infatti nuove melodie, (3220) che tali
L
^ wwBimtt^ (3220-322 1 )
siono per gl'intendenti e ri 8 petto~dl^~ n ^ s ~~ 0
m venta punto rare, né difficili a invento™ a ói
esse N rompono la massima parte di qualsClt
opera musicale, non solo antica e classica, ma SS
te» Udini eziandio, benché lo moderne Ttalil
ab biano, come ho detto, più melodia popolare oh
antiche e straniere; cioè maggiormente seguano e
assuefai de' nostri orecchi, ed un più gran nun e o
delle Joro melodie contraffacciano o imitino, o in 3
0 -1 -tivo somiglino le sueèes!
Mon di tuoni e noto, a cui sono assuefatti generai
mente gli uditori. E in verità S e non fosse la memoria,
che anche involontariamente e inavvertitamente su-
bentra a pigkar parte nella composizione, più diffi-
do sarebbe forse al compositore l'abbattersi a trovar
melodie non popolari già da altri trovato ohe non il
trovarne (ielle nuove, conformi alle regolo musicali.
berto è che la principale, anzi la vera arto de-
gi inventori di musica, e il vero, proprio, musicalo e
grand* ^effetto do le loro invenzioni, allora solo 8
manifesta ed ha luogo quando lo loro melodie son «
,in™ 1 + P ° P ° fralmente tutti gli uditori ne
s ono colpiti e maravigliati come di (3221) melodia
nuova, e nel tempo medesime, per essere in verità
assuefatti a quelle tali successioni di tuoni, sentano
al primo tratto eh' ella è melodia. Il qua! effetto,
proprio, anzi solo proprio della vera musica, e solo
grande, solo vivo, solo universale, non altrimenti si
ottiene che coli 'adornare, abbellire, giudiziosamente e
o al debito segno variare, nobilitare, per dir cosi,
mutamente fra loro congiungere e disporre, presen-
a, e sotto 1Jn nuovo aspetto le melodie assolutamente e
termalmente popolari, e tolto dal volgo, e le vario
™ 7 , m0 dÌ succossioni di °ote, che gli orecchi
generalmente conoscono, e vi sono assuefatti. Non
alternanti che il poeta, l'arto del quale non consisto
già prinoip-alntente noli' inventar cose affatto ignote
(3221-3222-3223) pensieri 2y5
e strane e a tutti inaudito, o nello sceglier lo cose
meno divulgate, anzi ciò facondo egli piuttosto pecca
e perde e toglie all'effetto della poesia, di quel che
gli aggiunga; ma l'arto sua è di scegliere tra lo coso
noto lo più belle, nuovamente e armoniosamente, cioè
fra loro eonvonieutonicnto, disporre (3222) lo coso
divulgato e adattate alla capacità doi più, nuovamente
vestirlo, adornarlo, abbellirle coli' armonia del verso,
collo metafore, con ogni altro splendore dello stile,
dar lume e nobiltà alle cose oscure od ignobili, no-
vità allo comuni; cambiar aspetto, quasi per magico
incanto, a elio che sia che gli venga alle mani; pigliare
vorbigrazia i personaggi dalla natura, e farli natural-
mente parlare, e nondimeno in modo che il lettore, ri-
conoscendo in quel linguaggio il linguaggio ch'egli è
solito di sentire dallo simili persone nello simili circo-
stanze, lo trovi pur noi medesimo tempo nuovo e più
bello, senz'alcuna comparazione, dell'ordinario per gli '
adornamenti poetici, e il nuovo stile, o insomma la
nuova forma e il nuovo corpo di eh' egli è vestito.
Talo è l'officio del poeta e tale ne più. né mono del
musico. Ma siccome la poesia bone spesso, lasciata
la natura, si rivolse per amore di novità e per isfog-
gio di fantasia e di facoltà creatrice a sue proprio
e stravaganti e inaudito invenzioni, e mirò più alle
regolo e a' principii che l'erano stati assegnati, di
quollo che al suo fondamento ed anima, eh' ò (3223)
la natura; anzi lasciata affatto questa, elio aveva ad
essere l' unico suo modello, non altro modello ri-
conobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su
d'osso modollo gittò mille assurde e mostruoso o mi-
sere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo,
ch'è il sopraddetto, sommamente stravolse e perde, o
por una o per altra parte, di quell'effetto elio a loi pro-
priamente ed essonzialmente si convenia di produrre
0 di procuraro; cosi l'arto musica, nata por abbellirò,
innovare decontomcnto e variaro o por tal modo mol-
25 G FEHSOta (3223-3224-3225)
fcìplicare; ordinare, regolare. Biinmetri zzare o proporl
zionaro, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le
melodie popolari e generalmente note e a tutti g]$
orecchi domestiche; com'ella ebbe assai regolo e prinl
cipii, e d'altronde s'invaghì soverchiamente della noi
vità e dell'ambiziosa creazione o invenzione, non
mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in
mano lo melodie popolari por su di esse esercitarsi e
farne sua materia, corno doveva per proprio istituto;
si rivolse alle sue regole, e su questo modello, sen-
z altro, gittò le sue composizioni (3224) nuove vera-
mente e strano; con elio ella venne a perdere quel-J
l'effetto che a lei essonzialmente appartiene, ch'ella
doveva proporsi per suo proprio fine, e eh' ella da
principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando
coi debiti o appropriati mozzi lo procurava.
Perocché io non dubito che i mirabili effetti
Òhe si leggono aver prodotto la musica e le melodie
greche si ne' popoli, ossia in intori uditorii, si negli
eserciti, siccome quelle di Tirteo, si ne' privati, come
in Alessandro; effetti tanto superiori a quelli che
P odierna musica non solo produca, ma sombri pure,
assolutamente parlando, capace di mai poter produrre;
effetti che necessitavano i magistrati, i govorni, i le-
gislatori a pigliar provvidenze o fare regolamenti
e quando ordini, quando divieti, intorno alla musica,
come a cosa di Stato (vedi il Viaggio cTAwicarsi,
cap. 27, trattenimento secondo) (e parlo qui degli ef-
fetti della musica greca che si leggono nello storio e
avvonuto fra' greci civili, non di que' che s' hanno
nello favolo, accaduti a'tompi salvaticln), non (3225)
dubito, dico, che questi effetti, e la superiorità della
greca musica sulla moderna, che pur quanto a' prin-
cipi! ed alle regolo, dalla greca deriva, non venga
da questo, ch'essendo fra' greci l'arte musicalo, seb-
bene adulta, pur tuttavia ancora scarsa, non offriva
ancora abbastanza al compositore da coniare o invon-
(3225-3226-3227) PKNHllilil _ 257
tar di pianta nuovo melodie che niun'altra ragione aves-
sero di essor tali se non le regole sole dell'arte; né da
poter git.ta.nie sopru questo regole unicamente, o riopra
lo formo e melodie musicali da altri inventata di pianta,
delle anali non poteva ancora avervi cosi gran copia,
corno ve n'ha tra' inodorili. Ma quel eli' è prò, l'arte,
Bebben cominciò anche tra' greci a corrompersi e de-
clinare da' suoi principi i o da' suoi proprii obbietti
o fini e instituti, anzi molto avanzò nella corruzione
(vedi Viaggio # Allocarsi, Le.), non giunso tuttavia di
gran lunga ad allontanarsi tanto come tra noi, e cosi
decisamente e costantemente, dalla sua prima ori-
gino, dal primo fondamento e ragione delle sue re-
golo, dalla prima matoria dolle suo composizioni, cioè
le popolari melodie; né a dimenticare, (3226) come
oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e
proprio fino, cioè di dilettare e muovere l'universale
degli uditori od il popolo; nó, molto meno, giunse a
rinunziar quasi interamente e formalmente a questo
fino e scambiarlo apertamente in quello di dilettare
o maravigliare o costringere a lodare e applaudirò
una sola e sempre scarsissima classo di persone, cioè
quella degl'intendenti: il quale per verità è il fine clic
realmente si propone la musica tedesca, inutilo a tutti
fuori che agl'intendenti, e non già superficiali, ma
ben profondi. Non fu cosi la musica groca. E in quosto
ravvicinamento della modorna musica al popolare, rav-
vicinamento cosi biasimato dagl'intendenti, e che sarà
forse cattivo per il modo, ma in quanto ravvicina-
mento al popolare è non solo buono, ma necessario, e
primo debito della moderna musica; in quosto ravvi-
cinamento, dico, vediamo quanto l'effetto della musica
abbia guadagnato e in estensione, cioè nella univer-
salità, o in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche
talor maggior commovimento dogli animi. (3227) Che
so in ninna parte, a meno in quest'ultima, gli effetti
della modorna musica sono per anche paragonabili a
Lkuimuuji. — i'ensieii, V, 17
~ __^»R^ _ (3227-3228)
quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che
luomo oggidì è disposto in modo da no, lasciarsi \ a j
6mente r° V6re a — a F"*»; -aTo
gamento a questa generale disposizione, neanche ì«
S e E a a ZÌ Ut r ate P ° POlarÌ d '°^ di ™ tal^
di tal natura elio possano facilmente ricevere dal
composi ore una forma da produrre in veruno animo un
Pia che tanto effetto; e che in ultimo i compositoi- non
colgono né quelle melodie popolari o part/di es ehi
loglio ■ adatterebbero alla forza e profondità doll'ef-
letto, no in quelle che scelgono, ci adoprano quei mezzi
dio si rieleggono a produrre un effetto simile, né cosi
le lavorano o dispongono conio converrebbe per tal
uopo; o ciò non fanno perché noi vogliono e perché noi
sanno. Noi sanno, perché privi essi medesimi d'inspi-
ri? TT Ut °, SUblÌme 0 d ^na, o di sentimenti
tori, e profondi nel comporre in qualsia genero, non
SSSTSd T g ÌT ? llsar lo scelto ia mod ° da
(8228) produr negh uditori queste siffatto sensazioni
oli ossi mai non provarono né proveranno. Sol vogliono,
perche, appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla
al,*?! 1 aTJ° * tm T> nÒ altr ° tinò 6i Propongono
ohe il diletto superale e il grattar gli orecchi, al
che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e
torti emozioni, di cui mai non fecero esperimento. Ma
che maraviglia? Quando gli antichi musici erano i
poeti, quegli stessi che per la sublimità de' concetti,
per la eleganza e grandezza dello spirito brillano nello
carte che di loro ci rimangono, o perdute queste coi
>tmi d a loro mymtatì 6 applicatiyÌ! viyouo . m _
mortai! i loro nomi nella memoria degli uomini, e
n L 5 l0ra . 1 f ziandi0 PW egregi o magnanimi fatti? E
iuando all' incontro i moderni musici, stante le cir-
costanze della loro vita o delle moderne costumanze
a loro riguardo, sono por corruzione, per delizio, per
ro X nel t S T Za " ^ del WS** Z
cojo elio nelle storie si conti? la feccia della feccia
3228-3229-3230) PENjatMBl
259
dolio jjouoraxiioiri ? Da vita opinioni e costumi vili,
adulatoci . dissipati, (3229) effeminati, infingardi, come
può nascer concetto alto, nobile, generoso,, profondo,
vii-ile, energico? Ma questo discorso porterebbe troppo
innanzi, e cond urrebbe necessariamente al parallelo
delia musica e de' musici colle altre arti e loro pro-
fessori, a quello do Ila moderna musica coli' antica, e
dello moderne usanze collo antiche relative al pro-
posito; e finalmente a trattare della funesta separa-
zione della musica dalla poesia e della persona di
musico da quello di poeta, attributi anticamente, e
secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e
indivisibili (vedi il V iaggio d' Armarsi, l e, partico-
larmente l' ultima nota al e. 27). Il qv&\ discorso da
molti è stato fatto, e qui non sarebbe che digres-
sione, fero lo tralascio.
Tornando al nostro primo proposito, il qua] fu
di mostraro che l'armonia o convenienza scambievole
do' tuoni nelle loro combinazioni successive è deter-
minata, siccome ogni altra convenienza, dall'assuefa-
zione; si vuol notare che quest' assuefazione, in fatto
di melodio (corno anche di armonie), non è sempre
»òxó|icito ? del popolo, (3230) ma bone spesso in lui
prodotta e origina ta dalla stessa arto musica. Perocché
a forza di udir musiche e cantilene composte poi-
arte (il elio a tutti più o meno accade), anche i non
intendenti, anzi affatto ignari della scienza musicalo,
assuefanno l'orecchio a quello successioni di tuoni
elio naturalmente essi non avrebbero né conosciute ne
giudicato per armoniose (o ch'elle sieno inventato di
pianta dagli uomini dell' arte o da loro fabbricate
sulle melodie popolari' o di là originate), in virtù
della quale assuofaziono, essi giungono a poco a poco,
e senza avvedersi del loro progrosso, a trovare armo-
niose tali successioni, a sentirvi una melodia, o quindi
a provarvi un dilotto sempre maggiore, e a formarsi
Circa lo melodie una più capace, più vai ia. più estesa
260
[•EHSiEltJ
(3230-3231)
facoltà di giudicare, la qua] facoltà, che in altri ar-
riva a maggioro in altri a minor grado, è poi per
ossi cagiono del diletto che provano nell'udir musi*
ohe ; giudizio e diletto determinato, dettato e cagio-
nato, non già dalla natura primitiva o Universale, ma
dall'assuefazione accidentale e varia socqndo i tempi,
i luoghi o lo nazioni. (3231) Io di mo posso accer-
tare che nel mio primo udir musiche (il che molto
tardi incominciai) io trovava all'atto sconvenienti, in-
congruo, dissonanti e discordevoli parecchie delle più
usitate combinazioni successivo di tuoni, che ora mi
paiono armoniche, e nell' udirle formo il giudizio o
percepisco il sentimento della melodia.
Né più né meno accade nella pittura, scultura,
architettura. Scnz' alcuna cognizione della teoria, né
dolla pratica immediata dell'arte, a forza di veder di-
pinti, statue, edifizi, moltissimi si formano un giudi-
zio e una facoltà di gustare e di provar piacere in
tal vista e nolla considerazione di tali oggetti, la qual
facoltà non aveano per l' innanzi, osi acquista a poco
a poco por mozzo doll'assuofaziono, la quale determina
in questi tali (e sono i più che parlino di bello arti)
l' idea dello convenienze pittoricho ce, del bello ec. e
quindi anche del brutto ec, col divario che il soggetto
dolla pittura e scultura si è l' imitazione degli og-
getti visibili , della quale ognun vede la verità o la
falsità, ondo le idee del bello e del brutto pittorico
e scultorio, in quanto queste arti sono imitative, è
già determinata in ciascheduno prima dell' assuefa-
zione. Non cosi nell'architettura e nella musica, meno
imitativo, o questa imitativa di cose non visibili ec.
Cosi discorrasi in ordine alla poesia ed al gusto e
giudizio cho l'uomo se ne forma o n'acquistava.
Nel detto modo si formano i mozzi intendenti,
più o meno capaci di giudicare o quindi di provar
diletto nelle composizioni musicali, cioè che più o
meno hanno udito e riflettuto in questo genere e po~
Ofìl
(3231-3232-3233) pbnsiEM_
7tov7at.ten Z ione. I quali mMtendeati costitui-
to la maxima parte di quelli che parlano d
mnsica 6 di quel pubblico che dà espressamente il
Co voto circa lo composizioni musica i che campan-
do, giacche i periti veramente della scorza mu-
gica o conoscitori di esse per elementi e regole sono
ben pochi rispetto al pubblico.
Or dunque molto che si chiamano melodiepopo-
L hanno il loro fondamento nell'assuefazione
do' mezzi-intendenti, o del popolo in quanto (32321
assuefatto a udir musiche. E delle composmoni suc-
cessive di noto, altre riescono melodie a tutti gli orec-
cln. altre a quelli dì chiunque è pure un poco inten-
dente (cioè assuefatto), altro ai mozzi-intendenti pu
avanzati, altre ai soli veri e perfetti intendenti ed
altro a questi più a quelli meno, o viceversa eccetera.
E cosi il giudizio e il senso della melodia sempre
nasce e dipendo ed è determinato dall' assuefazione o
dalla cognizione di leggi che non hanno la IpT? ra-
gione nella natura universale, ma nell'accidentale e
particolare uso presente o passato, e m altre tali cose,
lo quali leggi ho chiamato di sopra arbitrano
E tutto ciò sia aggiunto por «piegare e distin-
guere e quasi classificare quello ch'io intenda per po-
polare nella musica, por melodia popolare, e per as-
suefazione degli orecchi determinante la scambievole
convenienza delle noto nella loro scambievole succes-
sione o collegamento. , .
Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho chia-
mato rówaatoi del popolo (voglio dire dell'univer-
sale) nascono ed hanno origino da vane cagioni, e ira
l'altre dalla natura, indipendentemente poro da ve-
runa naturalo (3233) convenienza scambievole di quali
si sieno tuoni, ma solo in tanto in quanto, per esempio,
certe passioni naturalmente e universalmente amano
certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono
a un tal altro. La qual cosa dio nulla ha che fare col-
202
(3233-3234)
l'assoluta convenienza di tal tuono a tal tuono (pe-
rocché qui la ragione della convenienza de' tuoni non
istà nella natura loru, ne nei loro naturali rapporti,
ma e relativa alla natura dell' uomo che, indipenden-
temente dalla convenienza, ama in qnel tal caso qnej
tuono e quel passaggio) fu l'origine delle melodie, lo
quali furono da principio, siccome sempre avrebbero
dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che
abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla
seePa, colla disposiziono, coll'atta mescolanza e con-
giungimento e di più colla delicatezza, grazia, mo-
bilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed eserci-
tati) o artifiziali inventati e porfezionnti. Nò più né
manco di quello che le poesie debbano, imitandola,
ornare, abbellirò, variare o mostrar sotto nuovo abito
la natura. Vegga si a questo proposito la citata nota
ultima al capo (3234) 27 del Viaggio d' Anacarsì e
quello che altrove ho dotto sopra l'imitativo della
musica o sopra quella convenienza musicale che ha
nella imitazione sola la sua ragione ed origine.
E notisi che se nulla v' ha nella musica,, sia
nell'armonia sia nella melodia, che universalmente da
tutti i popoli civili e barbari sia riconosciuto o pra-
ticato, o che in tutti faccia effetto, ciò si dee riferire
alla natura operante nel modo dotto di sopra, o in altri
che si potrebbero dire; operante prima dell'assuefa-
zione e indipendentemente da lei, ma indipendente-
mente altresì dolla convenienza e senz'aldina rela-
zione all'armonia. Oltre all'altre cagioni di universalo
offotto nella musica, indipendenti puro dalla con-
venienza, parto dolio quali ho annoverate di sopra
p. 3211, seg., parte altrove, parte potrei annoverare
(20-21 agosto 1823).
* Alla p. 2999, ultima linea. Crepo is ui itum sa-
rebbe corno strepo ?*s ài itum, da Cui strepitare, come
appunto da ei-ttpo a* o is, crepitare. E crepo as ri ter-
(3234-3235-3236) pensieri ^ Mr->
jeble o torrebbo in prestito il perfetto e il superlativo di
crepo is, cioè crcpui, i.tum,, coinè appunto accubo ec.
quelli di accumbo ec. cioè accubiti itum. Profiigo (3235)
as è à&jligo it. onde alligo is, confiigo i» ec. che hanno
i continuativi afflicto confitelo ec, fatti regolarmente
da' participi]. Vedi Porcellini in l'rofiigo e profilativi
p2 agosto 1823). Vedi p. 3246, 3341 e 3987.
* Saluto as si deriva da salus. Ma io 1' ho in forte
sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (an-
tico), mutato in salviti», ovvero da salvo, mutato il
participio snlvatus parimenti in salititi» (vedi Forcellini
in saluto, fino e in salvo). Giacché spessissimo la lin-
gua latina, massime antica, scambiava tra loro l'i* e
il v, mutando questo in quello, o per lo contrario.
Cosi lavo no' compoeti diviene Ivo : ed ahlutvs si dice
in luogo di ahltmdw. Cesi tatttu» per lavatus, fautum
per javitum. A questo proposito noterò il continua-
tivo lav'ito. Forcellini Cerelmim, in fine. E eoinmentor
e commento a participio comnientus verbi commin'iscor
(forso anche comminisco) . dico il Forcellini e notate
che qui non dice dal supino , cioè da commentum ,
corno suole (22 agosto 1823).
* Platone nel Sofista, verso il fine, edizione del- s
l'Astio, Opp. di Platone, Lipsia, 1819, sgg., t. IL p. 362,
v. 3, sgg., A, penultima pagina dol Dialogo llóìhv nu*
!&VO|j.a Év.f/.tspc[) ti; fiv />Yj<ie*a[ Jipér.ov; S-f-jloy S-ì] y/tXs7iòv riv,
Siott ttj; tiT>v -fsvoiv x«i* e*t3"/[ SiciipéoedJS naXaia tic, u){ toi-
x;v, iliiv (Io. àfiòt». Ast.) iole, £(juipoo(hv xal à&'ivvoo; ita-
P^v , <7iats |iT(S J wi/sipeìv p.-^Sévot Statpeìaftou ■ xnfrò 84}
xtùv 2>vo[i.àTu>v àvdv v -'f| F'1 =>'fóopa sòrcoptìv : (3236) linde
iam nomen utrique eorum quisquam arripiet conve-
fiiens f an dubium non est quin difficile, sii, propUrm
quod ad generum in specie» distribvtionem vetustam
quondam, ut videtur et ineonsidnratam superiore» l>a-
bebimt ojfe.nsìnnem aique fmiidivm, ita ut ne conaretur
PRNSIKRI
(3236-3237)
quidam ullus dividere; guoairca etiam immina non natia
nobis possimi in promptu osse, f Astius. Vuol dir Pla-
tone e si lagna elio gli antichi greci (e cosi tutti gH
antichi d'ogni nazione) ebbero poche idee elementare
onde la loro lingua (e cosi tutte le lingue fino a unti
perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non
filosofa) mancava di termini esatti e snffioient i n i
bisogni del dialettico, massimamente, e del metafisico.
Ond' ò che Platone, il quale volle sottilmente filoso-
fare ed esercitare l' esatto raziocinio , c considerare
profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel
formare do' termini di questa fatta, ed abbonda som-
mamente di voci nuove e sue proprio, esatte e logiche
ovvero ontologiche, ') che da ninno altro si trovano
adoperate o che da' suoi scritti furono tolto. E notisi
che Platone faceva questa lagnanza della sua (3237)
lingua, la più ricca, la più feconda, la più facile a
produrre, la più libera, la più avvezza e meno intolle-
rante di novità, ed oltre a questo, nel più florido,
perfetto ed aureo secolo d' essa lingua,- o quasi an-
cora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone
parvo scarsa a' bisogni dell' esatto filosofare la stessa
lingua greca nel suo miglior tompo, o trattando ma-
terie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli
stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la
ragione dol suo coniar nuove voci. Ne certo si dirà che
Platone le coniasse o per trascuratezza e poco amoro
della purità ed eleganza della lingua, di eh' egli è ira
gli attici il precipuo modello, né per ignoranza d'.ossa
lingua e povertà di voci derivante da questa ignoranza
(22 agosto 1823).
* Chiunque esamina la natura delle cose colla pura
ragione, senz'aiutarsi dell' immaginazione né del sen-
timento, né dar loro alcun luogo, eh' è il procodere
1 ) Vedi In prefazione ili Timeo ;il suo Lessico Platonico, oppo il Fa-
Ijricius, HihUolh.-ca arama, edit rot,, IX, iffi.
(3237-3238-3239, n^v.m. ________
^Utìtedesclii ') «olla filosofia, ne dire nello me-
tfiXa o nella politica, potrà ben quello ohe suonai
Sura ma o< non potrà mai ricomporla, voglio due
'potrà mai dallo »uo osservazioni e dalla sua
analisi tirare ima grande o generalo conseguenza ;
toi «gore e condurre le detto osservazioni in un gran
Ss Uato; o facendolo, corno non lasciano di farlo
fumeranno; e cosi veramente loro interviene^
oglto anche supporrò cH'cgli arrivino co Ila loro ana-
li fino a scomporre e «^ei-e la natma bb suo
menomi ed ultimi elementi, e oh- egli ott fugano di
conoscere ciascuna da se tutte le parti della wtjra.
Ma il tutto di essa, il fino e il rapporto S ca»ntoo
di esse parta tra loro, e di ciascuna verso il t utlo lo
scopo di queste tutto, e 1' intenzien vera epo o da
della natura, quel ch'ella ha destinato, la cagiono (la-
sciamo ora star l'efficiente) la cagion fin alo uel suo
essere e del suo esser tale, il perche e a ^ ^
disposto e cosi formato le sue partì, nella cognizione
dello quali cose dee consistere lo scopo del fa osoio e
intomo alle quali si aggirano insomma tutte le venta
generali veramonte grandi e importanti, questo cose
dico, è impossibile il ritrovarle (3239J e 1 intendete
a chiunque colla sola ragiono analizza ed esamina a
natura. La natura cosi analizzata non differisce punto
da un corpomorto. Orasupponghia.no che noi fossimo
animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natili a
diversa dalla; general natura dogli animali che cono-
sciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo dotati
d' intendimento. Se non avendo noi mai veduto no
uomo alcuno ne animale di quelli che realmente esi-
i) Coai «nota parecchi inglori o gcncruhuonto coloro ri,« no»
sono «wau-taui o non «mescono altro che stn.li « cose iU «iu
oUo di tali llWanfi, nastalUi,-:, ,».UUci. .naleiuatid. .ri n».li, ™ » ha .
copia fra' teWhi e clipei fra inpleri «ho altrove, orni» ... H»"Ci«
Italia.
26fi pen sièri (3239-324(3-3241)
stono, o niuna notila avendono, ci fosso portato""^
danzi un corpo amano morto, e notomizzandolo noi
giungessimo a conoscerne a una a una tutto le più
mcnome parti, 6 chimicamente decomponendolo arri-
vassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò
torse potremmo noi conoscerò, intendere. Hh™<.™
concepno quffl fosse il destino, l'azione, lo funzioni I
virtù, lo forze oc, di ciascheduna parte d'esso coreo
rispetto a se stesse, all'altre parti ed al tutto, quale
lo scope e l'oggetto di quella disposizione e di quel
tal ordine che in esse parti scorgeremmo e osservo
remrao pure co' proprii occhi, e collo proprio man
tratteremmo; quali gli effetti particolari e l'effetto m
noralo o complessivo di esso ordine e del tutto di esso
corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e
che cosa la vita dell'uomo,, anzi se quel corpo fosse
mai e dovesse esser vissuto; (3240) anzi pure, se dalla
nostra stessa vita non l'arguissimo, o se alcuno po-
tesse intendere senza vivere, concepiremmo noi e ri-
trarremo in alcun modo dalla piena e perfetta e ana-
litica ed elementare cognizione di quel corpo morto,
1 idea della vita? e vogliamo solamente dire l' idea di
quel corpo vivo ? e intenderemmo noi quale e che cosa
tosse 1 uomo vivente e il suo modo di vivere esteriore
o interiore ? Io credo che tutti sieno per rispondere che
ninna di questo cose intenderemmo ; che volendole con-
getturaro, andremmo le mille miglia lontani dal vero,
o sarebbo a scommetter milioni contro uno che di
nulla mai, neanche facendo un milione di congetturo,
ci apporremmo ; finalmente eh' egli sarebbe cosa pro-
babilissima, eh' esaminato e conosciuto quel corpo
morto, in questa conoscenza ci fermassimo e neppur ci
venisse in sospetto eli' ei fosse mai stato altro, né fosso
mai stato destinato ad osser altro che quel che noi lo
vedremmo e tale qual noi lo vedremmo, né della sua
passata vita né dell' uom vivo ci sorgerebbe in capo la
pia menoma conghiettura. (3241)
;1
>
i
o
OR?
■|l -3242) vsssam _ _ ^^^^1
replicando questa similitudine al mìo proposito
dico che scoprire od intendere qual sia la natura viva,
^alo il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli
Lamenti o i procossi, quale il fine o i fini, la inten-
zioni i destini della vita della natura o delle cose,
Anale' la vera destinazione del loro essere, quale insom-
ma lo spirito della natura, colla semplice conoscenza,
per dir cosi, del suo corpo, e coll'analisi esatta, im-
Laiosa, materiale dello suo parti anche morali, non si
può dico, con questi soli mozzi scoprire ne intenderò,
he felicemente o anche pur probabilmente congetturare.
Si può con certezza affermare che la natura , o vo-
gliamo diro l'università delle coso, è composta, -con-
formata e ordinata ad un effetto poetico , o vogliamo
dire disposta e destinatamente ordinata a produrre
un effetto poetico generalo ; od altri ancora partico-
lari; relativamente al tutto, o a questa o quella
parto. Nulla di poetico si scorgo nelle sue parti, so
parandole 1' mia dall' altra , ed esaminandole a una
a mia col semplice lume della ragione esatta e geo-
metrica: nulla di poetico ne' suoi mozzi, nelle sue
forzo o mollo interiori o esteriori, ne' suoi processi
in questo modo disgregati e considerati: nulla nella
natura decomposta e risoluta, o quasi fredda, morta
esangue, immobile, giacente, per cosi dire, sotto il
coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico
di un (3242) metafisico che niun altro mezzo, mun
altro istrumento, niun' altra forza o agente impiega
nelle sue speculazioni, no' suoi osami o indagini, nello
suo operazioni o, come dire, esperimenti, so non la
pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono né
potranno mai scoprire la pura o semplice ragiono e
la matematica. Perocché tutto ciò ch'è poetico si sente
piuttosto che si conosca e s' intonda, o, vogliamo anzi
dire, sentendolo si conosce e s'intende, né altrimenti
può esser conosciuto, scoperto ed intoso, che col sen-
tirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno
^ 68 .pensieri (3242-3243-3244)
sensorio alcuno. Spetta all'immaginazione e alla sen-
sibilità lo scoprite o l'intendere tutte le sopraddotte
code; ed elio il possono, perocché noi, ne' quali ri-
siedono osse facoltà, siamo pur parte di questa natura
o di questa università eh' esaminiamo r o queste fa-
coltà nostre sono osse solo in armonia col poetico
eh ù nella natura; la ragiono non lo è: onde quelle
sono molto più atto e potenti a indovinar la natura
ohe non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola
immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi
conoscere ciò oh' è poetico, però ad essi soli è possi-
bile od appartiene V entrare e il penetrare addentro
ne grandi misteri della vita, dei destini, dello in-
tenzioni si generali, si anehe particolari, della (3243Ì
natura. Essi soli possono mono imperfettamente con-
templare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto
della natura, il suo modo di ossero, di operare, di
vivere, i suoi generali o grandi effetti, i suoi fini.
Essi, pronunziando o congetturando sopra queste cose,
sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di ap-
purai talora al voro o di aecostarsegli. Essi soli sono
atti a concepire, creare, formare, perfezionare un si-
stoma filosofico, metafisico, politico che abbia il meno
possibile di falso, o, so non altro, il più possibile di
simile al voro, o il meno possibile di assurdo, d'im-
probabile, di stravagante. Per essi gli uomini con-
vengono tra loro nelle materie speculative e in molti
punti astratti, assai più che per la ragione, al con-
trario di quel che parrebbe dover succedere; peroc-
ché egli è cortissimo che gli uomini, discorrendo o
congluotturando por via di semplice ragione, discor-
'Uuio per lo più tra loro infinitamente, s'allontanano
le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano e seguono
tutt altri sentieri; laddove, discorrendo por via di sen-
timento o d' immaginazione, gli uomini, lo diversis-
simo (3244) classi di essi, le nazioni, i secoli, bone
spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro,
te si può vodoro in moltissimo proposizioni (si-
imi) ed um-ho puro supposizioni, dall' immaginava
fXl cuore' o trovate o formato, o da essi soli de-
vote c autorizzato, o in ossi soli fondato lo qua 1,
m ,mo sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da
tutto o da quasi tutte lo nazioni in tutti i tempi, e
dall'universale d«i?li uomini avute, anoho oggidì por
verità indubitabili, e da' sapienti, quando non al ro
por più vorisimili o più universalmente aocottal.l
L alcun' altra sul rispettivo proposito. Il che torse
di ninna ipotesi (generalo o particolare, cioè costi-
tuente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione
6 dal puro raziocinio, si vedrà essere intervenuto ne
intervenire. Finalmente la sola immaginazione od I
cuore, e le passioni stesso; o la ragione non altii-
menti che colla loro efficace mtervenzmne, hanno
scoperto e insegnato e conformato le più grandi, pn
eonorali, più sublimi, profonde, fondamentali, o più
importanti verità filosofiche che si posseggano, e ri-
velato (32*5) o dichiarato i più grandi, alti intimi
misteri che si conoscano, della natura e de lo cose,
come altrove ho diffusamente esposto (22 agosto l&M).
* In conferma del sopraddetto si osservi che i più
profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero,
e quelli di più vasto colpo d'occhio, furono espressa-
monte notabili e singolari anche per la facoltà del-
l' immaginazione e del cuore, si distinsero por una
vena e per un genio decisamente poetico, no mederò
ancora insigni prove o cogli scritti o colle azioni o coi
patimenti della vita che dalla immaginazione e dalla,
sensibilità derivano, o con tutte queste coso insieme.
Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto,
più sublimo filosofo di tutti essi antichi, che ardi
concepire un sistema il qnnle abbracciasse tutta 1 esi-
stenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu noi
suo stile, nelle sue invenzioni ec. cosi poota come
270
(3245-3246-324?)
tutti sanno. Vedi il Fabricius in riatone. Fra,' moi
domi Cartesio, Pascal, quasi pazzo por la forza doliti
fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad, <li
StaSl co. (23 agosto, udita la morte del .Papa Pio VII,
olio fu a' 20 di questo. 1823). (3246)
:i: A quoi pochi monosillabi latini da mo altrove
raccolti, aggiungi pax, voce eh' esprime una cosa elio
dovette esser dello prime o delle più antiche nomi-
nate ; onde pacare, patisti, pactum ce. Il greco corri-
spondonto è trisillabo : elp^v») ') (23 agosto 1823).
* Alla p. 3235. Placeo es~ 'placo as. Placco ha pur
placito as. Notisi elio questo placo viene da un verbo
della seconda maniera, non della terza. Convivo is- con-
vivo <ts e convinor-aris. Convitare e combidar (frane.
convier), quasi completare è un regolar continuativo di
convivo is- convictus. Quando però non fosse o una cor-
ruzione o piuttosto un fratello (comune, come vedete,
a tutto lo tre lingue figlio), d' invito as, il qual verbo
donde viene ? torso da vita ? o l'orse è un continua-
tivo dell' anomalo continuativo inviso is-invisus, quasi
invitare, mutata la s in t, corno non di rado si scam-
biano quosto lettere ne' participii {fixm-fictus etc.),
o è una diversa inflessione d' inviso is medesimo, e
più regolare ? Dol resto, so non convivo is, corto il suo
semplice vivo is ha forse il regolare continuativo
vieto as, e senza dubbio il frequentativo vietilo. Vedi
poi il glossario se ha nulla in proposito per le sud-
detto coso (28 agosto 1823). Vedi p. 3289. (3247)
* È cosa nota ohe le favello degli uomini variano
secondo i climi. Cosa ossorvata dev' essere altresì ohe
le differenze de' caratteri dello favello corrispondono
alle differenze de' caratteri delle pronunzie, ossia del
snono di ciascuna favella genoralmonto considerato ;
') Similmente rticiisi Ai «a-, mulo «mi», éfuào oc,
(3247-3248) _r^&SfBB< _
F^7n U a"u.i-Ma di suono aspro ha un carattere o un
°" (c o una lingua di «nono dolce ha un cavat,-
f!r e nTùio molle e doluto: una lingua ancora
ba r 0 ivominzia ed andamento rozzo, e cm>
S» raddolcendosi e ripulendosi il carattere della
■ r^lla dicitura, raffinandosi, divenendo rego-
r a tle e de la pZlia, cosi i caratteri delle P ro-
X on-ispoldono allo nature dei clinn e quindi
alle quaHtà fisiche degli «un che vivono n essi
climi e alle lor qualità morali che dallo fisiche prò
Sreh.reo. ^pondono. O.lo no' ,diun sc^trHj-
nali dove gli nomini indurati dal troddo da pati
Ìli o daflc fatiche di provvedere a> propri biaogn
in tori- (3248Ì naturalmente sterili e sotto un eie lo
toiquo e fortificati ancora dalla fredda temperatura
SS», Bono più ohe altrove robusti di corpo e ™
raeeiosi d' animo, e pronti di mano, lo prono»» e
K ehe aitile Lti ed energiche e nehiedon
un grande spirito , siccome e quella della bug a te
desca piena d'aspirazioni, e ohe a P™™»"^ P£
che ridderà tanto fiato quant' altn può avere in
po to ndf a noi italiani, udendola da' nazionah par
oh' e 'facciano grande fatica a parlarla, e gnm fi™ ■ *
petto ci adoppino. Per lo centrano accado nelle lingue
L'olimi meridionali, dove gli uomini sono pei nata a
molli e inclinati alla pigrizia e all' oziosità, «dttuno
dolce e vago de' piaceri, e di corpo men vige o so che
mobile e vivido. Ond' egli è proprio oaPatteie deUa
pronunzia non mono che della lingua, por esempio te-
desca, la forza, e dell' italiana la dolcezza e dolio,
E poste nelle lingue queste proprietà rispettavo de una
lingua all' altra, no segue che anche assolutamente e
considerando ciascuna lingua da se nella lingua por
272
esempio italiana, sia, pregio la delicatezza e dolcezza
(3249) ondo lo scrittore o il parlatore italiano, appo cui
la lingua (sia nello stile, sia nolla combinazione delle
voci, sia nella pronunzia) è più delicata e più dolce
«ho appo gli altri italiani (salvo che queste qualità
non passino i confini clic in tutte le cose dividono il
giusto dal troppo, sia per rispetto alla stessa lingua
in genero, sia in ordine alla materia trattata), più si
loda che gli altri italiani, appunto perocché la lingua
italiana nella dolcozza e delicatezza avanza l' altre
linguo. Ma per lo contrario f ra' tedeschi dovrà mag-
giormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui
la lingua riesca più forte cho appo gli altri tedeschi,
perocché la lingua tedesca supera l'altre nella forza,
e suo carattere è la forza, non la dolcezza : né la dol-
cezza ò pregio per se,neppur nella lingua italiana, ma in
ossa, considerandola rispetto alle altre linguo, è qua-
lità non pregio, o nello scrittore o parlatoro italiano
è pregio, non in quanto dolcezza, ma in quanto propria
e caratteristica della lingua italiana. Cosi civiliz-
zandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primi-
tivo, delicate di corpo, divonne altresi progio negl'in-
dividui umani la maggior (3250) delicatezza delle
forme, non perché la delicatezza sia pregio per so ;
che anzi la rispettiva delicatezza delle formo era cer-
tamente biasimo, e tornito per difetto, o per causa di
minor pregio d'esso forme, àppo gli uomini primitivi ;
ma solo perché la delicatezza fisica oggidì, contro le
leggi della natura, e contro il vero ben essere e il
destino dell' umana _ vita, è fatta propria o caratteri*
stica delle nazioni e persone civili Laonde ben s'in-
gannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Stael
noli' Ale-magna) che cercarono di raddolcire la loro
lingua, credendo farsi tanto più pregevoli degli altri
tedeschi quanto più dolcemente di loro la parlassero o
') l'imi vodoro lo ]m£g. 3084-90.
°73
(3250-3251-3252) i>ensieki_ .
tessero o elio 1« dolcezza, procurandola alla lingua
^ 1,'avc*» a«l ««r pregio, contro la natura e
foto il caratt.ro della lingua, il quale è la forza e
£ta forza richiede nello scrittore e nel parlatore
Luta possa non varcare i conimi present i dalla
Llità d'ossa bugna, o da quella delle parUcolan ma-
terie in essa trattate; ed esclude, colle medesime con-
cioni, la doleva, come vizio nella lingua_ «
non pregio, perché opposta alla sua natura. (325".
Tornando al proposito, debbono esser, come ho detto,
cose osservate queste proporzioni che passano , tra e
diverse naturo dei climi e i diversi caratteri dello
rispettive pronunzio e genii dello rispettive bugne, ed
altresì il modo di questo proporzioni, cioè il modo m
che il clima opera sullo favelle e da quali proprietà del
clima quali proprietà derivino alle pronunzie e alle
lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato
che trovandosi in un medesimo clima e paese esseio
stati in diversi tempi diversi caratteri di pronunzia
l e di lingua, queste diversità corrispondettero sempre
alle qualità' fisiche degli uomini che ciascuna d esse
pronunzio e lingue, l' una dopo l'altra, usarono, le
quali fisiche qualità variarono secondo le diverse cu-
costanze morali, politiche, religiose, intellettuali ec.
che in diverse generazioni in quel medesimo clima e
paese ebber luogo. Ond' è che sebbene il clima meri-
dionale naturalmente ispira dolcezza ne' caratteri delle
pronunzie e de' suoni, tuttavia il suono della lingua
greca, e quello della lingua romana, certo più mono
che non era a quel tempo, o che adesso non e, il suono
dello (3252 ) lingue settentrionali pur fu molto men de-
licato e più forte di quello che oggi si sente nella
nuova lineo a dello stesso Lazio e di Roma e d Italia.
E ciò non per altra cagione fìsica immediata, se non
perché, stante le loro circostanze morali e politiche o
il lor genero di vita e di costumi, gli antichi greci e
romani (il che anche por mille altri segui o notizie si
18
Leopaulh. — Pensieri, V.
274
PENSI BRI
(3252-325®
prova) furono di corpo molto più forti che i moderni
italiani non sono. La stessa pronunzia, della moderna
lingua francese (e cosi delle altro) si è addolcita coi
costumi della nazione, come dice Voltaire oc, giacché
un di s-i pronunziava come oggi si scrive ce. Ond'è cìj
siccome la pronunzia francese per la geografica posi-
zione e naturai qualità del suo clima, eh' è mezzo tra
meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto 'delle
pronunzie del sud quanto di quelle del nord ') ed è un
temperamento dell' ime e dell' altre e un anello che
questo a quelle congiunge, 2 ) cosi il carattere delle
pronunzie greca e latina tiene, non dirò già il proprio
mozzo tra il settentrionale c il meridionale, ma tra
il carattere dell' italiana, eh' è uno estremo delle mo-
derne pronunzie meridionali, e l'estranio assoluto della
dolcezza ; e quello della pronunzia settentrionale meno
aspra e che più (3253) s' accosti a dolcezza, e sia
per questa parte 1' estremo delle pronunzie settentrio-
nali, alle meridionali più vicino. 0 volessimo piutto-
sto dire che le pronunzie greca e latina siano medie
tra P italiana, eh' ò la pili meridionale, e la francese,
che non è né ben meridionale né per anco settentrio-
nale. Le linguo orientali, la greca moderna, la turca,
quelle de' selvaggi e indigeni d'America sotto la
zona, parlato e scritte in climi assai più meridionali
che quel d' Italia o di Spagna, sono tuttavia molto
inen dolci dell'italiana e della spagnuola, e taluna
anche delle settentrionali ouropee. Ciò perla rozzezza
o per la acquisita barbarie de' popoli che 1' nsano o
che 1' usarono, per li costumi aspri e crudeli ec., an-
tiche o moderne eh' esse lingue si considerino (28
agosto 1S2Ì5).
l'uà lingua strettamente universale, qualunque
ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di nc-
') Pendolilo iiol'ò ni sud.
') Póól vodeio In jmg. 2389-Sl.
(3253-3254-3255) ^j^stem^_^_______
t7tà c V»or sua natura, la più schiava, povera, ti-
k£ monotona, uniforme, arida e brut a lingua, la
Èf incapace di qualsivoglia genere di bellona la pn,
, opria all' imaginazione, e la meno da tei dipen-
dente anzi la più da lei per ogni verso ^giunta, la
E esangue od inanimata e morta, ohe mar Si possa
£ceph-e 8 : uno scheletro, un'ombra di lingua putte-
Z ci e lingua veramente; una lingua non viva, quando
Ciò»* "da tutti scritta e unrversalmente intes^
anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più
K si parli né scriva. Ma si può puro sperare che
porchó gli uomini siono già fatti generalmente sud-
diti infermi, impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati
languidi o miseri della ragione, ei non diverranno
ET mai schiavi moribondi e incatenati (325* della
geometria. E quanto a questa parte di una qualunque
lingua strettamente universale, si può non tanto spe-
rare ma fermamente e sicuramente predire che i
mondo non sarà mai geometrizzato; non meno di quel
che si possa con cortezza affermare ch'ei non ebbe
una tal favella mai, se non forse quando gli uomini
erano cosi pochi, e di paese cosi ristretti, e mente
vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita,
ohe la lingua era universale solo perciò che più d una
nazione d'uomini, almeno parlanti, non v aveva onde
universale ora la lingua, perch'era una al mondo, ne
altra lingua mai s'era udita eduna era e sempre era
stata la lingua, perché una sempre la nazione mtmo
allora, o una, se non altro, la nazione cho di lingua
avesse uso e notizia (23 agosto 1823).
* Quello poi ohe ho dotto cho una lingua stretta-
1 mento universale dovrebbe di sua natura essere anzi
un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente,
• anzi esattamente conviene a quella lingua caratteri-
stica proposta fra gli altri dal nostro Soave (nelle
Biflesnoni intorno (3255) all' istituzione d una lingua
— TI
2 76 pensieri (3255-3256)
universale, opuscolo stampato in Eoma, o poi dal me
desumo autore rifuso nell'Appendice 2* al capo ilo
del libro III del Saggio filosofico dì Giovanni Locke «j
l'umano intelletto compendiato dal Dott. Winne tradoÀ
e commentato da Francesco Soave O. li. S., tomo II I
intitolato Saggio sulla foniamone di una Lingua Uni
versale), la qual lingua o maniera di segni noi
avrebbe a rappresentar le parole, ma lo idee, beni 1
alcuno delle inflessioni d'esse parole (come quelle]
de' verbi), ma piuttosto come inflessioni o modifica-
zioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a
mun suono pronunziato, né significazione e dinota- 1
zione alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua, per-
ché la lingua non è che la significazione .felle idee ]
fatta per mezzo delle parole Ella sarebbe una scrit-
tura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rapi ]
presenta le parole e la lingua, e dove non è lingua
né parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe i
un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua ]
né scrittura, ma cosa diversa dall' una e dall' altra. \
Quest'algebra di linguaggio (cosi nominiamola), (3256)
la quale giustamente si è riconosciuta per quella ma-
niera di segni eh' è meno dell'altre impossibile ad j
essere strettamente universale , si può pur confìden- 1
temente e certamente erodere eli e non sia per essere né '
formata ed istituita, né divulgata ed usata giammai. J
-Diro poi ancora eh' ella in verità non sarebbe stret- j
tornante universale, perch' ella lascerebbe a tutte le ]
nazioni le loro lingue, siccome ora la francese. Ella !
di più non sarebbe propria che dei dotti o cólti. Ma ,]
% f ' uttj 1 dotti 9 cólti lo è pure oggidì la francese. ]
«nato utilità dunque di quella lingua? la quale non J
sarebbe forse niente più facile ad essere generalmente ]
nella fancmllezza imparata di quello che sia la fran- j
ceso che benissimo e comunissimamente nella fanciul-
lezza 8. impara. E tutti i vantaggi che si ricaverebbero 1
eia -lucila chimerica lingua, tutti, e molto più e mag- j
(3256-3257-3258) ihkhiuhi *ii
«ieri e l'orso con più facilità, si caverebbero dalla
Ifngua francese, divenendo, so pur bisogna, più comune
e più studiata e coltivata di quo! eli' ella già sia.
Quanto poi ad una lingua veramente (3257) uni-
versale, cioè da tutte le nazioni senza studio e fin
dalla prima infanzia intosa o parlata come propria,
lasciando tutto lo impossibilità accidentali ed estrin-
seche, ma assolutamente insormontabili, che ognun
conosce e confossa ; dico oh' olla è anello impossibile
por sua propria ed assoluta natura, quando pur gli no-
mini elio F avrebbero a usare non fossero, come sono,
diversissimamente conformati rispetto agli organi ec.
della favella od alle altro naturali cagioni che diver-
sificano lo lingue ; di modo che, quando anche supe-
rato ogni ostacolo, una qualunque lingua, per impos-
sibile ipotesi, fosso divenuta universale nella maniera
qui sopra espressa, la sua universalità non potrebbe a
patto alcuno durare, e gli uomini tornerebbero bon
tosto a variar di lingua, por la stessa natura di quella
tal favella universale, in cui le condizioni medesimo
che la farebbero atta ad esser talo sarebbero in
espressa contraddiziono colla durevolezza della sua
universalità, e formalmente la escluderobbono. Peroc-
ché una lingua appropriata ad ossero strettamente uni-
versale, devo, come (3258) in altri luoghi ho lar-
gamente esposto, ossero di natura sua sorvilissiina,
poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava
di pochissime, esattissime o stringentissime regole,
oltra o fuor delle quali trapassando non si potesse in
alcun modo serbaro nó il carattere né la forma d'essa
lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse.
Né senza una buona parte o similitudine almeno di
queste qualità e di ciascuna di esse, la lingua fran-
cese sarebbe potuta giungere a quel grado di universa-
lità largamente considerata, in cui la veggiaino : né
certo mantenervisi, seppur momentaneamente vi fosse
giunta, come vi giunso un di la greca. Perocché queste
278 pensieki _^3258-3259-3260)
qualità indispensabilinento richieggonsi ad una -in
corché non assoluta o stretta, universalità durevole di
una lingua. Ora una lingua cosi formata e costituita
e di tali qualità in sommo grado (come a una lineuì
strettamente universale si ricercherebbe) fornita a
pochissimo andare, per cagione di queste medesime
qualità, si corromperebbe o traviserebbe (3259) in modo
che più non sarebbe quella ; come altrove ho dimo-
strato di tali lingue non libere, coli' esempio (fra l'altre
cose) della latina, la quale, siccome ogni altra, quan-
tunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lon-
tana dall'avere queste qualità in sommo grado, come
si richiederebbe di necessità ad una lingua che avesse
ad essere strettamente e durabilmente universale Cosi
quelle medesime condizioni che da una parto cagione- '
rebbono, e in modo che senza esse non potrebbe staro,
la propria, o vogliam dire esatta o durevole univor-
sahtà di una lingua; d'altra parto, e nel tempo stesso, I
per propria natura loro, rendono assolutamente inevi- ']
tabile e inevitabilmente prontissima una totale corni- ì
zionc e mutazione della lingua medesima. Onde né
senza osse la stretta universalità di una lingua può
stare, ne qualsivoglia universalità durare, come si è \
altrove provato ; e parimente con esse non può durare
ne la stretta universalità né il proprio stato di una '
lingua. Perocché, quanto al proprio stato, è evidente
che una lingua di necessità corrompendosi e cangian- ''
dosi (3260) del tutto, di necessità lo perde, cioè perde
la sua forma, proprietà, carattere e natura. E quanto
alla stretta universalità, dato ancora che una lingua,
corrompendosi appo una sola naziono, si corrompesse
ugualmente, di modo eh' ella, quantunque mutata da
quella prima, fosse pur sempre una sola in essa na-
zione, e a tutta comune ; egli è fisicamente impossibile
a seguire e assurdo a supporre che una medesima lin-
gua, corrompendosi appo molte o diversissime nazioni
e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrom-
279
,3260-3261-3262) pbhbieR^^
Td"o7<l l i-oi- tutto ugualmente, e facendo da per
Sto n n medesimo tempo gli stessi pass, si man-
Snesso sempre una sola appo tutte le dette nazioni
La irruzione non ha legge, e
Tri-, troi.ia schiavitù e cim»s«u-i»iouO -I una
K « -i, ed è più cicca che ogni altra; ne
Sove non v'ha redola alcuna, né acambievolo conven-
ne consenso (il che sarebbe contrario alla natura
del corruzione di una lingua), - inforni a di crr-
„„ utlll „„ (lU i v i im ò essere uniformità. La quale, so «
mp^bil in una sola nazione, dal contro
oZercì, e da (3261) tante altre °£
Munta .insieme e fatta una, quanto pm tra molte na
Ci semi e per quanto commercio possano avere m-
, me d Sun o o ita so diverse ! L si è infatti veduto
$Z1Ì&™ ^sso la corruzione della lingua latina
nelle diverse nazioni in oh' ella si propago 1 no a
' produrrò vario affatto distinte e se parate e p<uata
mente rosolate e costituito favello, elio tuttavia^
parlano. E ciò quantunque la hngua lata* uontajo
d'assai cosi sovvile oc. come e necessario supporre una
' lingua strettamente universale. Resta dunque provato
che una lingua strettamente univer sale, pe cagione
di quelle stesse condizioni ond' ella sarebbe divenute
e con cui sole sarebbe potuta <^™ m ™™*£'°
senza cui l'universalità sua non potrebbe dm ai e se
non momentaneamente, per causa, dico, di queste me
desime condizioni, subitamente ™™^™>*™\
derebbesi ben tosto, per causa di tal
quindi por causa di quelle medesime condizioni, che
naturalmente e necessariamente l' occasionerebbero, m
diverso lingue, e perderebbe conseguen emente U b a
(3262) universalità, la durata della quale sarebbe fatta
impossibile da quelle medesime condizioni che a tal
' durata indispensabilmente richieggonsi.
Questo che ho detto di una lingua universa -
mento parlata come propria, devesi pur dire di una
280 peks ieri^^ (3262-3263)
sognata lingua che in tutte le nazioni civiliTdoi
e gl indotto scrivessero corno propria, rimanendo 1«
vane lingue nazionali pel solo uso di favellare a un
di presso nel modo ohe ai bassi tempi le varie fa
velie o dialetto volgari, scrivendo tutti, anche no
tai ec, ogni sorta di scritturo in latino , corrotto e
barbaro e secondo i diversi luoghi diverso, ma pur da
per tutto latino. ' 1
E conchiudo che una lingua universalmente da
ti 6 aH f lle S0le civili > o parlata o scritta]
0 uno e 1 altro, ed intesa come propria è impossi-
bile, non solo estrinsecamente e per ragioni estrin-
seche, ma per sua propria ed intrinseca natura e qua-
lità e proprietà ed essenza, non relativamente nJ
accidentalmente, ma essenzialmente, di necessità ed
assolutamente (24 agosto, di di San Bartolomeo,
* Mowre ncutro -- 0 ™ forma ellittica per movere se
o movere castra, come tra noi muovere (3263) neutro '
o ellittico (e cosi trarre), del die mi sembra avere
altrove notato un esempio di Ploro, vedilo appo Sve-
tomo in Ihvo Julia, cap. LXI, § 1 0 quivi le note degli
«uditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il '
Poliziano, Stanze, I, 22, dove troverai muovere neutro,
senza 1 accompagnamento del sesto caso, come ancora
m latino (24 agosto, di di S. Bartolomeo, 1823).
Alla p. 2889. Tumultuo e tumultuar da tumultua,
us. Acuo da acus MS ò della terza coniugazione per
una che stante la moltitudine, anzi la pluralità degli
esempi dimostranti che tali verbi sono regolarmente
'iena prima, possiamo chiamare anomalia. Cosi statuo
^s oa status us. Arcuo as da arem us (26 agosto 1823).
* Grasso?, aris continuativo di gradior eris. il cui
participio „ us oggi irregolarmente è .^m^, in an-
PENSIERI 281
(3263-3264-3265)^
71 come dimostra il detto continuativo, più rego-
larmente In Grama bensì no' composti i
anali ciano molti altri, mutano Fa di gradior m e;
Imredinr nqnrcdiov ec. Cosi ascendo ce. da scando, e
gSi wlò™ ili P. 2843 (26 agosto 1823). (3264)
* Mia p. 2864. Castello, chàteau, eastillo tengono
fra noi \l luoyo dol positivo costruiti, col <i" alc auohe
in latino bene sposso indifferentemente si scambiava
castdlum. o sì usava equivalentemente ec. (26 ago-
sto 1823).
* Francesismi familiarissimi, usitatissimi e volga-
rissimi in anolla. nazione, tatui mieux, tant pis, frasi el-
littiche o irregolari, e cho paiono veri idiotismi fran-
cesi, non sono ohe latinismi, anzi idiotismi, cioè
volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla l'avola 5,lib. Ili,
di Fedro. Acsojms et Petulans. ,Vodi anche il Por-
cellini so ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo
volgarmente e scriviamo tanto meglio, tanto peggio, ma
. in senso mono ellittico, più naturalo e regolare anzi
;■ per lo più rogolarissimo, o meno sovente assai do' fran-
| cesi (26 agosto 1823).
* Alla p. 2996, margine - vengono, ered'io, da medeor
I {medeo ancora si disse, poiché medeor si trova pure
passivo), non da medkus. Lo deduco appunto dal
veder mudimi- deponente come medeor (laddove me-
dico corrisponderà all'antico medeo), e dal vedere an-
cora che medivatus e medicati*» sum suppliscono pel
verbo medeor ohe manca del protorito e del participio
in us. Vedi Porcellini in Medeor, line. Voggasi la
p. 3352. sjrg., circa il continuativo meditar di medeor
fatto dal suo participio in us (26 agosto 1823). (3265)
* Si può diro che le viste, i disegni, i proponimenti,
i finirle sporanzo, i desiderii doll'uomo, tutto ciò in-
282 ' pensieri (3265-3266)
somma clic ne' suoi pensieri ha relazione al futuri
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano o ten '
dono, o giungono, lontano, quanto minoro naturali
monto è lo spazio di vita elio gli rimano, o viceversa
Niim pensiero del bambino appena nato ha relazione'
al futuro, se non considerando come futuro l'istante
che dee succedere al presente momento, perocché il
presento non è in verità cho istantaneo, e fuori di
un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato
o futuro. Ma considerando il prosente e il futuro non
esattamente e matematicamente, ma in modo largo
secondo che noi siamo soliti di concepirlo o chia-
marlo, si dee dire cho il bambino non pensa cho al
prosente. Poco più là mira il fanciullo; ond' è che
proporro al fanciullo (per esempio negli studi) uno
scopo lontano (come la gloria o i vantaggi ch'egli
acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza,
0 anche pur nella giovanezza), è assolutamente inu-
tile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utilo
l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori
o vantaggi eh' egli (3266) possa o debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come
un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria
e della utilità degli studi, senza il quale ravvici-
namento è impossibile eh' ei fìssi mai gli occhi in dotto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri allo
fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che ;
gli studi richieggono). Più si stendono lo viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo ma-
turo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano
bene spesso, senza eh' ei se n'avvegga, lo spazio
di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocché
1 uomo maturo comincia già a compiacersi suprema-
mente e contentarsi della speranza, e. pascerne la sua
vita. Della quale speranza si nutro parimente, e con
essa favella o delira ancho il giovano, o il fanciullo
altresì; ma non in modo che d' essa si contentino, o
(3266-3267-3268) votimi ^^283-
v , cerchino di prontamente effettuarla e recarla
foZ o venire al fatto. Il che Basca dall'ardore
S età, dall'attività dell'animo unita e cospi-
ro con quella del corpo, dalla (3267) freschezza e
P deliro amor ^ ^«Sg *
efficacia deMoro d -^r^^^l^Kc:
«prò non soitertmti rli piopoisi un
^Lno o eh' e, non credano di potere in poco = o
e dentro mi picciolo tornirne conseguire;
dall' inesperienza eh' egli hanno intorno alla vaniti
delle umane speranze, alla difficoltà che V nomo prova
in condurle a fino, e alla nullità oziarlo degli sto s
beni sperati, la quale, inevitabilmente apparisce cosi
tosto coni' ci sono posseduti. Le contrarie cagioni pro-
ducono la lunghezza e lontananza delle viste nel-
l'uomo maturo e l'eccesso di dette contrarie qualità prò
ducono l'eccesso del centrano effetto nella vecchiezza,
la quale, ridotta a non potersi ragionevolmente pro-
mettere più che un brevissimo avanzo oh vita pine
' nella estensione dello suo viste supera di gran Itmga
tutto le altro età dell'uomo. Perocché il vecchio pei
la debolezza di corpo e d' animo, e pel disinganno
de' boni umani già provati, e per lo illanguidimento
dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminu-
zione e raffreddamento (3268) della vita, non e ca-
pace se non di lievoli desideri!, e quindi si contenta
di propor loro uno scopo lontano e in esso tornarli,
e i suoi desideri! si contentano di rimanervi; per a
diuturna esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma le
indirizza a luoghi cosi lontani ch'elle non possano,
so non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione pro-
pria dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e
costretto di rimetterò eziandio e quasi ditìeriro le
sue speranze, e gli oggetti de' suoi desideru, e il
loro conseguimento ch'ei si propone, o oh'ei si com-
r
<28é PE Xsirani (3268-3269-3270Ì
piace, per dir meglio, di vagheggiare; e per Patito
della tardità e lentezza Dell'operare a cui la gravosa!
e 1' impotenza dell' età lo costringe, e per la pigrizia
e negligenza o torpore dell' animo che ne deriva e
n'è pur cagione, i suoi desiderii altresì e le sue spe-
ranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi tra-
scurato (benché sempre però bastantemente vive per
mantenerlo e quasi allattarlo, corno alla vita umana
(3269) indispensabilmente ricorcasi), ed ei giungo a
persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma con
r ini maginazione e con la non ragionata abitudine
dell' altre facoltà del suo spirito, che il tempo e lu-
natura e le coso sian divenuto ed abbiano a riusci,
cosi lente e pigro coni' esso necessariamente è (26
agosto 1828);
♦-•Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella
sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa
e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo
qualunque nel punto di una forte passione, nell'en-
tusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezza-
namente riscaldato dal vino, vedo e guarda le cose come
da mi luogo alto e superiore a quello in che la mente
degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi
0 che scoprendo in un sol tratto molte più coso ch'egti
non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo
d occhio discornendo o mirando una moltitudine di
oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non
mai tutti insieme (se non in altro simili congiunture),
egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti
scambievoli o per la novità di quella moltitudine
(3270) di oggetti tutti insieme rappresentantisegli,
«gli e attirato o a considerare, benché rapidamente,
1 detti oggetti meglio che por l' innanzi non averi
fatto, e eh' egli non suole; e a voler guardare e no-
tare i detti rapporti. Ond'è ch'egli ed abbia in quel
momento una straordinaria facoltà di generalizzare
286
(3270-3271) fe__i_i__ ______
tlia almeno relativamente a lui ed all'or-
£ no del 8 uo animo), e ch'egli l'adoperi; 6 ^
Lia scuopra di quello generali e pei cu,
fc ttHLdi o importanti, che indarno fuor di
C Punto e di quella ispirazione o quasi !-- ?
^"filosofico o passionato o poetico 0 altro
damo dieo, con lunghissime e pazientisene ed «at-
Se ricerche, esperienze, co ,ȣ ^^ggJT
menti meditazioni, esercizi della mente dell ingegno
E facoltà di pensare di riflettere ^ osserva ed
ragionare indarno, ripoto, non solo quel tal uomo
S filosofo, ma uaW altro o poeta o mge-
°no p^nque ò filosofo acutissimo « penetrassimo
anzi pur molti filosofi insieme cospiranti e i secoli
ZIZl successivo avanzamento dello sparto — ,
cercherebbero di scoprire o d'intendere o *>g£H*
siccome (3271) colui, mirando a ^ "J^ 1 ^
facilmente o perfettamente e pienamente fa a se desso
in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri pu
eh' ei sia capace di ben esprimere i propri concetti,
f£ blT 3 e chiaramente e distintamente presti
le coso allora concepito e sentite (2fa agosto 1823).
* Secondo ch'io osservo ') e che si
colle ragioni da me recate in altri luoghi, 1 abito
' compatire, quello di beneficare o d, operare in qua-
lunque modo per altrui, e mancando ancora la face a
l'inclinazione alla beneficenza e all'adoperarsi in
degli altri, sono sempre (supposta la parità delle ^altie
circostanze di carattere o indole, educazione, coltura
di spirito o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta
della forza, della felicità, del poco o muri bisogno
che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui ed m
proporzione inversa della debolezza, della infelicità,
dell'esperienza dello sventure e dei mah, sieno passati,
') Veggansi le imgg- 3765-8.
pensieri (3271-3272-3273)
o massimamente presenti, del bisogno che l'uomo h a
degli altrui soccorsi ed uffici. Quanto più V mmo è
in fatato di esser (3272) soggetto di compassione o
di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brami
e 1' osigo, ancho a torto, e si persuado di meritarla
tanto meno egli compatisce, peroeck' egli allora ri-
volge in se stesso tutta la naturai facoltà o tutta
l'abitudine, che forse per lo innanzi egli aveva, di
compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della
beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur bene-
fico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non
solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che
dagli altri desidera o pretende, o crede a torto o a
ragione di meritaro, o di abbisognarne. L' uomo de-
bole o sempre bisognoso di quegli uffici maggiori
o minori che si ricevono e si rendono nella società,
e che sono il principale oggetto a cui la sociotà ò
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe ser-
virò la scambievole comunione degli uomini; pochis-
simo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui,
c di rado o non mai, o bene scarsamente la presta,
ancor dov'ei può, ed ancora agli uomini pili deboli e
più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle sventure,
e (3273) massime quegli a cui Ja vita è sinonimo e
compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto I
inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri
mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un ossero
infelice è troppo occupato perdi' egli possa dividero
il suo interesse tra questo essere e i di lui simili.
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue I
proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle
che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui.
So le proprie sventure sono presenti, la compassione,
come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso,
in osso Ini si consuma, e nulla n'avanza per gli altri.
Se sono passate, posto ancora cho piccolissime fos-
sero , la rimembranza di osse fa che l' uomo non
(3273-3274-3275) PENSnSKI __ 287
KTnulla di straordinario né di terribile no' pa-
timenti c disastri dogli altri, nulla che meriti di
Lio corno rinunziare al suo amor proprio por im-
piegarlo in altrui beneficio; come già pratico del Bol-
lire erti si contenta di consigliar tacitamente e fra
«e «tosso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte,
| S i credo in diritto di esigerlo, quasi (3274) egli
medesimo n'avesse già dato l'esempio;- perocché cia-
scuno in qualche modo si persuade di aver tollerato
h di tollerare lo suo disgrazie e lo sue pene viril-
mente al possibile, e con maggior costanza, che gli
altri o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non
farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa
che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o
essoi-o stato indegno do' mali ch'ei sostiene o sostenne.
Oltre di che l'abito d'insensibilità verso 1 altrui scia-
gure contratto nel tempo eh' ei fu sventurato, non e
facile a dispogliarsene, si perdi' esso è troppo con-
formo all'amor proprio, che vuol dire alla natura del-
l'uomo, si perché grande o profonda è l'impressione
: che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole
l'effetto cho produce e che lascia, e ben sovente de-
cisivo del suo caratteri per tutta la vita, e perpetuo.
Io osservo (e n' ho presento a me stesso non un
solo esempio), che i giovani non poveri, o non op-
pressi né avviliti dalla povertà, sani e robusti di
corpo, coraggiosi, attivi, (3275) capaci di fornir da so
stessi a' loro bisogni, e poco o nulla necessitosi, ov-
ver poco o nulla ' desiderosi degli altrui soccorsi e
dell'altrui opera o fisica o morale, almeno abitual-
mente ; non tocchi ancora dalla sventura, o piuttosto
(giacché qual'ò l'uomo nato che già non abbia sof-
ferto?) tocchi da essa in modo ch'essi pel vigore della
età e della complessione, e per la freschezza delle forze
dell'animo, la scuotono da se, e poco caso no tanno;
questi tali giovani, dico, ancorché da una parte in-
tolleranti fin della' menoma ingiuria, ed anche prò-
288
PENSIERI (3275-3276-3277)
clivi all'ini; inclinati ed usi di motteggi Lire i pr J
senti e gli assenti ancor più ohe gli altri non tì0 no-
soverchiatori anzi che no, sia di parole, sia d'opere
eziandio ;- vedi p. 3282-3942, dall'altra parte, ancor-
ché abbandonati da tutti, e forso da quelli stossi che
avrebbero il più sacro dovero di prenderno cura, an-
corché sperimentati nella ingratitudine degli uomini,
e fatti accorti per prova della ninna utilità e gra-
zia, ed eziandio dol danno, che spesso risulta dal far
beneficio ; ancorché pronti e perspicaci d' ingogno, e
non ignari del mondo, e ben consapevoli quanto il
costume degli uomini sia rimoto dal beneficare e dal
compatire, e quanto altresì (3276) le loro opinioni ne
gli allontanino, o quanto gli uomini sieno genoral-
mente indegni ch'altri ne prendano cura; con tutto
ciò questi tali sono prontissimi a compatire, dispo-
stissimi a sovvenire agli altrui mali, inclinatissiini a
beneficare, a prestar l'opera loro a chi no li richiede,
ancorché indegno, a profferirla pure spontaneamente,
sforzando l'altrui ripugnanza d'accettarla e conoscendo
quella di ricercarla ; apparecchiati senza riservo o
senza cerimonie ai bisogni ed a procurare i vantaggi
degli amici : ed in effetto sono quasi continuamente
occupati per altrui più che per se stessi ; le più volte
in piccoli, ma pur faticosi, noiosi, diffìcili uffizi e
servigi, la cui moltiplicità, se non altro, componsa la
piccolezza di ciascuno ; talora eziandio in cose grandi
o notabili e che richieggono grandi o notabili cure,
fatiche ed anche sacrifizi. E ciò facondo, né presso
se stessi, ne presso i beneficati, né presso gli altri
attaccano un gran pregio ai loro servigi, né gran
conto ne fanno, né se ne reputano di gran merito
(quasi accecati e dissennati da Giove, corno dice
Omero di Glauco quand' egli scamhiò le sue armi
d'oro con quelle del Tidide ch'erano di rame): di
più poca o niuna gratitudine esigono, quasi ei fos-
sore stati tenuti a beneficare, (3277) o nulla avesse
PENSIERI
289
Joro costalo il benefizio ; non mai si credono in di-
ritto di ripetere il benefizio, o, costretti a farlo, lo
fauno con grandissima riserva e senza pretensione
alcuna, e riavendone puro una parte, o domandata o
spontanea, si tengono per obbligati essi a chi gli ul-
to» da loro prestatigli scarsamente rimunerò.
\ Tutto questo o parte, più o meno, nr è avvenuto
li notare ne' giovani della qualità sopra descritta, e
non solo in quelli elio per inesperienza elei mondo e
gentilezza di natura, con pienezza di cuore e con buona
fedo e semplieemonro sono trasportati versola virtù,
la generosità, la magnanimità, ponendo il loro mag-
gior piacerò o desiderio nel far bene e negli atti
eroici, e nella rinogazione e rinunzia e sacrificio di
se stossi ; ma eziandio, né disingannati del mondo e
posti in quelle circostanze che di sopra ho notate o
in alcune di esse o in altre somiglianti. Tatto ciò,
.dico, ho notato avvenire in questi cotali giovani,
mentre essi godono e sentono i vantaggi della gio-
ventù, della sanità, del vigore, e sono in istato da
bastare a so stessi. Ma o coll'età (3278) o innanzi
all'età, sopravvenendo loro di quegl' incomodi, di quegli
accidenti, di quei casi, 'di que' disastri fisici o morali,
da natura o da fortuna, elio tolgano loro il bastare a
se medesimi, elio li renda abitualmente o spesso bi-
sognosi dell'opera e dell'aiuto altrui, che scomi o di-
strugga in essi il vigore del corpo, e seco quello
dell' animo ; questi tali, come ho pur veduto per ispe-
rienza, di misericordiosi o benefici divengono a poco
a poco, in proporzione dell'accennato cambiamento di
circostanze, insensibili agli altrui mali, o bisogni, o
comodi, solleciti solamente dei proprii, chiusi alla
compassione, dimontichi della beneficenza, e intera-
mente circa l'ima e circa l'altra cangiati e vòlti in
contrario, si di costumi, si di disposizione d' animo.
Né solo a poco a poco, ma eziandio rapidamente o
Ttasi in un tratto, e nello stesso fiore della giovanezza,
Leopahui. — Pensieri, V. 10
290
PENSIERI (3278-3279-3280)
lio io veduto accadere tale cangiamento in persone
sopravvenute da improvvisa o rapida calamità di corpo
o di spirito o di fortuna, ondo il' loro animo fu attor-
rato e prostrato, subitamente o in poca d'ora, o crollato
e penduto mal fermo, e la loro vita fu soggettata
agi' incomodi e alla trista necessità dell'aiuto altrui,
(3279) e la sanità scossa, o il corpo svigorito, e si-
mili coso contrario alla loro prima condizione. In-
somma, al subito o rapido cangiamento delle circo-
stanze sopra notate, lio veduto con pari subitaneità
o rapidità corrispondere il cangiamento del cai-attore
e costume di tali persone rispetto al compatire, al
beneficare c all'adoperarsi in qualunque modo per
altrui.
E quelli che da natura, o per qualunque cagione,
fin dalla fanciullezza o dalla prima giovanezza e dal
primo loro ingresso nel mondo son tali quali i so-
praddotti divennero, cioè deboli di corpo e di spirito,
timidi, irresoluti, avviliti dalla povertà o da qualsi-
voglia altra causa fisica o inorale, estrinseca o intrin-
seca, naturalo in loro o accidentale e avventizia; sem-
pre o sovente bisognosi dell'opera altrui, avvezzi fin dal
principio a soffrire, a mal riuscire nelle loro intra-
prese, o ne' desiderii loro, e quindi a sempre scon-
fidai' delle coso c dolla vita e dei successi, e quindi
privi di confidenza in se medesimi ; più domestici
del timore o della trista espettazione che della spe-
ranza; questi tali, e quelli elio loro somigliano in
tutto o in parte, sono più o meno, fin dal principio
della loro vita o fino dalla loro ontrata (3280) nella
società, alieni o dall' abito e dagli atti della compas-
sione e della beneficenza, e dalla inclinazione o di-
sposiziono a queste virtù; interessati per so soli, poco
o nulla capaci d : interessarsi per gli altri, o sventu-
rati o bisognosi, o degni o indegni che siono dell'aiuto
altrui, meno ancora capaci di operare per olii clic
sia ; poco o nulla per conseguenza atti alla vera ed
(3280-3281-3282! ri^sii-nn 291
«jficaoe ed operosa amicizia, ben simulatori di essa
per ottenerne ciarli altri gli aiuti o la pietà di che
hanno mestieri, ed abili a farla servire ai soli loro
vantaci; .simulatori o dissimulatori eziandio gene-
ralmeuto in ogni altra cosa. E queste qualità diven-
gono in loro caratteristiche, di modo che l'amor pro-
prìo non e in essi altro mai ch'egoismo, o l'egoismo
è il loro cai-attore principalissimo; ma non veramente
per colpa loro, piuttosto per necessità di natura ; e
neanche [ter natura che di sua mano immediatamonto
abbia posto negli animi loro più che negli altri questo
pessimo vizio, ma perché dalle circostanze in che essi
o per natura o per accidente si sono trovati fin dal
principio, 1 328 1 ) nasce naturalmente c necessariamonte
questo tal vizio, l'orso più necessariamente e inevita-
bilmente c maggiore che da verun'altra cagiono. Vedi
p. 3846.
Da'quali pensieri si dee raccogliere questo corolla-
rio, che le donno, essendo per natura pivi deboli di corpo
c d'animo, e quindi più timido o più bisognose dell'opera
altrui che gli uomini non sono. sono ancho generalmente
e naturalmente meno degli uomini inclinate alla com-
passione e alla beneficenza, non altrimenti eli' elle,
per universale consenso, sieno generalmente e regolar-
mente meno schiette dogli uomini, più proclivi alla
menzogna e all'inganno, più feconde di frodi, più si-
mulatrici, più finte; tutte qualità, con molte altre
analoghe (che nelle donno generalmente si osservano),
derivanti per natura, niente più niente meno che la
sopraddetta, dalla debolezza d' animo e di corpo e
dall' insufficienza dolle proprie forze, de' propri mezzi
0 di so stesso a se stesso. K si può concludere che le
donne sono, generalmente parlando, più egoiste degli
Uomini, o più portate all'egoismo por natura (sebbene
le circostanze sociali che spesso rovesciano la natura,
e fanno (3282) talora le donno, anche prima che ab-
ituici formato il loro carattere, signore degli uomini,
202 l'KNSiRiu (3282-3283)
oggetti dello lor cure spontaneo, de' loro omaggi, sup-
pliche ec, ec, possano ben render vana questa dispo-
sizione), e naturalmente si troverà un maggior numero
di donne egoiste che non d'uomini. Cosi le nazioni e
i secoli più infelici, tiranneggiati oc. si vede costan-
temente che furono e sono 1 più egoisti ec. oc. (2(5-27
agosto 1823). Vedi p. 3291, 3361.
* Alla p. 3275, margine. Anzi quanto più questi,
tali son franchi, coraggiosi, non timidi dell' altrui
aspetto né dell'altrui conversaziono , schietti, aperti,
liberi noi parlare, nei modi, noli' operare, intolleranti
di dissimulare o di mentire (anche, talvolta, ecces-;
sivamente): e quanto più sono vendicativi dello in-
giurie, fieri con chi gli offende o insulta o disprozza
o danneggia, quanto mono molli o facili ai nemici,
agi' invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltrag-
giatori, agli offenditori qualunque ; ed eziandio quanto
più pendono a una certa soverchieria di parole o di
fatti verso chi non è né compassionevole né bisognoso,
amico o indifferente o nemico che sia ; proclivi o fa-
cili all'ira, anche durevole; tanto più sono misericor-
diosi e benefici verso gli amici o gli indifferenti (dan-
dosene loro 1' occorrenza e la facoltà ec, e in questi
il bisogno o 1' utilità ec.), o verso i nemici stessi e
gli offenditori, vinti che sieno, o già puniti, o chie-
denti scusa o perdono, o riparata che hanno 1' offesa,
o anche senz'altro caduti in grave disgrazia o bisogno,
ed avviliti ec. (tale fu Giulio Cesare, come si vede in
Svetonio). E il contrario accade negli uomini di con-
traria qualità: (3283) il contrario, dico, si quanto al-
compatire o beneficare chi che sia, si quanto al rimet-
tere o dimenticare le ingiurio. E di contraria qualità
sono gli uomini timidi, di maniere legate, deboli ili
corpo e d'animo ec, quali ho descritti a pagg. 3279-80
(27 agosto 1823).
(3283-3284; PENSIERI^ _____ __ __
mconfidito da confingo-conftetus o dal semplice
* issare o /wrtre, Recare, ^tor, Jtxer, fieher, da. figo-
f nv . Affinare, o da
E cw/fr/o oc ^orao anche /ito snstantivo e affittare
U d'altronde vengono che da .^«s, altro participio
di ,;, /0 , traendo il nome -dall'avviso pubblico che s noie
Lw« ali, sua casa o a' cantoni della citta ec. chi
Sole affittare essa casa, o possessioni, terre ec; il
Lle avviso o avvisi pubblicamente affitti n chiamano
in franceso affiches, da noi volgarmente ,#.«. Sebbene
la preposizione « in <tf*»« sembra essere espressa-
Lente a-iunta al sostantivo jìtóo per esprimere il dare
nUcome ni francese ^ da /e«e, e tra n
volgarmente enotere (3284) da nolo Vegga* per tutto
le suddette voci il glossario se ha nulla (27 ago-
sto 1K23).
* Al detto da me circa 1' anomalo participio arso
' che il Perticar! credo di ornare e non di ardere, del
quale egli è puro in latino, cioè di ardeo ar««; si
può aggiungere che la lingua italiana (ed anche le
sue sorelle) bene spesso, secondo che la lingua latina
ha diversi participi! d> un solo verbo diversi n ha
ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari
o irregolari che siano quanto all'analogia latina o ita-
liana. Ter esempio da figo-fixus-fictus, jiggere-fisso,
fitto. Talvolta ella ha quello ohe corrisponde ali ana-
logia italiana, e insieme quello che il verbo ha nel
latino, sia regolare participio o anomalo m esso a-
. tino. Del che ho detto altrove. Talvolta ec. ec. (27
agosto 1823).
* La lingua greca, secondo che si può vedere a
p. 2774-2777, e più largamente o distintamente per
capi presso i grammatici, ebbe in costume di alte-
2 94 l'ENSrrcm (3284-3285-3286)
rare notabilmente le sue radici, ') per esempio i teil
de' suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di deriva-
zione e di composizione, e senza punto alterarne il
significato, ma (3286) semplicemente la forma estrin-
seca e gli elementi del vocabolo. Ondo i verbi j n .» li
trasmutavano in verbi in u, 1; dei temi ad altri aggiunì
gevano le lettere av, o li facevano terminare in «v«3
ad altri aiv, e li terminavano in «ivo), ad altri zv~4>
e li finivano in axoi ( ma questi non erano sempre al-
terati dal tema, ma da un altro tempo del verbo:
vedi i grammatici), ad altri duplicavano la primi
consonante, interponendo una vocale, corno l'iota
(jttnpàoxu») ec. Spesso si mutava la desinenza, vol-
gendola in E{u> ec. senza mutazione di significato: v:,u-
oàai-vejieotfa,, Birctto-gaittJt*, ec. ec. E di questi verbi
e temi cosi alterati materialmente senz' alcun' altera!
zione di significato, altri restarono soli venendo a
mancare il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri
restarono insiome con questo, altri insieme con altri
verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec. eoi
Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo pri- '.
mitivo in molte voci, anomali, regolari oc. ec, del che
vedi i grammatici. E queste alterazioni do' verbi pri-
mitivi e de' temi (e cosi dell'altre radici), alterazioni
affatto diverse, distinte e indipendenti dalla deriva-
zione e dalla composizione che anche nello altre lingue
hanno luogo: alterazioni che per niun conto influivano
né modificavano il significato (come influisce e modifica,
o suole por lo più, e regolarmente fare , la composi-
zione e la derivazione), non furono (3286) già nella lin-
gua greca quasi casuali, rare, fuor di regola e di costu-
me e d'ordino, quasi anomalie, aberrazioni, non proprio
) Ciò o per In varietà de'dialetti, o per altro, in modo puro che la
voci formate per tali alterazioni sono goneraltnento proprio degli »t;rit- ;
torrgreof o do' poeti; ondo a noi partoriscono la stessa difficoltà, qiinl ss
','-"„. , ral »' 1 ""' ) 0 '' o ri 8iao o quando questa pur lusso particolare, I"
qimouKà Afta noi no viene è ordinaria e generate eo.
*) Da k:^ o da iptOu tql 7X5fuu, dóppia alterazione.
(3286-3287i iiswfe " Jh>
Knalin-ua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, abi-
& o Scolari, «ri» fatto per regola, come appansce
'ran numero di temi e verbi che si trovano alterati
k questo o quello do' suddetti modi e degli altri die
g 'ebbero dire; onde i grammatici distinguono
siffatto alterazioni o modificazioni affatto material!
- in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radu-
Hano un -ran numero di verbi o temi, in quella tal
Lea uniformemente alterati dal primo loro essere.
fLesta tal sorta di alterazione, questo modo di alte-
rare le voci, indipendente e diverso affatto dal deri-
vare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla
mutazione o pur modificazione di senso, non si trova
Unto nel latino; certo non vi si trova per costume
né por regola né d'assai cosi frequente, ne cosi
vario oc Perloché anello di qui si faccia ragione
quanto più nel greco che nel latino sia difficile il
rintracciare le origini, l'antichità, il primitivo o \ an-
tico stato dello voci e della lingua, o della (32871
grammatica, le radici, l'etimologie oc, Massime con-
siderando che detta materialissima alterazione _ si _ la-
tto» mica in uno o in duo, ma in molti diversissimi
' modi, tutti però frequentatissimi e usatissimi; elio
moltissimi verbi o vocaboli cosi alterati hanno man-
dato in disuso i non alterati ec, die naturalmente
moltissimi verbi cosi alterati, essendo perduti quelli
della primitiva forma, saranno da noi creduti aver
la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non
■ saranno che alterazioni di queste, più o mon lontane,
mediate o immediate, maggiori o minori ec. ec.
Usa ancora la lingua greca alcune derivazioni
di voci, per esempio di verbi, ohe nulla pero cambiano
il significato, e il non cambiarlo non è m esse ano-
malia, o cosa non ordinaria, come lo sarebbe m la-
tino, ma ordinaria e regolare. Voglio dir, per esempio,
di quella maniera siracusana di formare dal perfetto
de' tomi un nuovo verbo, come da ™W,v.« di *v«»
236
pensieri (3287-3288-3289)
l'aro TsS-vf|Kuj, da £o«]xa di oxàui, éai'fjv.iu, da nsiouxa di
ifiim, itsyóxto (e queste maniero, con siffatti verbi, BO no
ricevuti!, massima da' poeti, ma anche da' prosa-
tori greci, generalmente) ; e di queir altra manieri
greca di l'are dal futuro primo de' tomi un nuovo
verbo, aggiungendovi il %, conio da xpii*» (inusitato]
Tpiicoj, Tfióav.uj inusitato, ondo TiTpioay.cu. (vodi i gramma-
tici se però è vera questa maniera, e non piuttosto si
fa, per esempio, Tpiócxio dal tema stesso, cioè , in-
terpostovi or., come da ?C«> ì£óvu>, interposto (3288) l'av-
verbio ec.ec). Questo o tali altro molte derivazioni senza
cambiamenti di significato, che perciò appunto hanno
contribuito sommamente a perdere o distruggerò le voci
originarie, e contribuiscono a nasconderle, e renderno
difficile F investigazione e confondere l'erudito, e di-
videre i grammatici in cento diversi sistemi c opi-
nioni, si circa le regole più o men generali, si circa
le particolari etimologie ee. ec; non hanno luogo nella
lingua latina, o certo assai meno senza confronto oc. oc.
(27 agosto 1823).
* Ajwtter quasi adiunctare, aggiuntava, spagnuolo
jimtar, da adiungere. Anche il nostro giuntare, è da
iungerc. Vedi la Crusca in Giungere , § 7 e il glos-
sario in iunctare, adiunctare. ec. se ha nulla (28 ago-
sto 1823).
* Succenseo è verbo, secondo me, indubitamente for-
mato dal participio in us d'altro verbo, cioè di suo*
cendo (vedi anche il Porcellini in Censeo, fine). Ma
oltre al non essore della prima maniera, ei non solo
non è di senso continuativo, ma è neutro nel mentre
che succendo è attivo. Onde nulla ha cho fare colla
nostra teoria : se non eh' è notabile, come fatto da un
participio passivo, della qua! formaziono (3289) non
mi ricordo adesso altro esempio che sia fuori del nu-
mero de' nostri continuativi e frequentativi (28 ago-
sto 1823).
297
(3289-3293' _-'
^Wor «W- ftr-art-fto* -Verbo
Lmo con «, e s' altro yo n ha (fato
da ,m toma monosillabo), dove Va del participio
R»*» si muti, nella formazione del continua*
l tivo, in /: a-osto 1823).
' * Mi-i li 3246. *Wwp> a< da f«/o il (vedi Forcel-
U „iì to nata etimologia 6 vera (noi abbiamo g»,
Rimonte fali<,a, trance se spaglinolo JU«a.
' So ( Sta sia li radice di tal verbo ? Certo ella è
, voce comune a tutte tre le VW *f^™j£
' caso dovrei»!»' olla esserlo ancora di fatecc pe ««
; ^o ì il che non parrebbe probabile. Vedi U glos-
C; selm nulla). ^ ha dal participio ^
-v acMo, e dall'antico e rog lai
Potato continuativo o frequentativo ^ ^ ° r "
: Uff* «« I»H8a aver nulla che tare con questo discolo
|' (28 agosto 1S23).
* Sogliono le opere umane servire di modello sue-
I cesiamente l'uno all'altre, e cosi a poco a poco pe , -
: legnandosi il genere, e ciascuna opera o le p g
d'esse riuscendo migliori de' loro modelli fino a l in
: toro perfezionamento, il primo modello apparire ed
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte
V altre, per infine alla decadenza e corruzione d esso
genere', che suole altresì ordinariamente succedere
all'ultima sua perfezione. Non cosi nell epopea; ma
per lo contrario il primo poema epico, cioè 1 litote,
' che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il pm
perfetto di tutta. Più perfetto dico nel modo che ho
dimostrato parlando della vera idea del poema epico,
p. 3095-3169. Secondo le quali osservazioni da me
fatte si può anzi diro che siccome l'ultima perfezione
dell'epopea (almen quanto all'insieme e all'idea della
medesima) si trova nel primo poema epico che si co-
nosca, cosi la decadenza e corruzione di qnosto ge-
pensieri (3290-329 1-3292)
nere incominciò non pili tardi che subito dopo il
primo poema epico a- noi noto. Similmente negli altri
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti
modelli ed opere sono le più antiche, o assolutamente
parlando, o relativamente alle nazioni e letterature
particolari, (3291) come tra noi la Commedia di Danto
è nel suo gonere, siccome la prima, cosi anche la
miglioro opera (28 agosto 1823).
* Alla p. 3282. Bisogna distinguere tra egoismo
e amor proprio. Il primo non ò clic una specie del
secondo. L' egoismo ò quando l' uomo ripone il suo
amor proprio in non pensare che a se stesso, non ope-
rare che per se stesso immediatamente, rigettando
P operare per altrui con intenzione lontana o non bon
distinta dall' operante, ma reale, saldissima e conti-
nua, d'indirizzare quelle medesime operazioni a so
stesso come ad ultimo ed unico vero fino, il che l'amor
proprio può ben faro e fa. Ho detto altrove che l'amor
proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto mag-
giore quanto è maggiore la forza e l'attività del-
l'animo, e del corpo ancora. Ma questo, ch'è verissimo
dell' amor proprio, non è né si dove intendere del-
l'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini
poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno
egoisti dei fanciulli e dei giovani, degli antichi, degli
uomini sensibili e di forte immaginazione. (3292) Il
che si trova essere appunto il contrario. Ma non già
quanto all' amor proprio. Perocché 1' amor proprio è
veramente maggioro assai ne 1 fanciulli e ne' giovani
che ne' maturi o ne' vecchi, maggioro negli uomini
sensibili o immaginosi che ne' torpidi. >) I fanciulli, i
) Clio l'amor proprio sin maggiore no' fanciulli o ne' piovani elio
nell'altro età, segno «' l'i quella Infinita e sensibilissima tBueroisza verso
w stessi, e (niella suscettibilità o sensibilità e delieatosaa intorno a se
medesimi ohe coli' andar degli anni o coli' oso della vita proporzionata*
niente si scema, e infine si suol perderò.
(3292-3293) ^imtswn
JtZni, gli uomini sensibili sono assai più teneri di
Ressi che noi sono i loro contrai. Cosi genera -
Luto furono gli antichi rispetto ai moderni, e i sei-
K rispettosi civili, perché più forti di corpo prà
Irti ed attivi o vivaci d'animo e d> immaginazione
TU le circostante fìsiche, si per le morali), meno
disingannati, e insomma maggiormente e pra inten-
Kmente viventi (dal che seguirebbe che gli antichi
fossero stati più infelici generalmente de moderni
secondo che la infelicità è in propomon diret^ . de»
Caggiore amor proprio, come altrove ho ino sa io
L l'occupazione e l'uso delle proprie fox», la ^«tor
Sene e simili cose, essendo state infinitamente mag-
giori in antico che oggidì; e il maggior grado di
vita ivtrvmv. essendo stato anticamente più che m
(3293) proporzione del maggior grado di vita inte-
re, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli
antichi fossero anzi mille volte meno infelici do mo-
derni: o similmente ragionisi de' selvaggi e de ci ■ -
li: non cosi de" giovani e de' vecchi oggidì, perche
a' giovani presentemente è interdetto il selciente n o
delle proprie forze e la vita esterna della quale tan o
ha quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la
quale e per l'altre cagioni da me in più luogh i accen-
nate, maggiore presentemente e 1 infelicità del gio-
vane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso
Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto a!
forti, e simili). ' ■ „„„
II sacrifizio di se stesso e dell'amor proprio qua-
: lunque sia questo sacrifizio, non potendo esser tatto
(come niun' altra opera umana) se non dall ainoi pro-
prio medesimo, e d> altronde essendo opera straordi-
naria, sopra natura, e più che animale (certo m ninno
altro animale o ente non se ne vede esempio se non
nell'uomo), anzi più ancora che umana, ha bisogno
di una grandissima e straordinaria forza e abbondanza
di amor proprio. Quindi è che dove maggiormente
300 _j>ENSiwii ^ (3294-3295)
(3294) abbonda l'amor proprio, e dov'egli ha mZ
gior forza, quivi più frequenti e maggiori siano i «a-
crihzi di se stesso, la compassione, l'abito l'inclina-
tone e gli atti di beneficenza (vedi a questo proposito'
le pagine 3107-9, 3117-19, 3153-4, 3167-9). Ond'é
che tutto questo debba trovarsi, e si trovi infatti, mag-
giore e più frequente ne' giovani, negli antichi; nocli
uomini sensibili e d'animo vivo, e finalmente ne -li
nomini, i quali l laim0 , generalmente parlando, mag-
gior quantità e forza d'amor proprio e minore d' egoi-
smo; di quello che ne' maturi o ne' vecchi, ne' mo-
derni (eccetto quanto alla compassione, come ho detto
no luoghi qui sopra citati; perché gli antichi non si
sacrificavano elio principalmente per la patria), ne' tor-
pidi e insensibili c duri e d'animo tardo e morto e
per nne nello donne; i qua li in genere hanno maggior
quantità e forza d'egoismo, c minore d'amor proprio
Restringendo il discorso conchiudo in primo luogo
tanto esser lungi che l'egoismo sia in proporzion di-
retta dell amor proprio, eh' egli (3295) n' è anzi in
proporziono mversa; egli è segno ed effetto o della
scarsezza e languidezza primitiva, o dello scoiamento
e afhovolimento dell' amor proprio ; egli abbonda
maggiormente ed è maggiore ne' secoli, ne' popoli nel
sesso, negì' individui e nelle età di questi, in che la
vita o minore, o quindi l'amor proprio pili scarso, più
debole e freddo.
Conchiudo in secondo luogo che i vecchi e ma-
turi, i moderni, gl'insonsibili, le donno hanno mag-
giore egoismo e minoro e men vivo amor proprio che i
anciulh e i giovani, gli antichi, i sensibili, gli uomini
(perocché quelli hanno men vita o vitalità, e l'egoi-
smo è qualità o passione morta, ossia men vitale che
si possa). ) E per questa cagione sono naturalmente e
1' nomo' fZa^T, che lo «»«'<>. «vo-db mono vite <W
..omo, crocci,,; !■„„„„ Inouo gpiHUl 0 pW ^ fl fl| ^fai*.
(S295-3296-3297)_ E^SMSi
LT^isposti e meno soliti di sacrificarsi por ehi o
ohe che sia, di compatire ^ efficacemente o ineffi-
Kromente di beneficare, di adoperarsi per altiui. il
ts'ede effettivamente essere, e non p«ò negarsi
ErettLto dicasi dei deboli e f ^
Ritualmente e degli abitualmente fortunati, o simi
tutte qualità (3296) alle quali corrisponde e da e
quali nasce in questi maggiore, in ^f\^7\-
talità ed abito di maggiore o minore attività , e vite,.)
Se non che potrà farsi un'eccezione m favor delle
donne quanto alla compassione, massime inefficace.
Po cché a questa, come s' è detto .^.^«J*
qui dietro (p. 3294), si richiede o giova, non solo a
maggior vita, e quindi la maggior quantità e foiza
ffimor proprio, ma eziandio la maggiore raffinatezza
o del Si d'esso amor proprio e dell'animo: nelle
i« proprietà le donne sono forse, o c. rto son rip-
to eli, superiori generalmente, e :n parità 4 .«£
costanze agli uomini. E cosi pure discorrasi de n o
£S SpeL agli antichi. In tutto ci6 che ne la
compassiono o nella beneficenza -^-de Piuttosto de
licatézza o più delicatezza, finezza, e quasi abilita ea
STo d'amor proprio, che vivacità, energia, terza
e opia del medesimo, e che abbondanza
di vite; in tutto ciò, dico, e in quello eh o ad e»
^rtieue, le donne, i moderni e «ju# idto ^
predette qualità di deiicatezza sono loro analoghi, (3297)
3to e non vive oc, flettono ayer *mm ^■&^tJg$&
cresca i'eoolnnio, onde 1- estere il l>in inorganizznto na in cui il
V "' "tintt ! 3* 1» lo cagioni, corno tofintaoono M pi* . g?
, nfl „ W 8U l più o mopo deU-a.no» pwprin, e ,u «di « ota *. -
„ onlndi anche della aiapoalrione nataralo. «la , tìiMrtóoro»,
lenza oc. Veggansi lo pagg. 2757-5, 2926, nn^JS,
ili. (3297-3298)
superano, ordintóamènte parlando, gli uomini, gli an-
tichi, i selvaggi, i villani e cosi discorrendo Coni
torme appunto allo cose detto nelle succitate pagine
Und e elio le donne, in quanto più deboli e bi-
sognose d altrui, sieno meno misericordioso e benefi-
che dogli uomini; in quanto di corpo e d'animo più
delicate al contrario. Ma in ciò quelle qualità, cioè
la debolezza e il bisogno, credo die ordinariamente
prevaghano e sieno di maggiore e più notabile effetto
che questo, cioè la delicatezza e simili. Onde tutto
insieme compensato, lo donne sieno in verità ' se-
ralmente e per natura, più egoiste, e quindi meno
misericordiose (massime in quanto alla compassione
efficace) e meno benefiche degli uomini. Perocché
molto maggior parte ha nella beneficenza, nella di-
sposizione e nell'atto del sacrificar se stesso, e nel-
l'esclusione dell'egoismo, l'intensità, la forza, l'ab-
bondanza della vita, e quindi dell'amor proprio, che
la delicatezza e raffinatezza dell'animo disgiunto dalla
torza ed energia ed attività ed interna vivace vita del
medesimo. E ciò non pur negli uomini rispetto (3298)
allo donno, ma generalmente in olii che sia, rispetto
a chi che sia ') (28 agosto 1823). Vedi p. 3314.
* Circa il verbo pascito, e il regolare e primitivo
participio di pasco ch'egli dimostra, cioè paseitus, poi
contratto in pastus, vedi Porcellini in line di Com-
pesco, eh' è un composto di Pasco (29 agosto 1823).
* Distito <h disto, dimostrerebbe il suo participio
distatits o il supino distatttm, se però quel continuativo
o frequentativo è vero. Il superlativo statum di sto è
noto. Del resto veggasi la p. 3848 (29 agosto 1823).
eran toÌ^*L*r" d 1 i ' ,CM ' ai ,ln ' 1 *■* «ko''I«. mMrime Minella
gran socieU, ,luV essere la piti egoista porgono urani,» (per natola o re-
goIavi.ici.te pai-lamio) elio i>o 9 «a concepirai
<3 298-3299) _ _MKBBttl ■ ■■■ V \ 1
tluTp. 2843. Compesco, dispesco da . pasco. De-
Mrpo, discerpo ec. da carpo (29 aguato 1823).
I * Ofenso as (offemer), deferito as, dfmUo as {di-
ìfensJé) da offJus, defensus di •#»*>( ^
. a g OS to 1823).
• Pattare, impattare, empatar, non so s' abbiano a
far nulla con paeiscor-pM. Veggàsi il glossano m
I proposito (29 agosto 1823).
* Alla p. 3072. I verbi latini ^^"g*
Inariamoiite il participio in con «xgmhca to neutio.
! Quieturus cioè qui quiescet (Svetomo in J^J^r
i c XVI 5 2), tu»™ cioè qui moneto*, cosww, ci««
j 2 „i (3299) «cbt, cioè qui vivet, ft altri tali
l infiniti. Perché non dunque M <^£"gg £
U cioè ? «i ceeidU (massimo avendovx il ve ale co
Z us fatto, come altrove osservo, esser solito, dal
SiSic in us) 8C? quando pur sembra clic quei
|S3i in J 0 derivino o almeno «HQgWg
participii rispettivi in us Quanto ,» '■«^•^SJjg
},, st ' ragione , considerando che x loi paiticipn
n «n ino paUvi ma attivi, non dovrà i *e gran
maraviglia, nó parere incredibile, che anche i loro par-
tii in * avessero, oltre il passivo significato, ezian-
altri due suoi composti e da «nfccelta, vedi il loicel
Sof^'s'io dico che i continuativi e i ireqnen-
**hÌa iSvano da' participi in us, piuttosto che
KpS/^S ^ o ìA -tendo dell'origine di que-
304
p ensieri (3299-3300-3301)
sta formazione e de' suoi (3300) primi tempi e del-
l' antichità ec. In séguito, quando anclie l'altre pro-
prietà di tali verbi cosi formati erano già mai note
trascurate, cambiate ec, come altrove ho detto non
contendo, che chi voJesBe formare nuovi verbi di' que-
sto genere non li formasse piuttosto dal supino ohe
dal participio m us del verbo originale (sia che questo
participio non esistesse più, 0 che fosse per anebe
muso), o vero indifferentemente dall'uno o dall'altro-
o che mancando ancora il supino, non facesse che se-
guire 1 analogia degli altri verbi cosi formati Sola-
mente osservo : 1", Glie non perché molti continuativi e
frequentati*» cha si le S£°™ "egli scrittori dell'aureo
bempo o de molto posteriori, non si trovino ne' più an-
tichi, si dee perciò sempre o facilmente conchiudere
eli essi fossero allora nuovi, o coniati appunto da
quello o da quegli scrittori, o in quo] secolo in cui lo
troviamo. 2°, Che l'uso di participi! in us di V6rbl
neutri, e d'altri di verbi attivi in significati attivi,
non fu solamente proprio dell'antichissima latinità
ma anche dell'aurea o della declinante e corrotta
eziandio (imo forse a passare allo lingue (3301) figlie-
vedi la p. 3072), come apparisco dal luogo di Veììeio
altrove da me notato, o dai varii esempii degli autori
che usarono i cosiffatti participi! da me sparsamente
notati (i quali esempi si possono vodere nel Porcel-
ini), sia che li prendessero a uno a uno da' più an-
tichi, o dall' uso d'ora, o che P uso durasse in ce-
nere per tutti o quasi tutti i verbi neutri e attivi,
ad arbitrio dello scrittore e del parlatore, o pur del-
l' uno soltanto o dell' altro ec. (29 agosto 1823).
staleT V'i° m0 5* qUaSÌ h,tt0 °^ ra doll ° circo-
n lui Sì ; <1U K lte dl qrtelIe medesi ™ inali» che
che non d altronde mai si credono poter derivare che
"(3301-3302-3303) i'Knkikul _ 30 ^
dalla natura, né por ninn modo acquistarsi, a neces-
sàriamente in Lui svilupparsi o comparire, non altro
sieno in effetto elio acquisite, e tuli che nell'uomo
• posto in diverso circostanze, non mai si sarebbero
f sviluppato, né sarebbero comparsole per ninn modo
i esistite: come la natura non ponga quasi (3302) ncl-
U'uonio altro elio disposizioni, ond' egli possa essere
[ tale o tale, ma ninna o quasi niuna qualità ponga in
lini- di modo elio l'individuo non sia mai tale quale
Igìi e, per natura, ma solo per natura possa esser
talo. o ciò ben sovente in maniera che, secondo na-
tura, tale ci non dovrobb' essere, anzi pur tutto l'op-
■ posto: come insomma l'individuo divenga (e non na-
| sca) quasi tuttociò ch'egli è, qualunque egli sia, cioè
• sia divenuto. Qual cosa pare più naturale, più inar-
i tifizialo, più spontanea, meno fattizia, più ingenita,
mono acquistabile, più indipendente e più disgiunta
dallo circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere
di sensibilità con cui P uomo suol riguardare la donna,
e la donna l'uomo, od essere trasportato l'uno verso
l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di senti-
menti elio l'uomo, e massimamente il giovane nella
prima età, senz'ombra di artifizio, senza intervento
di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane,
più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo^ea-
rattoro (3303) è stato modificato e influito dall'uso
del mondo e dalla conversazione degli uomini e pra-
tica della società, «noi provare alla vista o al pen-
siero di doune giovani e belle, o nel trattenersi seco
loro; o cosi le donno giovani cogli uomini giovani e
belli ? quel trassailkment, queir emoziono, queir on-
deggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti
tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi,
che parto par che abbiano del materiale, parte dello
spirituale, ma molto più di questo, in modo che par
eh' egli appartengano interamente allo spirito, anzi
alla più alta e più pura e più intima parte di esso?
LftOF Aitili, — PettffÉWi, V. 2fl
806
Or questo genero di sentimenti e di affetti e di pon-
siori, questa qualità del giovano, cioè questa tale
sensibilità, o la facoltà ed abito di provare questi sif-
fatti sentimenti, non è por ninn modo naturalo né
innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle
circostanze, e tale che so queste non fossero state,
V uomo neppùr conoscerebbe né potrebbe pur conce-
pirò questa qualità, né anche sospettare d' esserne ca-
pace. (3304) Il genere umano naturalmente è nudo, e,
seguendo la natura, almeno in molte parti del globo,
egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti, sic-
come lo vesti sono affatto ignote, per osempio, ai Ca-
lifornia Né l'uomo né il giovane non avrebbe mai
veduto né immaginato nelle donne (e cosi la donna
negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di
nascosto, né potendo desiderare o sperar di vedere,
o ben conoscendo fin dal principio la nudità e la for-
ma dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato pol-
la donna altro affetto, altro sentimento, altro deside-
rio, che quello che per le lor femmine provano gli altri
animali ; né avrebbe concepito intorno a lei altro pen-
siero che quello di mescersi seco lei carnalmente : né
l'aspetto o il pensiero o la compagnia della donna
avrebbo in lui cagionato, neppnr nella primissima
gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più
puramente o semplicemonte sensuale che possa mai
dirsi, un impoto a soddisfare tal dosiderio, ed un
piacoro (molto languido in so stesso per 1' abitudine
e l' assuefazione incominciata sin dalla nascita, e
sempre continuata) altrettanto carnale che quel de-
siderio, e interamente, unicamente (3305) o manife-
stissimamonto matoriale, cioè appartenente o d eri vanto
dalla sola materia o dal senso, né pili né mono che
quel piacere che in lui avrebbo prodotto la vista di
un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se
non solamente che quel diletto sarebbe stato per na-
tura maggioro di questi; siccome tra gli altri dilotti,
'(3305-330G-3307) p e nsieri ^
feralmente o por circostanze, qual è maggioro
tìnft l ò minore, non in so, ma rispetto agli uomini 0
Lli animali, insomma agli esseri che h provano, o
ne' quali ossi diletti nascono ed hanno 1' essere.
Tale sarebbe stato l'uomo in natura per rispetto
alla donna, o la donna per rispetto all'uomo. Ma in-
trodotto l'uso do' vestimenti (e di più que' costumi e
amilo le<ri fattizio od arbitrario di società che im-
pediscono o diffidatane il torli di mezzo quando si
voglia od occorra), la donna all' «omo (massime al
, giovane inesperto) e l'uomo alla donna sono divenuti
esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascosto hanno
lasciato luogo all'immaginazione di chi le mira cosi
vestite. Per 1' altra (3306) parte l' inclinazione e il
desiderio naturalo dell' un sesso verso l'altro non ha,
per questo cangiamento di circostanze esteriori, po-
tuto né cessare né scemare nel genere umano, mente
più che negli altri animali. L'uomo dunque (e cosi
la donna verso 1' uomo) si è veduto sommamente e
sopra tutto le cose trasportato, coni' ei fu sempre,
verso un essere il quale non più, come prima, se gii
rappresentava e se gli ora sempre rappresentato di-
nanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto qua e e
quanto osso ò; ma verso un essere quasi del tutto a
lui nascosto, un essere che sin dalla sua nascita non
so gli è rappresentato né agli occhi né al pensiero,
o non suole rappresentarsegli, che velato tutto e quasi
arcano. Ecco da una circostanza cosi estrinseca, cosi
accidentale, cosi removibile, coni' è quella do vesti-
menti, mutato affatto, massime nella fanciullezza e
nella prima gioventù, il carattere e le qualità doli un
sesso rispettivamente all'altro. La vista, ir pensiero,
la conversazione di (3307) questo essere sopra tutti
e invincibilmente amato e desiderato, ma le cui torme
non cadono (almeno abitualmente) sotto i suoi sensi,
e che por conseguenza, essendone celato lo formo
(ohe sono si gran parte e dell' uomo e d' ogni cosa),
(3307-3308)
e di phi impeditane o fattane difficile la libera con-
versaziono, e quindi anche l'intera conoscenza del suo
arimo, costumi oc, per conseguenza, dico, è dive-
nuto per lui tutto misterioso; il pensiero, dico, e la
vista e il consorzio di questo essere l' immerge in
una quantità di concezioni, d'immaginazioni, d'illu-
sioni, di sentimenti vivissimi e profondissimi, porclió
quell' essere gli è per natura dolcissimo e carissimo,
ma nel tempo stesso confusissimi, incertissimi, per
lo più falsissimi, sublimi, vasti, perché quel mede-
simo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso
e quasi cosa segreta ed occulta, i pensieri o i senti-
menti eli' esso gli desta sono tutti capitalmente e
quasi esclusivamente governati o modificati o figu-
rati, e in gran parte prodotti e creati, dalla fantasia,
e questa (3308) gagliardamente mossa. Nello stato
naturale 1 ! inclinazione innata dell' uomo verso la
donna, trovando tutto aporto e palese, e niun luogo
avendovi alla immaginativa, ella non proci ucea che pen-
sieri e sentimenti semplicissimi, distintissimi, chiaris-
simi, materialissimi. Ora essa inclinazione, esso amoro
ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo, tro-
vando il mistero, o i loro effetti congiungondosi nol-
l'animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir
con un'idea oscura e confusa, oscurissimi o confusissimi,
ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volto meno sen-
suali e carnali di prima (poiché la detta idea non viene
immediatamente dal senso ec), o finalmente quasi
mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che ri-
sultano da questa mescolanza di sommo desiderio
e tendonza naturalo, o d' idea oscura dell' oggetto di
tal desiderio e tendenza. ') E cosi da una circostanza
') K perù 1' uomo si rappresola In donna in gonere, o in ispocio
qnella ch'egli ama, corno cosa divina, etmit: un onto dì stirpo direna
dulia alia ec. Psrocchtì la Datura gliela proponi? conio dcsuìm-abilissima «
iiiiuUiilÌBHima. , liì eireoHlaiuo gliola rendono dusidoratissimn (perocoli 1 »i
1\oì\ pnc\ i'acilmonte 116 subita ottenerli) ed eawe nitrosi gli nascondono
quale ella sia teraiuente oc.
ano
(3308-3309-3310) viimmm
Lu materiale, com'è inolia do' vestimenti (e come
Za l'altro cagionato dai costumi o leggi sociali
L donno), nasce nell'uomo un effetto il più spirituale
rt309 ) quasi, che abbia mai luogo nel suo ammo; »
wnsiori e i .sentimenti più sublimi e più nobili e più
Lpri dello spirito, la persuasione di non esser mosso
che da esso spirito ec. ec; da una circostanza cosi reale
e visibile o determinata nascono in lui lo maggiori
illusioni i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri,
la maggioro oporaziono della più fervida e più deli-
rante e sognante immaginativa; da una circostanza
cosi accidentale un effetto cosi intimo, cosi generale
noi più de' giovani (almeno per un corto tempo),
cosi costante, cosi connesso e proprio, a quel che
pare del carattere dell'individuo; finalmente da una
circostanza non naturale nasce un effetto che univer-
salmente si considera come il più naturalo il più
proprio dell' uomo, il più assolutamente inevitabile,
il mono acquistabile, il meno fattibile, il meno produ-
cibile da altra forza che dalla stessa mano della natura,
il più congenito oc, secondo che ho detto di sopra.
Cosi e per questo cagioni nacque noi genero umano
tra 1' uno o l'altro sesso la tenorezza, la quale ì sel-
vaggi non provano e non conoscono (né gli uomini
primitivi provarono, né una nazione dove non s usino
lo vestimenta ec. (3310) proverà o conoscerà mai) sic-
come niun altro degli effetti sopra descritti, anzi nep-
pure, propriamente parlando, l'amore, ma 1 ^ina-
zione e T impoto da lei cagionato, l'wT» 1 abito e
l'atto della tendenza; perché non è propriamente amore
quello che noi ponghiamo, per esempio, ali oro e al
danaro. Vedi p. 3636 o 3907.
Altra prova delle proposizioni da me esposte nel
principio di questo pensiero può essere, fra le mille,
la seguente. Qual uomo civile udendo, eziandio la più
allegra melodia, si sonte mai commuovere ad alle-
grezza? non dico a darne segno di fuori, ma si sente
310
PKNS110RI
(3310-331 1-33! 2
puro internamente rallegrato, cioè concepisce quella
passiono cho si chiama veramente gioia? Anzi ella è
cosa osservata che oggidi qualunque musica general-
mente, anche non di rado la alleare, sogliono ispirare e
muoverò una malinconia, bensì dolco, ma ben diversa
dalla gioia; una malinconia ed una passion d' animo
che piuttosto cho versarsi al di fuori ama anzi per
lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e restringo,
per cosi dire, l'animo in se stesso quanto più può, e
tanto più quanto ella è più forte, e maggioro l'effotto
(3311) dolla musica; un sentimento cho serve anche
di consolazione delle proprie sventure, anzi n' è il
più efficace e soavo medicamento , ma non in altra
guisa le consola, che col promuovere le lagrimo , o
col persuadere e tirare dolcemente, ma imperiosa-
mente, a piangere i propri mali anche, talvolta, gli
uomini i più induriti sopra se stessi e sopra le lor
proprie calamità. Insomma, generalmente parlando,
oggidì, fra le nazioni civili, l'effetto della musica è il
pianto, o tende al pianto (fors'anche talor di piacoro
e di letizia, ma interna e simile quasi al doloro): e
certo egli è mille volte piuttosto il pianto che il riso,
ool quale anzi ei non ha mai o quasi mai nulla di si-
mile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono
si naturali, si spontanei ec. oc, cho non pochi vor-
ranno e vogliono che sia proprio assolutamente della
natura umana l'essere in tal modo affetti dall'armonia
e dalla melodia musicalo.
Ora, tutto al contrario di quollo che avviene co-
stantemente tra noi, sappiamo che (3312) i selvaggi,
i barbari, i popoli non avvezzi alla musica o non av-
vezzi alla nostra, in udirne qualche saggio prorom-
pono in ècleOs di giubilo, in salti, in grida di gioia,
Sri rompono dalle risa per la grande contentezza, e'
insomma cadono in un entusiasmo e in un' intera e
decisa ebbrietà e furore o smania di pura allegria
(29-30 agosto 1828).
311
(33 1 2-33 1 3-33 1 4) ^jnMS*BM__ _
Tm t 7c «e. da wwo-wte. ^ *»f ? ^"
L oc voUsi il ^tto da me nella teoria de' eon-
Pa^i ^ca il verbo ptoi. Xfg^J*
t r „reatus. Veggano ^«^'SSÌ
[feionari francese e spaglinolo (31 agosto, ao
1823).
* Palulus sembra un diminutivo di p^, andato
L piona dimenticanza, restando in sua vece ,1 dot to
din inntìvo. - A quello che altrove ho detto di fai ala
» ambo sieno diminutivi, o quello posavo
Lesto diminutivo, aggiungi lW
faculus positivi, bacUlum diminntwo. E ve d i luogo
di Sant' Isidoro appo il Forcelhm m Bacdlum, (3313)
fine (31 agosto 1823).
* Circa quello che ho dotte altrove della melodia,
: basti il tenore ohe il principio, pW*^^
lamento, ossia la ragione ormale dol peiehc ^
Svoglia successione melodiosa di tuoni sia ^<g"£
enarmonica successivamente; o
prima fonte e ragione della convenienza ^
de' tuoni nella successione non fu e non è qy« ^
tro che l'assuefazione solamente la quak ben £è su_
libile di «f-^ * «^fS ^SiE
nazioni, di applicazioni diversissime, ai aiv
combinatora delle sue parti; ™\ % f°. t ^™™_
infatti avuto ed hanno continuamente Jag^g^
Sica e nelle composizioni del musico, il cui u h-o non
è originariamente e principalmente alt o A*""
buon'uso delle assuefazioni generali g^LlTSto
cioè la convenienza, successiva o ^^ ea ^
noto delle corde, dogli stromenti, voci ec, eo., servata
" to o .io, ambievole degl'intervalli, ossia del
tempo £n può il musico modificare in assaissimo
giZ quosto assuefazioni, ma dee però sempre ricono-
scerle (3314) e seguirlo è in loro mirare, come fon-
i'emmei» (3314-3315)
dainonlo e ragiono dell'arte sua (31 agosto dome-
nica, 1823).
* Alla p. 3298. Un uomo (o donna) di carattere na-
turalmento pacifico, placido, quieto, riposato, ordinato
inclinato a una certa pigrizia, è por natura portato
all'egoismo. Quanto più l'uomo o per indole e condii
zion primitiva, o per effetto dell'età, o per istanchezza
del mondo, por disinganno ec. ama il riposo, la pace,
l'ordine, l'uniformità della vita, è lontano dal calore'
dai desideri: vivi, dai disegni vasti o impetuosi, o
fervidi, o attivi oc, è dedito all'inazione, al metodo;
anzi quanto più egli è tollerante dello ingiurio e degli
stessi patimenti per debolezza d'animo o di corpo o
d' ambedue, quanto è più disposto e solito di rinun-
ziare al risentimento, di chinare il capo allo circo-
stanze, alla necessità, di sacrificare o di posporrò qua-
lunque cosa alla conservazione dolla sua quieto interna
ed esterna o della sua inattività; quanto più l'uomo
o vile e codardo; quanto più suolo appagarsi del
presente, soddisfarsi di ciò che gii accade, pigliar le
cose corno vengono; tanto mono egli è disposto e so-
lito di sacrificarsi o adoperarsi (3315) per altrui;
tanto mono à accessibile alla compassione, tanto più
e inclinato e tanto più ha d'egoismo. L'abitudine
dell'ozio in qualsivoglia età è sempre conciliatrice
d'egoismo. Insomma, per tutte queste osservazioni, e
por qualunque altra si voglia fare intorno ai vari ca-
rafctcn degli uomini, apparisce, o sempre apparirà,
elio la natura dell'egoismo è un ghiaccio doll'auimo;
un freddo, un congelamento, una quasi concrezione'
lina durezza o un indurimento, una secchezza o un
disseccamento dell'amor proprio, una povertà, una
scarsezza di vita ; una inattività effettiva o un' incli-
nazione alla medesima oc. ; o naturale o avventizia
che sia, o morale o fisica, o l'uno o l'altro, o portata
dalla nascita e cresciuta poi e confermata coli' assuefa-
^315-3316-3317)
l'ENSlKKI
318
giano, collo circostanze, cogli avvenimenti della vita oc,
b da questo prodotta in contrario c in dispotto del-
l' indolo primitiva oo. (31 agosto 1823). Io credo po-
terò assoriro elio generalmente gli uomini meno sog-
getti a passioni veementi, quelli clie non amano il
piacere, quelli elio mai non vissero per li piaceri,
mai non furono trasportati da' piaceri e (3316) dal de-
siderio o furore di questi (sieno piaceri corporali o
spirituali) o che più noi sono; anche i mono iracondi,
i più pazienti, e simili, per natura o per abito con-
tratto , sono i più inclinati all' egoismo, i più alieni
atiii nalinento dal compatire e dal beneficare, spesso
anche i più ingiusti por volontà riflettuta. E i con-
trari viceversa.
Sono moltissimi elio amano, predicano, promuo-
vono od esercitano esclusivamente la giustizia, l'one-
stà, l'ordine, l'osservanza dello leggi, la rettitudine,
1' adempimento do' doveri verso chi elio sia, l' equa
dispcnsaziono de' premi e dolio pone, la fuga dello
colpo; ma ciò non per virtù nó corno virtù, non per
tinozza o grandezza o forza o compostezza d'animo,
£on per inclinaziono, non por passione, ma per viltà
e povertà di onoro, per infingardaggine, per inatti-
vità, per debolezza esteriore o interiore, perché non
potendo (per debolezza) o non volondo (per pigrizia) o
non osando (por codardia) nó provvedersi né difen-
dersi da se stossi, vogliono che la leggo e la società
vegli per loro, e provvegga loro e li difenda senza
loro fatica, e in modo eh' essi se ne riposino su di lei;
perché la via del retto è la mono pericolosa, la sola
che nel mondo (3317) sia palesemente permessa; per-
ché l' onestà delle azioni avendo (almeno apparcnto-
monto) mono ostacoli a combattere, cagiona meno im-
barazzi, esige meno attività, meno travagli, produco
conseguenze meno moleste ; perché non ardiscono con-
travvenire aUe leggi, né farsi alcun nemico, molto
meno quei che comandano e cho vegliano all' osecu-
(3317-3318)
zione d'esse leggi; perché toniono il castigo, la ri-
prensione, il biasimo pubblico, si lasciano imporre
dall'apparenza dell' opinione universale, la quale opi-
nione mostra di stimare o di non molestare né deni-
grare i buoni, e di odiare e biasimare i cattivi oc;
perché non hanno spirito d' aspirare a cose straordi-
narie, né di procacciarsi o beni o piaceri, né di avan-
zare il loro stato ec, col subire qualche, ancorché mi-
nimo, pericolo, col combattere qualche ostacolo ec, né di
nulla tentare fuor del consueto e doli' ordino, e nulla
rischiare oc. Questi tali, benché incapaci di far male
o torto (volontariamente) ad alcuno, o d'offendere
altrui in verun modo, di soverchiare oc, sono grandis-
simi egoisti, chiusi alla compassione, ignari della be-
neficenza. Sono altri eh' esercitano ed amano al modo
stesso la giustizia, non por virtù, né anche por viltà,
ina porche stanchi e disingannati del mondo,, e nulla
più curandosi di quanto si possa acquistare o coli' in-
giustizia o comunque, non cercano più che la pace, la
quale non si trova fuor dell'ordine, e però sono amici
dell'ordine. Questi ancora sono per lo più egoisti o
nati o divenuti (1 settembre 1823).
* Italianismi nell' uso della voco umts. Vedi Sve-
tonio, in Itti. Caes., cap. XXXII , § 1 e quivi il Pi-
tisco ec. col Foreelliui ec. (1 sottombre 1823). (3318)
* Un francese, un inglese, un tedesco che ha colti-
vato il suo ingegno, e elio si trova in istato di pen-
sare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua
nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta,
imparata la quale ei non ha che a servirsene. Xé dal
principio della loro letteratura in poi è stato mai bi-
sogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, quel ch'ei
si fosse, il formarsi una lingua inodorila, cioè tale che,
volendo scriverò, come ognun devo, alla moderna, ei
potosso col di loi mezzo esprìmere i suoi concetti in
3318-3319-3320) vi-insieiu 315
qualsivoglia gonere. Come dal principio dello loro
letterature in poi quolle nazioni non hanno mai in-
termesso di coltivar esse medesime gli studi in esso
introdotti; o . creando e inventando nuovi generi o di-
scipline, con osse hanno naturalmente o sin dal loro
principio creato o l'ormato il linguaggio che loro si
conveniva: o accettando generi o discipline fore-
stiere, non mai per ancora in osse nazioni cono-
sciuto o trattate, insieme con essi generi e disci-
pline accettarono senza contrasto alcuno quei modi
e quei vocaboli, ancorché forestieri, che con esse
erano congiunte, e che a volerle trattare indispensa-
bilmente si richiedevano ; cosi non è stato mai tempo
alcuno in (3319) cui gli scrittori di quelle nazioni,
avendo che scrivere, non avessero come scrivere; mai
tempo alcuno in cui quello nazioni non avessero lin-
gua nazionale moderna por qualunque gonere di lette-
ratura e per qualsivoglia disciplina da loro trattata.
Ben diverso è oggidì il caso dell'Italia. Come noi
non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua
illustre e propria ad essere scritta non è mai scompa-
gnata dalla letteratura, o segue sempre le vicende di
quosta, e dove questa manca o s' arresta, manca ossa
puro e si ferma ; cosi, fermata tra noi la letteratura,
formossi anche la lingua, e siccome della letteratura,
cosi pur della lingua illustre si deve dire, che noi
non ne abbiamo se non antica. Sono oggimai più di
centocinquant'anni che l'Italia né crea, né coltiva
por se verun genere di letteratura, perocché m niun
->-enoro ha prodotto scrittori originali dentro questo
tempo, c gli scrittori elio ha prodotto, non avendo
mai fatto o non facondo altro che copiare gli antichi,
non si chiamano coltivatori della letteratura, perché
non coltiva (3320) il suo campo chi per esso passeg-
gia e sempre diligentemente 1» osserva, lasciando pero
le coso come stanno ; né per rispetto di questi scrit-
tori verun genere della nostra letteratura s'è per
PENSIERI
(3320-3321-3322)
ninna parte avanzato o migliorato, niun genero nuovo
introdotto ; la nostra letteratura ò d' allora in poi,
quanto a questi scrittori, affatto stazionaria ; or que-
sto si chiamerà avor coltivato la nostra letteratura ?
potremo dir elio sia stata coltivata senza profìtto al-
cuno : ciò viene a esser la stessa cosa.
In questo spazio di tompo la letteratura francose
e la tedesca sono nate, la letteratura inglese si è
primieramonto formata o stabilita. Quosto tre lette-
rature, quanto elle sono e quanto abbracciano, s' in-
cludono, si può dir, tutto, quanto al tompo, ne' cento*
cinquantanni della immobilità della nostra letteratura.
La depravazione e quindi il cominciamonto dell' ozio
e della inoperosità della letteratura italiana furono
([itasi il segnale alle altro letterature più famose d'Eu-
ropa di sorgere e comparire (3321) nel mondo. Elle
sono sorto, o in breve spazio hanno avanzato o pas-
sato i tornimi da noi già tócchi, e il progresso uni-
versale della letteratura e delle cognizioni umane
no' contocinquant' anni ultimi è stato cosi rapido e
cosi grande, ch'egli equivale, per cosi dire, a quello
fatto por tutti i secoli addiotro infino all' opoca no-
minata. Ciò singolarmente si può dire in quanto alla
filosofia, la quale rinata dopo la detta opoca, o tutta
nuova, fa parerò più che pigmea la filosofia di tutti
gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il
carattere, la proprietà de' moderni ; ella regge, do-
mina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna,
ella ne è la materia e il subbiotto ; olla insomma è
il tutto oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di
scrittura ; o corto nulla è senza di lei.
Era queste generali vicende e questo progresso
della letteratura, l' Italia, corno di sopra dissi, nulla
ha fatto por se. Gli scrittori alquanto originali ch'ella
ha prodotti in questo tempo, gli scrittori cho possono
meritar nome di moderni, non (3322) sono stati suf-
ficienti, né por originalità né por numero, a darle una
(3322-3323) pensieri _
lingua nazionale moderna, nello stesso modo ch'ei non
sono stati sufficienti a fare ch'olla avesse una lotte-
ratina moderna nazionale.
b quanto alla lingua, V insufficienza loro a far
che l'Italia n'avesse una moderna sua propria, é ve-
nuta principalmente da questa cagione. Trovando in-
terrotta in Italia la letteratura, essi hanno trovato
^'interi-otta la lingua illustro; antica quella, antica an-
cora questa. Una lingua antica non può esser buona
a dir coso modorne, e dirle, come devesi, alla mo-
derna: né la nostra lingua in particolare era buona
ad esprimere le nuove cognizioni, a somministrare il
bisognevole a tanta e si vasta novità. Introducendosi
fra noi a poco a poco la notizia delle letterature e
discipline straniere, que' pochi italiani, ch'eccitati da
ueste nuovo cognizioni si trovarono un capitale di
ente da poter loro aggiungere qualche cosa di
oro; quei molti che invaghiti della novità, o mossi
a qualunque altro motivo, deliberarono, (3323) senza
ero aver nulla di proprio da scrivere, d'introdurre o
divulgare, come si doveva, in Italia i nuovi generi, le
nuovo letterature e discipline, la nuova filosofia, anzi,
per meglio dire, la filosofia, non bastando a ciò la
lingua italiana antica, intieramente la distessero e
come di facoltà e di pensieri, cosi di lingua anda-
rono a scuola dagli stranieri; e da cui toglievano le
cose, sia por solamente ripeterle, sia pur talora por
accrescerlo e in qualche parte migliorarle, da essi
tolsero anche le voci o le maniere e le forme dot
favellaro e scrivere. Gli scienziati propriamonto dotti,
rispetto ai quali la nostra nazione non fa quasi per
alcun tempo seconda a verun'altra, sempre però poco
curanti della lingua, seguirono la barbane venuta m
uso, corno il linguaggio ch'era loro alla mano, e come
indifforentemento avrebboro seguito qualunquo altro
linguaggio o puro o impuro che avessero avuto in
pronto o che fosso stato comune, il che sempre ave-
vano fatto qui ed altrove.
318
PEK SIERI (3323-3324-3325)
Tristo veramente e difficile era il caso loro, ma
peggio il partito a cui s'appigliarono. Difficilo il caso,
perocché quanto è facile il continuare a una nazione
la sua lingua illustre insieme colla sua letteratura,
tanto è difficilo, interrotta por lungo spazio la lette-
ratura, e dovendo quasi ricrearla, riannodare la lin-
gua a lei conveniente colla già antiquata lingua il-
lustre della naziono, colla lingua che fu propria della
nazionale letteratura prima che questa fusse total*
mento interrotta. (3324)
In questo caso non si trovò l'orse mai nazione
veruna (se non se oggidì la spngnuola quando ella
intraprendesse di ristorare la sua quasi spenta lette-
ratura). Ma questo appunto è il caso nel qualo si
trova oggi l'Italia.
Koi abbiamo una lingua; antica bensì, ma ricchis-
sima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma
colma d' ogni sorta di pregi, perocché abbiamo una
letteratura, antica ancor essa, ma vasta, varia, bel-
lissima, abbondantissima di generi e di scrittori,
splendidissima di classici, durata per ben tre secoli
e più, tale ohe rispetto all'età ch'ella aveva, quando
fu tralasciata, l'età che hanno presentemente 1' altre
letterature è affatto giovanile. Per questo cagioni,
e per altre che ora non accade specificare, questa
lingua italiana cho noi ci troviamo, supera di ric-
chezza, di potenza, di varietà tutte le lingue moderne,
salvo forso la tedesca; di bellezza avanza d'assai tutto
queste lingue senza eccezione né dubbio alcuno, d'altri
pregi ò superiore, non solamente a esse lingue, ma
allo antiche eziandio. Tale si è (3325) la lingua ita-
liana per so od intrinsecamente. Ma olla è antica;
cosa estrinseca; ed ossondo antica non basta, né si
adatta, tal quale ella è, a chi vuole scriver coso mo-
derne in maniera moderna. Perciò forse potrà un
uomo sano volere o concedere che una tal lingua si
gitti e dimontichi corno divonuta del tutto inutile, e
(8325-3326)
319
che dando all' Italia una letteratura moderna propria
se lo debba dare con essa insiomo una lingua affatto
nuova, conio finora s' è fatto, o pigliandola dagli stra-
nieri, oh' è pur quel elio s' è fatto, o creandola di
pianta, quasi ninna, o solo una imperfettissima e de-
bolo o scarsa e spregevole lingua, avesse avuto l'Italia
per lo passato.
Ma certo, come questo è assurdissimo, e siccome
per prove voggiamo, dannosissimo; cosi quollo è ne-
cessario, evidente e certo, che volendo dare alla mo-
derna Italia una. moderna letteratura, conviene non
già mutare la sua antica lingua, né disfarla, né
rinnovarla, ma, salvi i suoi fondamenti, l' indole e
proprietà sua e tutti i suoi pregi secondo lo loro
speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in
modo che la lingua (3326) moderna italiana illustre
sia propriamente una continuazione, una derivazione
dall'antica, anzi la medesima antica lingua continuata,
niente meno che la francese dell'ultima metà del pas-
sato secolo, o quella del presente, non sono altra che
quella del tempo di Luigi XIV continuata di mano
in mano.
Or questo ai francesi fu facilo, perché la loro
letteratura non fu interrotta per alcun tempo, da
Luigi in poi: laonde la loro lingua fu sempre con-
tinuata naturalmente e senza sforzo, o sempre succes-
sivamente modificandosi secondo i tempi, fu in ciascun
tempo moderna, ma una in tutti i tempi considerati
insieme. A noi bisogna far forza alle cose e quasi
scancellare e annullare o nasconderò il fatto, cioè go-
vernarci in modo che quel che fu apparisca non es-
sero stato, e la lingua italiana sembri non essere stata
per alcun tempo interrotta, ma continuatamente avan-
zata e modificata sino a divenir propria e conforme
e conveniente all' odierna Italia ed alla sua moderna
letteratura.
Quindi si consideri le grandissime difficoltà ed
àM ' pensier i (3326-3327-3328)
ostacoli che si attraversano, le angustie (3327) elio
stringono, la vera infelicità della condizione in cui
si trova oggidì l'italiano elio aspiri ad essere scrittoi'
classico, cioè pensare originalmente, dir coso proprie
del tempo, dirlo in modo proprio del tempo, o perfet-
tamente adoperare la sua lingua, senza le quali con-
dizioni, e una sola elio ne manchi, non si può mai
nó protendere giustamente, no ragionevolmente spe-
rare V immortalità letteraria (alla quale, e sia dotto
por incidenza, ben raro o ninno è che giungesse per
mezzo di opero scritte in lingua non sua; come se
noi, spaventati dallo difficoltà che ho detto, e son per
dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in
italiano).
Un italiano, ancorché pienamente istruito in tulio
ciò che si richiede oggidì in qualsivoglia luogo a un
perfotto nomo di lettere, ancorché sommamente ricco
d'immaginazione e di cuore, ancorché fecondissimo o
gravido o di pensieri proprii, importantissimi, pro-
fondissimi, novissimi, d'invenzioni, d'idee d'ogni
genere convonientissime al tempo ; ancorché osserva*
vatore, meditatore, ragionatore senza pari ; ancorché
peritissimo di tutto P arti e artifizi dello (3328)
stile ; volendo perfettamente scrivere in italiano, ed
essondo, per ogni altro riguardo, capacissimo di per-
fettamente scrivere, si trova mancare affatto della
lingua in cui possa farlo, non solo perfettamente, ma
pur mediocrissimamente. A. questo talo è duopo ap-
prestarsi prima di tutto una lingua collo suo mani.
Ma questa in qual modo? Manco diftìcilo sarebbe il
crearsela. Se l'Italia non avesse che una lingua im-
perfettissima, ristrettissima o bambina, manco difficile
sarebbe a un grando ingegno il perfezionarla, l'arric-
chirla, il dilatarla, il condurla a maturità. Ma l'Italia
ha una lingua altrettanto perfetta quanto immensa;
bensì da lungo tempo dismessa, e però impropria a' di
lui bisogni, a' quali olla non fu ancor mai per al-
(3328-3329-3330)
PKNS1BUI
Lquo adattata né adoperata. Conviene adunque indi-
spensabilmente che l'ingoino da noi supposto, innanzi
|i porsi a scrivere, perfettamente impari questa lin-
gua infinita, che tutta F abbracci, che la si convorta
in succo o sangue, che se ne renda risolutissimo e
pienissimo possessore e padrone , che n' abbia per le
dita o il tutto e fino alle menomo parti franchissima
e speditissimamente. (3329) Come senza ciò potrob-
b'egli derivarne e farne nascere e pullulare, in guisa
che paia del tutto spontanea, una lingua conforme
alla natura e a' bisogni do' moderni tempi o dolle
moderne cognizioni, la quale sembri e sia onnina-
mente una coll'antica? corno commettere insiemo quella
con questa per modo che nulla appaia la coinmissura?
Ma questa lingua ossendo antica, egli non la può già
imparar dalla balia, ma gli conviene apprenderla per
istudio; essondo infinita e in se diversissima, egli
non la può apparare con istndio né breve né leggero,
ma solo con lunghissimi sudori, e profonde ricerche
sulle sue proprietà, e continuo esercizio di leggerla e
di scriverla, e assiduo ed attentissimo stadio de' suoi
classici che sono in grandissimo numero. E cosi fa-
cendo, troverà, e sempre più si persuaderà, che sic-
come della lingua greca si dice, cosi della italiana
si può dire, lei ossero veramente infinita, o tale
eh' egli è impossibile di tutta abbracciarla, e mai
non viene quel giorno che nuovo conoscenze intorno
a ossa lingua non si possano (3330) acquistare, né
che il cammino sia terminato. Ma senza andaro agli
eccessi ; sobbone nulla ? ha qui d' esagerato ; senza
però voler conservare una troppo grande esattezza nel
ragionamento ; supponendo ancora com' è il vero elio
un grande e felice ingegno possa arrivare a compren-
der coli' anima e possedere so non tutta quanta la
nostra lingua pur tanta parto di lei elio la cognizione
e la domestichezza d' essa parto gli basti a poter
sulle fondamenta, sull' ordine, sul disegno doli' antica
X*EorAitLi. — i'tiisivri, Vi 21
■ IL ~ PENSitìKi (3330-3331-3332)
lingua fabbricare corno una continuazione d'edificio
la moderna ; yeggasi quanto a costui convion trava-ì
gtiaro innanzi di poter far uso do' suoi pensieri. Ella
è cosa certa clie la vera cognizione o padronanza di
una lingua come l'italiana, domanda, per ^on dir
troppo, quasi una metà della vita, e dico di quella
cogniziono o padronanza eh' é indispensabile a chiun-
que debba vonuncnte ristorarla. Ma la scienza, la
sapienza, lo studio dell'uomo, noi) domandano tutta
la vita ? o quella immensa moltiplieità di cognizioni
piccole e grandi, quella universalità che (3331) si ri-
chiede oggidì, quasi generalmente a ogni uomo di
lettere, ma eh' è sommamente necessaria al filosofo;
la cogniziono od uso e pratica di tante altre lingue
antiche e modorne e do' loro autori, letterature ec.
domandano poca parto di tempo? Certo ó veramente
dura e deplorabile oggidì la condizione dell' italiano,
il quale avesse nella sua mente cose degno d'essere
scritte e convenienti a' nostri tempi, porocch' egli,
anche volendo usare la maggior semplicità del mondo,
non avrebbe una lingua nat urale in cui scrivere (come
1' hanno i francesi ec. atta a potervi subito scrivere,
coni' ei P abbiano competentemente coltivata e stu-
diata), né il modo di bone esprimore i suoi concetti
gli correrebbe mai alla penna spontaneo, ma conver-
rebbe eh' egli si fabbricasse l' istrumonto con cui si-
gnificar le sue idee. E d'altronde ella ò bon ardua
e difficile la condizione di un ingegno quantunque si
voglia grande o cólto, al quale, oltre la grande im-
presa di ristorare la lottoratura italiana, e dare o mo-
strare all'Italia una letteratura propria moderna, (3332)
quasi ciò fosse poco, converrebbe in prima necessa-
riamente aprirsi la via col ristorare la lingua ita-
liana e dare all' Italia una lingua nazionale moderna,
quasi quosta ancora non fosso per so sola un' impresa
sufficiente a una vita ititora e ad un eccellente in-
gegno.
(3332-3333-3334)
B28
Tanta è la difficoltà, di condurrò a termine duo
improse di questa sorta , il che dovrebb' esser pure
necessariamente lo scopo e l' istituto di qualunque
letterato italiano degno di questo nome ; e d' altronde
eoli è cosi vero che la letteratura e la lingua mai
non si scompagnano, né 1' mia dall' altra si dissomi-
gliano, o eli' egli è quasi impossibile di scrivere per-
fettamente, e in forma che paia spontanea, una lingua
por solo stadio apparata o fabbricatasi ; che io sic-
come so corto cho 1' Italia non avrà propria lettera-
tura moderna finch' ella non avrà lingua moderna
nazionale, cosi mi persuado che tal lingua ella non
avrà mai finché non abbia tale letteratura: onde (se
pur dobbiamo sperarlo) nata una letteratura (3333)
moderna italiana, seco a paro nascerà una moderna
lingua, e quindi di mano in mano cresceranno am-
bedue a poco a poco, 1' una insieme coli' altra e in
virtù dell'altra scambievolmente, ma più la lingua
in virtù della letteratura, che questa per 1' aiuto di
quella. E cosi con mio dispiacere predico che seppur
avremo mai più lingua moderna propria, questa non
nascerà dall'antica né a lei corrisponderà, ma, na-
scendo dalla nuova letteratura, a questa sarà con-
formo : od essendo di origine straniera, ci si verrà
a poco a poco appropriando o pigliando forme nazio-
nali (quai eh' elle saranno per essere; non già le
antiche) a proporzione che la nuova letteratura diverrà
nazionale e metterà radico in Italia, e si nutrirà e
croscerà del nostro terreno, e produrrà frutti proprii
italiani. A questo mi conduce il considerare che né i
nostri antichi scrittori né i moderni o antichi di na-
zione alcuna presente o passata, furono mai pensatori
originali oc, scrivendo in altra lingua che in quella
del loro secolo e in quella usata genoralmente (3334)
da' nazionali e cho loro veniva alla .penna spontanea,
ben da loro assai volto (come da Cicorono) raffinato,
riformata, accresciuta, perfozionata, ma non mai per
:; - ì PBNSIEK1 (3334-3335)
solo studio appresa, per solo studio quasi ricreata.
Al quale immenso travaglio ed alla continua difficoltà
di scriverò o porf'ettamcnto scrivere in una tal lingua,
ancor dopo approsa, formata e posseduta, è quasi im-
possibile trovare un pensatore originale, un gran fìlo-
sol'o, un uomo di genio o di grande iromaginaziono,
che si assoggotti ; o che assoggettandocisi, si conservi
in se stesso e ne 1 suoi scritti , pensatore, filosofo ori-
ginalo, senza di che sarobbe inutile l'esservisi assog-
gettato. Non altrimenti che sian inutili allo scopo di
dare all' Italia lingua o letteratura moderna propria,
coloro che oggi si sforzano di scrivere in buono ita-
liano, da' quali è ri mota ogni sorta di pensiero, non
solo nuovo ma moderno , e che avondo a nominar
qualcho cosa moderna la nominano o accennano co-
portamento, e avendo talvolta a mostrare qualcho co-
noscenza, qualche idea di quelle elio i nostri antichi
non avevano, si fanno un pregio e un dovere di non
farlo che dissimulatamente, fingendosi (3335) il più
cho possono ignoranti di quanto gli antichi ignoravano.
E non altrimenti che inutili al sopraddotto scopo sieno
oggidì coloro che tra noi pur pensano qualche cosa
(ben pochi o poco), o die da' paesi di fuori recano a
noi qualche pensiero ec, i quali tutti non iscrivono
italiano, ma barbaro. E questa separazione e distinzione
di gonte che scrive in italiano (vero o preteso), e gente
che pensa, stimo, per le suddotte ragioni, ohe sempre
sia per durare in Italia, montre questi non prò vagliano
a anelli, formando finalmente a poco a poco un nuovo
italiano illustre e rendendolo universale tra noi in-
vece doli' antico. Dal elio siamo ancora ben lontani,
massime oggidì, che il numero e il valore di quolle
ombro di filosofi, che ha veduto lin qui l'Italia, va pur
sempre notabilissimamente scemando; o sempro por lo
contrario crescendo, non il valore, ma il numero di
quelli cho pretendono e aspirano a scriverò il buon
italiano, ondo l'Italia ò quasi tutta rivolta di nuovo
825
alla sua antica lingua, o di pensieri oramai nulla più
pensa né (3336) cura né richiede, propriamente nulla.
Mala cosa per certo si è l'interruzione degli studii,
dovunque ella accade, si per mille altri danni, si per-
ché colla letteratura ella antiqua la lingua illustre* ')
Di modo che, risorgendo ossa letteratura, 1' è grandis-
simo impedimento e indugio a potor crescere e for-
marsi la mancanza di lingua a lei conveniente, e il
tempo e l'industria che bisogna spendere in fornir-
nela. Quanto crediamo noi che ritardasse gli avanza-
menti dello spirito umano (non in una sola naziono,
ma in tutta l'Europa) dopo il risorgimonto degli studii,
la mancanza di lingue proprie alle nuove lettere? La
qual mancanza non da altro provenne ohe dalla diu-
turna interruzione dolla letteratura in Europa. Peroc-
ché la lingua latina non avrebbe cessato di esser par-
lata e propria degli europei so fosse durata la letteratura
latina. Ben si sarebbe sempro modificata secondo i
tempi, di modo eh' olla oggidì sarebbe diversa dal-
l' antica; ma sarebbe pur lingua latina, o in Europa
si parlerebbe e scriverebbe il latino come lingua pro-
pria, come moderna, come conveniente a' noBtri tempi
(quale infatti ella sarebbo), e lo spirito umano sarebbe
più oltre ch ! ei non è , (3337) perché sarebbo stato
impiegato nel coltivar la sapionza e le lettere quel
tempo cho fu dovuto spendere nel formare delle lin-
guo convenienti a questo e ai costumi e al carattere
de' moderni secoli. Il cho volendo evitare e risparmiare
i primi cultori do' risuscitati studii, si ostinarono a
volere scriverò in latino, ma il latino era lingua an-
tica, né mai in una lingua antica si potranno scriver
cose moderne né scriverlo modernamonto. E molto no-
cquo una tale ostinazione al progresso de' lumi e dolla
1 ) Tuoi vodoiu ti Diahffo delie Lìngue dolio Speroni; fluii» P- l 21
poi, cioè tutto il eUseorao tra il Losoarl e il Pwetto, Bino alla (ine ilo 1
Dialfujo.
32(i tossitoti! (3337-3338-3339)
coltura e alla formazione dolio spirito nazionale o mo-
derno. 11 quale non mai si sarebbe formato se non fos-
sero state formate e stabilite lo lingue moderne in-
voco dolla latina. Siccome per lo contrario si vocio
che queste non prima furono formate e stabilito di
quel clie lo spirito nazionale o moderno pigliasse una
consistenza e una corta forma e fisonomia propria
in Italia, poscia in Ispagna, indi in l'ranoia e in In-
ghilterra, ultimamente in Germania, che ultima di
tutte queste nazioni lasciò 1' uso della lingua latina
come letterata o illustre, o lo sostituì (3338) la na-
zionale. E questo esempio dell'Europa si dove pro-
porzionatamente applicare e paragonare al caso del-
l' odierna Italia, e dedurne delle congetturo, certo
assai verisimili o solide, circa il futuro esito delle
nostro presonti circostanze (1-2 settembre 1823).
* Del resto, dalle considerazioni qui dietro fatte
sulla necessita che 1' Europa e lo spirito umano ave-
vano di nuove lingue illustri a potersi avanzare e
ne' costumi e nelle scienze e nelle Ietterò e nella filo-
sofia, dopo il risorgimento degli studi; e sul grandis-
simo dotriinento o ritardo ohe portò alla rinata civiltà
la rinnovazione dell'uso esclusivo del latino come lin-
gua illustre; e sul maggior danno e indugio che le
avrebbo apportato la continuazione di tale uso, appa-
risce più visibilmento cho mai quanto debbano a Danto,
non pur la lingua italiana, come si suol predicare,
ma la naziono istossa e l'Europa tutta e lo spirito
umano. rerocché Dante fu il primo assolutamente in
Europa che (contro 1' uso e il sentimento di tutti i suoi
contemporanei e di molti posteri, elio di ciò lo biasi-
marono; vedi Portioari, Apologia, cap. 34) ardi conce-
pirò (3339) o scrisse nn'opicra classica o di letteratura
in lingua volgare e moderna, innalzando una lingua
moderna al grado di lingua illustro, invece o al-
meno iusiome colla latina, cho fino allora da tutti e
(3339-3340)
1HKSIEUT
327
ancor molto dopo da non pochi, ora stata o fu stimata
laica capace di tal grado. E quest' opera classica non
fu solo poetica, ma, corno i poemi d' Omero, abbracciò
espressali! «ito tutto il sapero dì quella età, iu teolo-
gia, filoKotia, politica, storia, mitologia oc. E riusci
classica, non rispetto solamente a quel tempo, ma a
tutti i tempi e tra lo primarie ; né solo rispetto al-
l' Italia, ma a tutto le nazioni o letterature. Senza un
tale esempio ed ardirò, o s' oi fosse riuscito men for-
tunato o splendido, e se quell' opera pel suo soggetto
fosse stata meno universale, e meno appartenente, per
cosi dire, a ogni genere di letteratura e di dottrina ; si
può, so non altro, indubitatamente credere elio si l' Ita-
lia si 1' altro nazioni avrebbero tardato assai più che
non fecero a innalzaro lo lingue proprio o moderne al
grado di linguo illustri, e quindi a formarsi dolio lot-
toratnre proprie e (3340) moderne e conformi ai tempi,
o quindi lo spirito e il carattere nazionale, moderno,
distinto, determinato ec. Dante diede 1* esempio, apri
e spianò la strada, mostrò lo scopo, feco coraggio c col
suo ardirò e colla sua riuscita agi' italiani : l' Italia
allo altre nazioni. Questo è incontrastabile. Né il
fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragiono
e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espres-
samente sostituire una lingua moderna illustre alla
lingua latina, perché cosi giudicò richiedere le cir-
costanze de* tempi e la natura delle coso ; e volle
espressamente bandita la lingua latina dall'uso de'lot-
terati, de' dotti, do' legislatori, notari ec, come non
più convenevole ai tempi. Il fatto di Dante venne da
proposito e istituto, e mirò ad uno scopo , e il propo-
sito, l' istituto o lo scopo quanto spetta al nostro di-
scorso ') (siccome eziandio la scelta e l'uso de' mezzi),
') Pofooché nnclio nitri latitati o^li seguì, «l altri lini al propose,
tutl,i bolliasimi i) savissimi, ma elio non appai tendono al nostro pio-
pnsito.
328
pensieri (334(3-3341 -3342
fa. da acutissimo, profondissimo e sapientissimo filo-
sofo. Vegga si il Pertiuari noi luogo citato (2 sottom-
bre 1823).
* 1. francesi amano di usare il mvmoro ordinale pel
cardinale. Louis caiorze, Uvrc deux etc. (3341) Pretto
idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non
fallo, appo Svetonio, in Ini. Caos., c. XXXIX, § 4-. o
appo gli autori quivi allegati dal Pitisco oc. (2 sottom-
bre 1823). Vedi p. 3544. 3557.
* I limiti della materia sono i limiti dello umane
ideo (3 settembre 1823).
* Alla p. 3235. Tnstigo as da instinguo is, ondo in-
stinctus a um e instinctus us. Il semplice è stingilo
(onde anche ekstinguo, restinguo. distìnguo oc) o di
questo verbo ho detto altrove in altro proposito. Quo! li
elio derivano instigo da insto oc. molto s' ingannano.
Gli altri verbi da noi raccolti in questa categoria mo-
strano ch'ei viene da instinguo comò jugo da jvngo ec. ')
Ohi volesse che insidiar (fora' anche si trova insidio)
venga a dirittura da insidco piuttosto che da insidiati
(la qual voce in tal caso verrebbe non da insidco ma
da insidior) lo mostrerebbe appartenente a questa
categoria, e in tal caso sarebbe da notare eh' oi non
nascerebbe da un verbo della terza, ma (da un ano-
malo) della seconda (3 settembre 1823). Potrebbe però
anche venire da insido is. 2 ) Invideo, invidia, invidiare,
italiano oc. (3 settembre 1823). (3342)
') Oasorvlsi olio instilo propriamente « continuativo por la sigtrtfl-
eiùsitane, perocché ineHnguo propriuiiionto «ignìlica Patto dol pungerò, o
quindi d<dio spinsero, dell' indurrò, ma ùittìgo significa- lo stimolare, In
staro attorno, il far ressa per indurrò. L' instìnguere è lo aoopo doU' in-
stìgarc.
,£ ) ]Ksro pili verisimile olio venga da i-tutldi-are (di cui vedi p. 3350).
Altrimenti farebbe piuttosto insidor aria, rome sedo as da sedeo (o da
fido ìs) t dol che altrove.
(3342-3343) pens ieri 3 29
* Alla p. 3098. Tutte le nazioni e società primi-
tivo, non altrimenti che oggidì le selvagge, riputarono
1» infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a
|ausa di vizi e delitti ond' ci fosse colpevole, o a
causa d' invidia o d> altra passione o capriccio elio
movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la sua
stirpe oc., secondo le diverse idee cho tali nazioni
avevano della giustizia e della natura degli Dei.
Un' impresa mal riuscita mostrava ohe gli Dei 1 aves-
sero contrariata o per se stossa o per odio veraci' im-
prenditore o gì' imprenditori. Un uomo solito a eehouer
nelle suo intrapreso, era senza fallo in ira agli Dei.
Una malattia, un naufragio, altre tali disgrazie pro-
venienti più dirittamente dalla natura erano segni
più che mai certi dell'odio divino. Si fuggiva quindi
V infelice, come il colpevole ; se gli negava ogni soc-
corso e compassione, temendo di farsi complice in
questo modo. della colpa, per poi divenire partecipo
della pena. Qua si dee riferire l' infamia pubblica in
cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono an-
cora, s' io non m' inganno, appo gì' indiani. Gli amici
e la meglio di Giobbe lo (3343) stimarono uno scelle-
rato, coni' ei lo videro percosso da tanto disgrazie,
benché testimoni dell' innocenza della passata suavita.
I barbari dell'isola di Malta vedendo l'apostolo b. Paolo
naufrago, e pur salvato in terra, e quivi assalito da
una vipera, lo stimarono un omicida che la *™ ven-
detta perseguitasse per ogni dove (AcL, cap. XX Vili,
3-f.) Bimane eziandio nelle antiche lingue il se-
gno, come d'ogni altra antica cosa, cosi di queste
opinioni. T*U (Aristoph., Plut., IV, 5, 19 , "«M*^*
fio IV 3 47) 6 aimili 7101111 tanto valevauo in f e ~
lice, quanto malvagio, scellerato ec. Vedi i latini. Onde
anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero, misera-
bile oc. hanno l'uno e l'altro significato; ovvero si at-
tribuiscono altrui anche per avvilimento o disprezzo.
Cosi in francese malhettreiix, misérable ec. Cattivo ha
330
PENSIERI
(3342-3344)
perduto affatto il significato di misero, che prima ebbe
ma non (inolio di ribaldo, reo, mah eh' è il suo più or-
dinario o volgare significato oggidì (3 settembre 1823).
Vedi p. 3351.
Mox8"f|pÓS, BOVYjpÓC (itéVY)po{ ìnfelìx), ^oy^-r^ia , m-
yqpEa oc. ec. Vedi lo Scapala, e p. 3382. v.a*o8aEjji.ijuy quegli
ohe ha nemico t<5 Sottpióytov cioè ^ divinità, o iòy Smuova,
Ma e'vnol diro infelice-. Luciano congiunge UtrAc, èy&pobt
x*l KaKo3ai(iDv«a. EòSatatuy cft' ha gli dei amici, ma o ! vuol
dirJfiwftfnafoj^eZica. Vedi io Scapala in quoste voci e in
ìytyoòa'ip.tnv, e in j3apo8«ufUoy co' dori vati oc, e Aristot.,
iWii., 1. Ili, p. 260, e ivi il Vettori (od. Fior., 1570).
* Tapino dondesonondaT'tKEiyós?{3 settembre 1823).
(334-4)
* 8crisae.ro, vissero, dissero, videro, diedero, tennero
o simili innumerabili, quasi da scripserunt, vixerunt,
dixerunt, vidérunt, dederunt, tcnnuZrunt. Cosi veramente
dissero molti poeti, massimo i più antichi, a olio tal
pronunzia fosse o restasse propria del volgo romano,
il quale c.onsorvasso anche in questo l'antichità, o la
trasmettesse fino a noi, si può raccogliere da certi versi
popolari portati da Svetonio in Jul. Caes., cap. LXXX,
§ 3 (dove si veggano lo note del Pitisco ec.) che cor-
revano in Roma sugli ultimi tempi di Giulio Cosare
Dico popolari, ') e infatti si paragonino con quelli ri-
portati dal medesimo Svetonio, ib., cap. XLIX, § 7,
eh' erano cantati dalla soldatesca di Cosare (3 sot-
tombre 1823).
* Alla p. 3206. — 6°, L'immaginazione, la facoltà
d'inventare o inventiva, la vena o fecondità, lo spi-
rito poetico, il genio ec, non solo per cause morali, ma
anche fisiche, si vedo indubitatamente essere minoro
ne' vecchi e negli uomini maturi, che ne' giovani,
') Lo dii l <' Svatolltò nrlln stesso citato [nogo: miltjo aimebanió/ri
(3344-3345-3346) itosiwri J^ 1
Le' Maciulli oc. o decrescere di mano in mano natu-
ralmente secondo 1' età. Si vedo eziandio esser mag-
giore o minore ne'divorsi indivìdui, non per solo ol-
fatto delle circostanze estrinseche e accidoirtah, ma
anche primitivamente o per natura. (3345)
7" La memoria, indipendentemente dall' esercizio,
il quale anzi per se, tanto l'accresce quanto ò maggiore,
più assiduo, pili lungo, decresce evidentemente (ai-
mono por l'ordinario) secondo l'età. Anzi osservando,
si vedo chiaro eh' ella ne' fanciulli ò maggiore natu-
ralmente, e minore per difetto o scarsezza d'esercizio,
e che coli' età crescono le sue forze, per cosi dire,
artifiziali e fattizie, e scemano lo naturali; finché
distrutte queste ne' vecchi quasi affatto, anche quello
divengono inutili, e si perdono o dileguano, man-
cato-loro il subbietto, cioè la disposizion fisica a
ritenere dogli organi dostinati alla memoria. Le iorze
Lolla memòriu nolT u.mm maturo seno quasi medietra
quelle del fanciullo e del vecchio, perché le fattizio
suppliscono alle naturali, che nel fanciullo sono mag-
giori assai che nell'uomo maturo, ma in questo sono
maggiori assai che nel vecchio, e bastano ancora a ser-
vir di materia e subbietto allo forze artifiziali e de-
rivanti dall'esercizio generale e particolare, passato e
presento, eh' è maggiore nell'uomo maturo che nel
fanciullo oc. È anche indubitabile che fisicamente al-
tri ha maggiore, altri minor memoria, alcuni prodi-
giosa altri ninna: e ciò in pari età, e (3346.1 suppo-
sta eziandio la parità di tutte l'altro circostanze. E
questa differenza fisica talora è primitiva e innata,
ossia dalla nascita, talora avventizia, ma pur sempre
fisica e indipendente, almeno in gran parte e radical-
mente, dalle causo morali ec. Altresì è certo che m
uno stosso individuo, in una stessa età, anzi pure non
di rado in una stessa giornata in diverse ore, per causo
evidentemente fisiche, la memoria ora è più pronta o
maggiore e più chiara, ora mono; ora più ora mon
882
(3346-334?)
facile sia ad apprenderò aia a rimembrare, o disposta
a farlo più o meno perfettamente oc. Or tutto quosto
discorso della memoria in cui si scorge tanto di lisi-
co ec. perché non dovrà, eziandio applicarsi all'inge-
gno, al talento, all'intelletto oc. eli' ò pure una facoltà
dell'anima come la memoria, e viene ed è fondato,
siccome questa, in una disposizione naturale, primi-
tiva e innata nell'uomo ec.? (3 settembre 1823). Se
la disposizion fisica e naturalo è varia quanto alla
momoria nelle divorse età, ne' diversi individui, in
diversi tempi ec. indipendentemente dal morale, per-
ché non eziandio quanto (3347} all'intelletto o al ta-
lento? (3 settembre 1823).
* La stagione e il clima freddo dà maggior forza
di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza
del prosente, inclinazione all'ordine, al metodo, e fino
all'uniformità. ') Il caldo scema le forze di agire, e
nel tempo stesso no ispira ed infiamma il desiderio,
rendo suscottibilissimi della noia, intolleranti del-
l'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti
di se stessi e del presente. Sembra che il freddo for-
) Sei freddo si lui lo fora» di ngire, ma non senza incomodo. La
temperatura dell'aria elie vi circonda, opponendosi à ce qtie voi possiate
uscir di casa o di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione o l'im-
mobilità nel tempo stesso che vi da la l'orza dell' aziono o del moto. Si
può dir clic se no sente In forza e la difficolta nel tempo eterno. Nel caldo
tutto l'opposto. Si genie la facilitai dell'azione o dei moto nel temilo
stesso clic so ne scarseggiano lo force. L' uomo prova espressamente mi
sonao di libertà fisica che viene dall' amicizia dell' aria o dolla natura
elio lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all' aziono, ch'egli
talora confonde con quello della forza, ina clic a' o bon differente, corno
1' uomo si può avvede», quando, cedendo all' inquietezza elio quel senso
gl' ispira, e dandosi all'aziono, la telale mancanza ili l'orzo elio gli so.
prajjgionge gli taglio quel senso di libertà , e 1' obbliga a desiderare e
somaro il riposo. Anello per se medesima la debolezza e il rilasciamento
prodotto da causa mai morbosa, come dal cablo, da una corta facilita di
determinarsi all' azione, al movimento, al travaglio; piri elio la tensione
prodotta dal freddo. Può patere un paradosso, ma 1' esperienza anello in-
dividuale lo prova. Pare che 11 corpo rilasciato sia piti maneggiabile a so
medesimo. Bensì la sna capacità ili travagliare e poco durevole ce.
(3347-3348-3349) inu mati 2_1
Ifiohi il corpo e loghi l'animo: elio il caldo addor-
menti o ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il
corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo 1 animo.
L> attività del corpo è propria de' settentrionali, de me-
ridionali quella dell'animo. Ma il corpo non opera so
non mosso dall' animo. Quindi è clic i settentrionali,
sebbene senza controversia sia lor propria 1 attività o
laboriosità, pur sono veramente i più quièti popoli do la
terra- e i ' meridionali i più inquieti, benché sia lor
propria l'infingardaggine. I settentrionali hanno biso-
gno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi,
a cercar novità: ma (3348) mossi che sieno, non sono
facili a racquietare. Vcdesi nelle loro stono, no e
anali, massime nello moderne, c massime m quelle
della Germania, pochissimo rivoluzioni si troveranno
(specialmente a paragone di quelle de' meridionali),
ma queste lunghissime, come quella di religione mossa
da Lutero, e convertita ben tosto in rivoluzione poli-
tica Sopportano facilmente la tirannia, fincli olla non
gli spinge h bout, come gli svizzeri. Ubbidiscono vo-
lentieri, e comandati travagliano (anche eccessiva-
mente) più volentieri elio se operassero spontanea-
mente. Vodesi nella loro milizia. I meridionali sono
facili e pronti o frequenti a muoversi, rivoltosi i, poco
tolleranti della tirannide, poco amici dell ubbidire,
ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ri-
tornare in riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi
di novità politiche, incapaci di mantenerle; vaghi di
libeità incapaci di conservarla; al contrario de set-
tentrionali cho di rado la cercano, poco se no curano;
cercata o comunque acquistata, luiighissimamente la
conservano. Infatti essi, o in particolare i tedeschi o
teutoni, sono i soli in Europa che serbmo qualche
vestigio di libertà, qualche immagine (3349) dello an-
tiche repubbliche; i Boli ap.P° OTÌ le repubbliche si
veggano per esperienza poter durare anche a tempi
moderni. Vorbigrazia gli svizzeri, le città Ubere di
334 pensieri (3349-3350;
Germania, le repubbliehette de' Fratelli Moravi oc.
Noi mezzogiorno d'Europa non esisto più neppure
un'ombra di repubblica in alcun luogo, fuori di San-
Marino. In Germania vo n' ha non poclio, od alcuni
piccoli principati di colà si governano oggi, o per
volontà del principe (corno Saxe-Gotha) o per costi-
tuzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco.
Si applichino questo osservazioni a quello da me
fatte p. 2752-5, 2926, lino -28, e viceversa quelle a
queste (3 settembre 1823). Vedi p. 3676.
* So l'idea del giusto e dell'ingiusto, del buono e
del cattivo inoralo non esisto o non nasco per so nel-
l'intelletto degli uomini, ninna legge di ninn legisla-
tore può far che un'azione o un'ommissione sia giu-
sta né ingiusta, buona né cattiva. Perocché non vi
può essor ni una ragione por la qualo sia giusto né in-
giusto, buono né cattivo, l'ubbidirò a qualsivoglia
logge; e ninn principio (3350) vi può avere sul qualo
si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a
chi che sia, se l'idea dol giusto, del dovore e dol di-
ritto, non è innata o ispirata (come vuole Voltaire, e
cioè naturalmente e por innata disposiziono nascente
nello menti degli uomini, com' ei son giunti all'età
di ragione) negì' intelletti umani (4 settembre 1823).
* Verbi in ito. ITeluor o kelluor aris da helhio o
hduo onis. Mutuo a& e mutuar aris da mutuus. Cernito
as da ccrnum (4 settembre 1823).
* Insidia':, desidia sono ovidontomonte composti da
in o de o dal nomo sedia, mutata 1' e in i come al
solito, e come appunto in insidco, desideo da sedeo
(vedi la p. 2890). Ma la voce semplice sedia che pur
dovette esistere nel latino, poieh' esisterono i suoi
composti, è perduta nel latino scritto, conservasi nel-
l'italiano. Vedi il glossario oc, (4 sottembro 1823).
(3350-3351-3352) pensieri 335
* Continuativo. Mutilo e inntnito. Vedi il Porcellini
iu ambedue quoste voci (4 settembre 1823).
* Alla p. 2843. Anzi dal dirsi incettare, piuttosto
"che incattare (come pur diciamo (3351) accattare, ri-
scattare ce.) deduco ohe questo veri» spetti a' buoni
Eempi della lingua latina, giacché ne' bassi tempi, e
meno nelle lingue volgari, non si conservò e si tra-
scurò questo uso di mutaro 1' a de' verbi latini in e o
i por la composizione, e Te in i eo. (4 settembre 1823)
* Alla p. 28*3. margino. Dico verbi dissillabi con-
tando per una sola sillaba 1' co ne' verbi della seconda
(do-cco), e l'io in quelli della quarta (au-dio), secondo
il volgar uso da me altrove dimostrato, ohe per dis-
sillabi li pronunziava. E dico dissillabi, avendo ri-
guardo al toma, cioè alla prima persona singolare
presente indicativa (4 settembre 1823).
* Alla p. 3343. Generalmente appo gli antichi e
nello nazioni o società primitive il nome d'infelico è
un obbrobrio, o s' adopra per vitupero, por ingiuria,
per ignominia, por biasimo, per rimprovero ec. e cosi
si riceve. E l'esser tenuto per infelice è conio aver
mala fama. E l'infelicità (qualunque) si rinfaccia come
il delitto o il vizio ec. (4 settembre 1823). (3352)
* Nisi me omnia fallunt, il vorbo meditar è un ve-
rissimo e perfettissimo continuativo di msdeor. Con-
tinuativo pel significato, e continuativo per la forma
e la derivazione.
Mcdeor non ha participio in us che sia usitato, ina
secondo l'analogia il suo vero e regolare participio in
us ò meditus. E eh' egli ora non l'abbia non fa meravi-
glia. Innumerabili sono i verbi ohe più non 1' hanno, e
clic l'hanno solamente irregolare, i cui participi in ws,
o i cui participii in «* rogolari, sono stati da ino
336
dimostrati o si potrebbero dimostrare col mozzo de'con-
tinuativi o frequentativi elio no derivano, o con nitri
mezzi, benché essi participii sieno altronde all'atto inu-
sitati. Similmente ho dimostrato pili participii in vs
(o supini) di verbi elio n' hanno nn solo oggidì, o tre
participii di verbi cho n' lianno oggidì soli duo ec.
Medeor si fa derivare da \>Mu> o [a^Iiu regno, im-
pero, perché il medico dee comandare. Misera <o fur-
zatissima otiinologia. Tengo per indubitato che me-,
dcor non ò altro se non il verbo jvfjSojiiai curo, curqm
gero; verbo greco (3353) antichissimo, e che già era
fuor d'uso, o sapeva almeno d'antico, a' tempi di Se-
nofonte, come par ohe si debba raccogliere dal suo Sim-
pmió, c. Vili, § 30. Che se i poeti (e quindi gli scrit-
tori di stile fiorito e solistico) lo seguitarono a usare
anche molto appresso, cosi fecero di mille altre voci
anticho, anzi le usarono appunto perché antiche, e
fatto peregrine e divise dal volgo. Cosi pur fecero i
latini, cosi fanno i pooti italiani, e di ciò dico al-
trove diffusamente. La molta antichità di questo verbo
giova molto a poter credere eh' ei possa a vero in la-
tino un fratello, proprio delia più antica latinità,
com' è il verbo modem: Or dunquo che medeor sia lo
stesso che jj.-fjSo|jir/.i si dimostra con più ragioni. E pri-
mieramente estrinseche.
1°, Non resta in greco che il medio o il pas-
sivo QvfjSojiatj di questo verbo. Cosi in latino non re-
sta che il deponente medeor, ondo medicar, altresì'
deponente, del qualo vedi la p. 3264.
2°, Se ad alcuno facesse forza ohe da n^So^ai pa-
resse dover derivare medor non medeor, oltro che so gli
potrebbero recare (3354) infiniti esempi di tali muta-
zioni, massimo spettanti alla desinenza (anzi pur
d'altre molto più sostanziali e non appartenenti alla
desinenza e alla forma propria della congiunzione ,
Siceom' è questa), e massimo poi in voci cosi anticho
(otvo; mascol, vinum neutro oc. oc); osservisi cho il
(3354-3355)
PKNSTF.ltT
futuro di [iYi8o|iai è |j.T|S-fjao|j.ct[ come fosse da piif)Slo(i.at.
Del tosto la difficoltà varrebbe quasi egualmente anche
por (ji3a< impera, che ordinarissimamente si dice |ii3u>
e ui$o|iat, non [ieSéio, del quale lo Scaglila non reca clic
ìun solo esempio di Omero usante il participio jasSécdv
(frequentissimo è per lo contrario (téSióv)^ o ciò l'orse
piuttosto por proprietà di dialetto o per modificazione
boetica. che per altro. Né si trova, eh' io sappia, il
futuro pM\oofm né 1 ! aorista 1^0^ o ^^aà^v,
come di ^ho^.a.i si ha p^ì'ipQfiMi
Intrinsecamente, cioè quanto al significato, una
bellissima prova che medeor sia lo stesso che p4]$òfu*t,
si è la facilità, prossimità e naturalezza dell'etimo-
logia. Il medicare è veramente curare, aver cura, con-
sidera, provvedere, (tutti significati di pijSojioct) al ma-
lato. E infatti (3355) non s'usa ogli in latino pecu-
liarmente il verbo curare per medicare ? Non è divenuto
questo senso, nel nostro volgare o ordinario uso, il solo
proprio dello stesso verbo curare? cioè medicare, sa-
nare.- Non è egli assolutamente (s'io non m'inganno)
il solo senso che abbia lo spaglinolo curar? Cosi dite
di cura, francese cu/te ec, cioè medicatura, guarigione.
Dunquo medeor è pròpriamente |ri|to|Mtt anche poi si-
gnificato, colla sola differenza ch'egli conserva solo un
significato più particolare o specialo, in cambio d'uno
più genorale; corno appunto è avvenuto, nel nostro
volgar familiare e parlato, al verbo curare, e nella
lingua spaguuola a curar, eh' è proprio lo stessissimo
e idontico caso; e cosi a milioni d' altri verbi in di-
versi casi. Sicchó medeor è |n*f|tyitfet, neppure metafo-
rico (se non quando significa rimediare, sanare), ma
noi senso proprio, e non istiraochiato, corno derivan-
dolo da jj.éSui impero.
Del MStO, osservisi che |«.i5<->, e particolarmente
pityliat; vaio assai spesso il medesimo che ^Àfiofm, cioè
') Si trova anello traflps&tMV o rtaflJllWotW.
Lkoi'ABDÌ, — Pensieri, V.
22
338
VF\-.*l|.-,l!l
(3355-3356-3357)
curo, curam gcro. E probabilmente (3356) l'uno e l'al-
tro non vengono elio da una radice, e sono in origino
un solo verbo, significante da principio o impero o
curo, che ciò non monta al presente. Nego dunque elio
medeor venga da (iéSai impero, non nego che venga da
|j.:Sui, anzi da fiitójvu, curo, il elio vieno a ossero il
medesimo cho derivarlo da p-f|$o|iat. Anzi, sebbene nello
voci antichissime non si può né si dee molto guar-
dare alle brevi e alle lunghe, c moltissime altre dif-
foronze di questa sorta, ai potrebbero allegare tra voci
greche e voci latine identiche di significato o corto
di origine, o anche tra l'antico e il più moderno la-
tino, o tra vari secoli della latinità o della grecita,
intorno a una stossa voce; contuttociò non contra-
Etorò cho medeor si derivi piuttosto da |jìqo[j.«i che
da a cagione che la me di medeor ò breve si
in osso, si in medicar e in tutti gli altri suoi deri-
vati o composti (come remedium), non eccettuato il
verbo meditar, di cui or ora. E si può ben credere
che (jiSip/.' avesse l'anomalo futuro as&Y|<5enaf (come
(l.4j8o(iai ha |.i.Y|S'f,a'jiiai), indicante il verbo inusitato
p,e$éo|i.«t, massime cho si trova (3357) il suo attivo
;j.E?éo>. Anzi sarà naturalissimo il supporre che medeor
venga a dirittura dall'inusitato |j.e5so|j.'xi (fosso proprio
di tutta la Grecia o solo di qualche dialetto che cosi
10 mutasse da uì8o|aoc) e cosi il verbo medeor non po-
trebbe, né pel significato né per la forma, essere più
evidentemento, porfettamento, rogolarmonto e compi n-
fcàménto lo stesso ohe il verbo greco.
Da medeor dunque, cho poi passò a significare
spocialmonto e unicamente il medicare, coi significati
metaforici a questo convenienti; ma che da principio,
secondo il sopraddotto, significò, siccomo il greco
i).e'>ér>(i.ai generalmente curo, curam. gero, constilo; da
medeor dico io che giusta l'ordinaria o regolare for-
mazione do' continuativi da' participii in us, fu fatto
11 verbo meditar.
(3357-3358-3359) nw siimi 339
1° Anclio meditor, conio medeór e come medi-
cor o conio jiYi&o|J.«t, è doponente.
2°, Meditor quanto al significato equivale appunto
al greco Or questo donde è fatto? da fiiX»
(oggi inusitato, so non (3358) impersonale) rame sum.
e fora' anche fiwro, ondo (liUjwM cwro, curamgr.ro, ondo
,wUrr] cura, ondo jnsX«(i<o, cwro, OUWM» i/ero, e quindi
exerceo, exerceo me, meditar, siccome anche pXétf| vaio
exereitatio, meditatio, anzi anche il participio |iejj.eX?ijxf<
di trovasi puro per qui se exercuit ec. (vedi lo
Soapula in pellài»). l ) Può darsi un esempio o una
prova più bella? MsXsmio è propriamente il meditor
de' greci, od esso viene da ftfXw euro, come meditor
da medeor nel suo primitivo, proprio e generale si-
gnificato, cioè appunto curo. Certo è ridicolo il dori-
varo meditor da |ls Xetà<» (come fa il Porcellini), perche
questi verbi significano la stossa cosa; ma sebbene
quanto all'origino e alla stirpo essi non abbiano tra
loro nulla che fare, contuttociò la derivazione do!
verbo greco serve a mostrare evidentissimamente e
chiarire la derivazione, la discendenza, l'origine, la
radice del verbo latino a lui equivalente. Derivazione
confermata e comprovata dalla nostra teoria dolla for-
mazione de' continuativi, tra' quali questo (3359) e ro-
golarissimo per la forma, proprissimo pel significato.
Chi non vede che l'esercitare o il meditare una cosa
è una continuazione del semplico averne o pigliarne
cura? il che si può talvolta compiere in poca d'ora;
ma quello di necessità e por sua natura esige durata,
lunghezza, continuità di tompo.
Ecco come la nostra teoria do' continuativi ri-
schiara mirabilmente le origini della lingua latina,
rettifica l'etimologie, mostra le vero o primitive pro-
prietà delle voci, lo analogie scambievoli delle lin-
gue Come qui, col l'osservazione che meditor debba
') Lo ere*' crmra ili »tfimi>n por (H|M*«TWÓI«>
3'J.O
pensieri (3359-3360-336 1)
venire da un participio in us oc; l u , trovasi il per-
duto participio o supino di medeor; 2°, scoprasi la vera
etimologìa di meditar) 3°, corroggosi o dichiarasi ij nulla
di medeor; 4°, trovasi e dimostrasi il primitivo o pro-
prio significato di questo verbo; 5 € , osservasi l'analo-
gia tra la lingua greca e la latina nello paragonate
derivazioni di meditar e di heXstcìco (vorbi equivalenti)
rispetto al significato (3 settembre 1823). - • Come i
re antichissimamente erano quello che dovevano, cioè
tutori e curatori della repubblica, (Cicerone, de reo,),
(3360) Ó tali orano riputati ben più che poscia non
furono, ') non è maraviglia che il re fosse chiamato
curatore (jj.éSwv) e il regnare curare, o viceversa. In-
somma fu ben facile e naturale la traslazione dal-
l'uno all'altro di questi significati, qualunque de' due
si fosse il primitivo o proprio del verbo (téSco. 2 ) — Me-
deor, meditor sono deponenti. Cosi pt^opi è medio. Ed
è bon naturalo elio in senso di euro, curarti tjero si
dicesse piuttosto (xtSioaat o pi8ou.ou elio jj.sSoo attivo,
perché questo significato è di quelli che hanno un
non so che di reciproco, i quali sogliono esprimersi
in greco col verbo medio. Ond' è altresì naturalissimo
che medeor sia deponente, venuto cioè da p.é&o|j.at o
[isSéojicn, quantunque esista anche l'attivo di questo
Verbo. Il quale non esiste in |vfj8o|MM. Ma ciò, per la
detta ragione, non fa gran forza a provare che me-
deor sia piuttosto |r»)8o|Xttt che il verbo [li^i» - (iéSo|iat
(5 settembre 1823).
* Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella con-
versazione o nella vita, quanto oi (3361) sa ridere
(5 settembre 1823).
') Cohì puro i ministri do' ro, i capit&llì fi tutti (inaili (dio comari:
diwiioo e governarono. &noho posniJi. nmnì Mnvnnfn in tatto In lincilo, nd
o^gì rio piti no mono, it governo fa ehfarosto n ai ri lìum . eura t e il gn-
remare aver cura, come de' negtizi pithblivi, della cotta pubblica 8c,
s ) Io pm- im> cincin inrfi[liit!itji.innnin lineilo di filtrare
[336 1-3362-3363) pensieri J*41
* Conskder francese continuativo di consto as, non
'•.mutato l'o di constatus in i, il che dimostra che que-
sto continuativo dov'essere latino-barbaro, o d'origino
francese TI simile dicasi dello spagnuolo horadar (an-
ticamente fondar) da foro a*. Vedi il glossano se
fia nulla in propòsito (5 settembre 1823).
« Alla p. 3282. L'uomo (cosi la donna) debole e bi-
sognoso dell'opera altrui, o nato o divenuto, s'abitua
ad ossero in qualche modo, più o mono, servito e sov-
venuto dagli altri, ed esso a non servire né aiutare
nessuno, perca' ei non può, quando anche da principio
il desideri, quando anche per indole sia inclinato a
beneficare. Per quest'abito ei contrae l'egoismo, il
quale come vedete, non è ingenito in lui por se stesso,
((mando anche ei sia stato sempre debole e bisognoso
Jin dalla nascita), ma lìglio di un abito da lui latto
o più presto o più tardi, incominciato fin dal princi-
pio dèlia vita, o sul fior degli anni, o al mezzo, o sul
declinare ec. Ter quest'abito ei s'avvezza a ■ "pa-
rare (so non per ragione, corto praticamente) (3362)
gli altri come fatti per lui, e sé come fatto per so
solo, et' è appunto l'egoismo; diventa alieno dalla
compassione e dalla beneficenza ch'egli non ha mai
potuto o non può più esercitare, di cui non ha mai
potuto acquistare o ha dovuto perdere l'abitudine
(5 settembre 1823).
* Alla p. 3078. Queste medesimo anomalie della
lingua spaglinola, e quello molte più della lingua ita-
liana (dello quali vedi la p. 2688, segg. e altri luoghi),
nullo quali anomalie quoste lingue, por seguir la la-
tina, abbandonano la norma della loro propria analogia,
possono servire a far credere che quando elle dalla
propria analogia non si scostano, non perciò abbando-
nino la lingua latina, ma la segnano, non quale noi
la conosciamo, bensì quale ella fu conservata nel voi-
342
l'ENSlliltl
(3362-3363-3364)
gare: massime so in questi casi si vegga, come spes-
sissimo o l'orso lo più volto si vede, che la lingua
italiana o spaglinola, seguendo la propria analogia, se-
gue ancor quello elio sarebbe stato soeondo la vera
analogia della lingua latina, sobben questa, per ciò
ohe noi ne conosciamo, in moltissimi di questi casi
non segua ossa analogia sua propria, ma sia anomala e
(3363) irregolare. Laonde non sarà da dispreizarsi il
testimonio che da 1 participii regolari italiani o spa-
glinoli hì volesse trarre a provare che anche la lingua
latina avesse i participii analoghi a questi (benché a
noi sconosciuti), e da cui questi sieno derivati, Per
esempio, dall'italiano veduto io potrò non vanamente
dedurre il latino vidifocs che sarebbe appunto il rogo*
larissimò latino, siccome quello è il regolarissimo ita-
liano. Massime che siccome in latino visus anomalo,
cosi trovasi ancora in italiano e in ispagnuolo l' ano-
malo visto, in cui queste lingue lasciano la loro ana-
logia per seguire, non già l'analogia, ma l'anomalia
della lingua latina. Voggasi la p. 3032, segg. e in
particolare la p. 3033, margino. Similmente si può
discorrere dolla lingua francese. E general mento os-
servando, si vedrà elio quanto ai participii passivi,
quello eh' è o sarebbe regolare nelle linguo figlie
(salve le solito o regolari modificazioni, cioè dello de-
sinonzo dell' i vòlto in u nell'italiano, come a p. 3075
e altre tali) è o sarobbe altresì rogohuo noi latino
(5 settembre 1823). (3364)
* Il subito passaggio dal gravo, sorio, lento, ma-
linconico, passionato, raccolto e, come si dico, dall'ada-
gio (s' io non m'inganno) all'allegro, all'accelerato, al
dissipato, aNétourdì oc. ec, tanto usitato nolla nostra
musica, anzi proprio di quasi tutte le nostre arie ec,
non solo non ha fondamento alcuno nolla natura, ma
anzi è generalmente contrarissimo alla natura, nella
quale niente v'ha di subitaneo, e molto manco il
(3364-3365) pensi eri
passaggio da'contrarii ne'contrarii. Oltre che, astraendo
pure dal subitaneo, l'allegro nuoce al passionato, spegne
o raffredda la passione nogli animi degli uditori, con-
trasta bruttamente con quello che procedette; 1' ottetto
féll'una parte della melodia nuoco, contrasta, distruggo
quello dell'altra; è inverisimile che un malinconico parli
in tuono allegro, un passionato in tuono dissipato , e ai
abbandoni al gaio, allo scherzevole, all' insouciant, al
pazzeggiare oc. ec. Nondimeno l' assuefaziono elio chiun-
que ha udito musica, dove tra noi aver fatto a quosti
tali passaggi, co li fa parer conveniontissimi, ce li
fa aspettare come naturali, come richiesti dalla me-
lodia oc. procedente, come dovuti, come proprii asso-
lutamente della composizione musicale; fa che il no-
stro orecchio li richiegga come spontaneamente e
naturalmente (e cosi è infatti, perché l' assuefazione e
seconda natura); anzi, mancando ossi, ci fa conside-
rar questa mancanza come sconvonienza; fa elio il
nostro orecchio desideri alcuna cosa, non resti soddi-
sfatto, anzi resti come cKòqué e molti della mancanza,
deluso spiacevolmente dell'aspettativa; insomma la
olio tal mancamento (3365) produca il senso e il giu-
dizio dell'imperfetto, del mutilo, del disavvenevolo, e
quindi del disaggradevole, e quindi del brutto musi-
cale l ) (5 settembre 1823). Dunque l'idea del contrario,
del brutto, cioè del bello e della convenienza musi-
cale, dipondo ed è determinata dall'assuefazione, tanto
che so questa è , non solo non naturale, ma contraria
alla natura, anche quel bello e quella convenienza,
cioè l'idea cho noi n'abbiamo, è, non solo oltre .na-
tura e non fondata sulla natura , né prodotta dalla
natura, ma contro natura (6 settembre 1823).
li ii ,i*tto naesaEfflo è aiwttaitiente contrario all' Imitazióne; che
, • } ^&S%nò o l'i, ilici» della «maloa, oome dell'atee
X dovrebbe W *»« — <°
u,„ cosa con eaaa ce. Dicio dico altrove.
pENSiiciti (3365-3366-3367)
* « J'ai vu quatre sauvages de la Loui$iane qu'on
amena gii Franco, on 1723. Il y avait parmi oux uno
temine d'uno humour fort dauco, Je lui domandai, par
interprete, si elle avait mangé quelquefois de la chair
de ses ennemis, et si elle y avait pria goùt; olio me
répondifc qu'oui ; je lui domandai si elle aurait volon-
ticrs tuó ou fait tuer un do sos compatri otes pour le
manger; elio me répondit en frémissant, et avec uno
horrenr visible pour co orimo. » Volta ire, Corre-
spondance du Prinee Euyal de Prusse (dopuis Frc-
déric II) et M. da Voltaire, .Lettre 31, octobro, (3366)
à Ciroy, 1737. tome 1* de la Oorrenpondance de Fri-
dèric 7.7, Eoi de Prugse, X c do la oolleotion dea Oe.u-
vres Complettes de Frédéric II, Eoi de Prussia, J70O,
p. 142 (G sottombro 1823).
* La lingua latina s' introdusse, si piantò e rimase
in quelle parti d'Europa nello quali entrò antica-
mente o si stabili la civilizzaziono. Ciò non fu che
nella Spagna e nelle Gallio. Quella lino dagli antichi
tempi produsse i Seneca, Quintiliano, Coluinella, Mar-
ziale oc., poi Morobaude, S. Isidoro oc. o altri moltis-
simi di mano in mano, i quali divennero letterati o
scrittori latini, senza neppure uscire, come quei primi,
dal loro paese, o quantunque in esso educati, e non,
conio quei primi, in Roma. Lo Gallio produssero Petro-
nio Arbitro, Favolino ec, poi Sidonio, S. Ireneo ec.
La civiltà v' ora già innanzi i romani stata introdotta
da coloni greci. Pi più la corte latina v : ebbe sede per
alcun tempo. La Germania, bonchó soggiogata anch'essa
da' romani, e parte dell'impero latino, non diede mai
adito a civiltà né a lottore, né a' buoni no a' mediocri
né a' cattivi tempi di q noli 'imporo. Ella fu sempre
barbara. Non si conta fra gli scrittori latini di veruna
latinità (3367) (se non doll'infimissima) ninno che
avesse origino germanica o fosse nato in Germania,
346
(3367-3368) _ pknsusiu _ _
Ume^i conte pur ojiui di tutto l'altre provinolo o
Ri dell'impero romano. Quindi è olio la Germana,
Gufai suddite latina, benché vicina all'Italia, wm
«mimante, come la Francia, 8 più vicina assai che 1
Ena, non ammise l'uso della lingua latina 6 non
Urla latino (cioè una lingua dal latino derivata), ma
enerva il suo antico idioma (forse anche fu cagione
I «S e delle cose sopraddetto, che la Gerinama non
g mai intieramente soggiogata, ne suddita padhca,
om la Spagna e le Gallie; si por la naturale ferocia
Sa na.i ne, si por esser ella sui confini delle ro-
' conquiste, e prossima ai popoli d'Europa non
onestati e nemici de' romani, e sempre injgefa e
ribellanti, onde ad essa ancora nasceva e la facilita e
lo stimolo e l'occasione e l'aiuto e il comedo di n-
ù are). Senza ciò la lingua latina avrebbe indubita-
ta unte spento la teutonica, né di essa resterebbe
"or notìzia o vestigio che della celtica e dell'al-
ene la lingua latina spense affatto m Ispagna e
» (3368) lancia. Pelle quali la teutonica non doveva
ica esser più dura né più difficile a spegnere. Aim
I I celtica doveva anticamente essere molto più colta e
perfetta o formata che la teutonica, il che si rileva
i dallo notizie che s' hanno de' popoh che la .parla-
rono e delle loro istituzioni (come de' Druidi, de Bardi,
cioè poeti ec). e della loro religione, costumi, cogni-
^ onilt * ^ quello che avanza pur d'essa lingua ce -
t.ica e do' cauti bardici in essa composti ec. L ingh
erra par ohe ricevesse fino a un certo segno l' uso della
,gu latina, eerto, se non altro, come lingua letterata
e da scrivere. ') Ella ha pure scrittori, non solo del
... 1 aI* "li * in D ft to»i», -11- isolo grwhe e difetti domMi
ohi ce.
PENSIERI (3368-33S9-3370)
L'inflìtta, ma anche della media latinità, comò Eeda ec.
Ma era già troppo tardi, ai perché la lingua latina
era già corrotta e moribonda per tutto, anello in Italia
sua prima sedo, si porché l'impero latino era nel caso
BÉèsBo; Quindi i Sassoni facilmente distrussero la lin-
gua latina in Inghilterra, ancora inferma e mal pian-
tata, o propria solo dei dotti (com' io credo), e lo sosti-
tuirono la (3369) teutonica, trionfando allo stesso
tompo (almeno in molta parte dell'isola) anche del-
l'idioma nazionale, indigono, ineritalo; e volgare, cioè
del celtico ce, al qual trionfo doveva puro aver già
contribuito la lingua latina, soggiogata poi anch'essa,
e più presto ed interamente dell' indigona, da quolla
do' conquistatori. Laddove nello Gallie i Fianchi non
poterono mica introdurre la lingua loro, benché con-
quistatori, né estirpar la latina, bon radicata, o per
lunghezza di tempo, c perché insieme con essa erano
penetrati c stabiliti nelle Gallie i costumi, la civiltà,
le lettere, la religione latina, e perché quivi dotta
lingua non ora già propria ai soli dotti, ma comune
al volgo, ond' essi conquistatori l' appresero, e par-
lata oc. Cosi dicasi de' Goti, Longobardi ec. in Italia,
de' Vandali ec. in Ispagna. Che se la lingua latina in
Italia, in Francia, in Ispagna trionfò dello lingue
germaniche, benché parlato da' conquistatori, può esser
sogno oh' olla ne avrebbe pur trionfato nella Germa-
nia, ov' elio parlavansi da' conquistati, se non 1' aves-
sero impedito le cagioni dette di sopra. Perocché si
vede elio la lingua latina trionfava (3370) dolFaltro,
non tanto come lingua di conquistatori e padroni, su-
perante quella do' conquistati e do' servi, né come
lingua indigona o naturalizzata, superante le fore-
stiere, avventizie e nuovo ; quanto corno lingua cólta
e formata, superante le barbaro, incólte, informi, in-
certe, imperfetto, povoro, inBunieienti. indeterminato.
Altrimenti non sarebbe stato, corno fu, impossibile ai
successivi conquistatori d' Italia, Francia, Spagna, il
(3370-337 1-3372) "' PBKSUffftì -V ./ ™>
far .mallo elio i latini ne' medesimi paesi, conquistan-
Bi, avevano fatto; cioè l'introdurrò le prozie lin-
gue in luogo di quello de' vinti. Nel mentre che i
Lsoni in Inghilterra, Certo né più civili, nj Po-
tenti de' Franchi, de'Goti, do- Mori ec, i SasBom,^-
co. in Inghilterra, e poscia i Normanni, trionfava no
pur senza pena dolio lingue indigene di quo U «ola,
lerohó mal formate ancor esse, benché non affatto bar-
baro, ed anzi (per esempio la celtica) pm colto oc. dello
loro Ma queste vittorie della lingua latina si ne -
\ introdursi fra' conquistati, e forestiera scacciavo lo
jngue indigene; si nel mantenersi malgrado 1 con-
quistatori, e in luogo di cedere, divenir propria an-
che di questi, si dovettero, come ho detto, in grandis-
sima parte alla civiltà dei (3371) costumi latini e
Ille lettere latine con esse lingue introdotte o con-
servate : di modo che dotta lingua non riporto tali
vittorie, solamente come cólta e perfetta per se, ma
come congiunta od appartenente ai colti e civili co-
stumi, opinioni o lettere latine. Perocché come ho
dotto sempre ch'ella ne fu disgiunta, cioè dovunque
la civiltà e letteratura latina, e V uso del Viver la-
tino, o non s' introdusse, o non si mantenne, o scarsa-
mente s'introdusse o si conservò; ne anche s intro-
dusse la lingua latina, come in Germania, o non Si
mantenne, come accadde in Inghilterra. E ciò ai vedo
non solo in queste parti d'Europa, che non ammaro
la civiltà latina per eccesso di barbarie, o che non
ammettendola, restarono barbare; ma eziandio in
quello dove una civiltà od una letteratura indigena
escluse- la forestiera, in quelle che non ammettendo i
costumi nó le lettere latine, restarono pero, quali
erano, civili o letterate, cioè nelle nazioni greche. Le
quali 'non ricevendo l'uso del viver la ino non rice-
vettero neppur la lingua, benché la sede dell impero
(3372) romano, e Eoma e il Lazio, per cosi dire, fos-
sero trasportato e lunghissimi secoli dimorassero noi
34B
i'kxsikki
(3372-3373)
loro seno. Ma la Grecia contnfctociò non parlò mai nti
scrisse latino, ed ora non parla né scrive ohe greco.
Ed essa era pur la parte più . civile d' Europa, non
esclusa la stessa Roma, al contrario appunto della
Germania. Sicché da opposto, ma analoghe e corrispon-
dènti e ragguagliato o proporzionato cagioni , nacque
10 stesso effetto.
Tutto ciò che ho detto doli' Inghilterra si retti-
fichi consultando gli storici, e quello che altrove ho
scritto circa 1' uso della lingua latina in quel paese
e nella Scozia e nell'Irlanda (6 sottombro 1823).
* Dialetti della lingua latina. Vedi Cicerono, //ro
Ardila -poeta, c. X, fine, dove parla do' poeti di
Cordova pingue quiddam sonanti-bus atque perei/ rinum.
Non avevano certamente questi poeti scritto nella
lingua indigena di Spagna , elio i romani mai non
intesero, siccome niun' altro idioma forestiero, eccetto
11 greco; ina in un latino che sentiva di spagnoli-
smo, come quel di Livio parve (3373) sapere di par
tavinità. E le parole di Cicerone, chi ben le consideri
anche in se stesse, non possono significare altro. Pe-
rocché era fuor di luogo la nota di peregrino se si
fosse trattato di ima lingua forestiera, clic non in
parto, o por qualche qualità, ma tutta è peregrina:
né questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo
considerar come tale, soverchiamente leggiera e spro-
porzionata sarebbe stata quella semplice espressione
che la lingua e lo stilo di quei poeti sapeva di fo-
restiero. Oltreché l'usa e l'altro sarebbero stati bar-
bari, o per le orecchie romane affatto strani, rozzi,
insolenti, insopportabili, non cosi solamente mac-
chiati d'un non so che di pingue o di peregrino. Era
in Cordova introdotta già (siccome in altre parti della
Spagna già soggiogata, porche quella provincia non fu
sottomessa che a poco a poco, c con grandissimo in ter-
(3373-3374-3375) pensieri P*"
Clio una parto dopo l'altra, o, come osserva Velloio, ')
|„ di tutte la più renitente, o tra le romane cor-
fciate la più lunga o difficile o per lungo tempo m-
Ltìssima); era, - dico, introdotta già in ^dova la
lin-ma e la letteratura latina, siccome (3374 dimo-
stra l'aver essa poi potuto produrrò i Seneca e Lucano
l'esempio dolio stile de' quali può (quanto allo stilo)
servire pur troppo di copioso commonto allo parole
di Cicerone, che, s'io non m'inganno, della lingua
no n meno dio dolio stilo si debbono intendere (6 set-
tembre 1823).
* Dico in più luoghi che la natura non ingenera
nell'uomo quasi altro che disposizioni. Or tra questo
bisogna distinguere. Altro sono disposizioni a poter
essere altre ad essere. Per quello l'uomo può divenu-
tale o tale; può dico, o non più. Per questo 1 uomo,
naturalmente vivendo, e tenendosi lontano dall arto,
indubitatamente diviene quale la natura ha voluto
di' oi sia bendi' ella non 1» abbia fatto, ma disposto
solamente a divenir tale. In questo si deve conside-
rare l'intenzione della natura: in quello no. E se poi
q nelle 1' uomo può divenir tale o tale, ciò non im-
porta che talo o tale divenendo, egli divenga quale
a natura lì a voluto di' ei fosse: perocché la natura
, )0r quelle disposizioni non ha fatto altro che lasciare
all' uomo la possibilità di divenir talo o tale ; ne
Sello sono (3375) altro die possibilità. Ho distinto
due generi di disposizioni per parlar pm chiaro. Ora
parlerò più esatto. Le disposizioni naturali a poter
ossero e quello ad essere, non sono diverse indivi-
dualmente l'une dall'altro, ma sono individualmente
lo medesime. Una stessa disposizione è ad essere e
a poter essere. Tu quanto ella è ad essere, 1 uomo,
') VBU.RIO, ti, ». » i *&m ». »! L,v,0 > XXV11I. 13.
3Ò0
l'KNSIUI.'l
(3375-3376-3377)
Seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da
circostanze non naturali, non acquista clic lo qua-
lità destinategli dalla natura, o diviene quale ei
dev'essere; cioè quale la natura obbo intenzione eli' ci
divenisse, quando pose in lui quella disposizione.
In quanto ella è disposiziono a poter essere, 1 ! uomo
i rifluito da vario circostanze non naturali, siano in-
trinseche sieno estrinseche, acquista molto qualità
non destinategli dalla natura, molto qualità contrarie
eziandio all' intenzione della natura, e diviene qua!
ei non dov'essere, cioè quale la natura non intese
eh' oi divenisse, nell' ingenerargli quella disposiziono.
Egli però non divion talo per natura, benché questa
disposizione sia naturale: perocché essa disposiziono
non era ordinata a questo (3376) circi divenisse talo.
ma era ordinata ad altre qualità, molte dolio quali
allatto contrarie a quello cho egli ha per detta di-
sposiziono acquistato. Bensì s' egli non avesse avuto
naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe
potuto divenir tale. Questa ò tutta la parte cho ha
la natura in ciò ohe tale ei sia divenuto. Siccome, so
la disposizion fisica del nostro corpo non fosse qual
olla è por natura, 1' uomo non potrebbe, per esempio,
provare il doloro, divenir malato. Ma non perciò la
natura ha cosi disposto il nostro corpo acciocché noi
sentissimo il doloro o infermassimo; né quella dispo-
siziono è ordinata a questo, ma a tutt' altri e contrarli
risultati. E 1' uomo non inferma per natura: bensì può
por natura infermare; ma infermando, ciò gli accado
centra natura, o fuori e indipendentemente dalla na-
tura, la quale non intese disporlo a informare.
Similmonto si discorra degli altri animali, o di
mano in mano degli altri goneri di creature, con que-
st'avvertenza però e con questa proporziono, cho negli
altri animali le disposizioni (3377) ingenite sono più
ad essere che a poter ossero; il elio vuol dire che gli
animali sono naturalmente meno conformabili dol-
(3377-3378) pensieri 351
V nonio; che essi per lo loro naturali disposizioni, non
solo non debbono acquistare altre qualità che le de-
stinato loro dalla natura, il che è proprio anche del-
l' nonio, ma non possono acquisiamo molto diverso
da queste, come 1' uomo può; non possono acquistar
tanto e cosi varie qualità, come 1» uomo può, per es-
sere sommamente conformabile: in fino ohe le loro
naturali disposizioni non rendono possibile tanta va-
rietà di risultati, non possono esser cosi diversamente
applicate o usate corno quelle dell' uomo. Ond e cho
gli animali non acquistino quasi altre qualità che le
destinato loro dalla natura, non divengano se non
quali la natura gli ha voluti, quali olla intese che
divenissero noi dar loro quelle disposizioni. Il che
vuol dire eh' oi si mantengono nello stato naturate:
ohe non è altro se non quello che ho detto, cioè di-
venir tali quali la natura ha inteso; porche ne anche
eli animali nascono, ma divengono; ne la (3378) na-
tura ingenera in essi delle qualità, ma delle dispo-
sizioni, ben più ristrette che quello dell'uomo. In
questo modo e con questa proporzione passando ai
vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena
degli esseri, troverete che te naturali disposizioni
sono di mano in mano sempre maggiormente ad os-
sero cho a poter essere, cioè si restringono, finche
gradatamente si arrivi a quegli enti no' quali la na-
tura non ha posto disposizioni né ad essere né a
poter essere, ma solo qualità. Del qua! genere io non
credo che alcuna cosa si possa in verità trovare,
esattamente e strettamente parlando, ma largamente
si potrà dire cho di tal genere sia questo nostro
globo tutto insieme considerato e rispetto al sistema
solare o universale, e similmente i pianeti e il sole
e lo stelle e gli altri globi celesti. Ne' quali e ne moti
loro e por dir cosi, nella vita e nell'esistenza rispet-
tiva dogli uni agli altri, rdun disordine si può tro-
vare, ninna irregolarità, niun morbo, niuna ingmnn,
352
PENSIERI
(3378-3379-3380)
rniin accidente, successo o effetto che sia contro né
fuori delle intenzioni avuto dalla natura noi porro in
eggj le qualità che ci ha posto; dico le qualità ri-
spettivo (3379) che hanno gli uni verso gli altri, lo
quali negli effetti e nell'uso loro sempre o interamente
corrispondono alle primitive destinazioni della na-
tura, e immutabilmente sorbano ed efficitmt quell'or-
dine dell'universo che la natura volle espressamonto
o vuole, e quella vita o esistenza ch'essa natura gli
ha destinata, e tale né più né meno quale olla in-
tese o ordinò che fosso. Da questo genero di esseri
rimontando indietro per insino all' uomo, troveremo
sempre di mano in mano decrescerò secondo l'ordine
dello specie e de' generi, il numero e l'efficacia e
importanza delle qualità ingenerate in ciascun di ossi
generi o specie dalla natura, e crescere altrettanto il
numero o l' estensione, la varietà o piuttosto la va-
riabilità o adattabilità dolio disposizioni in osso dalla
natura ingenerato: o queste disposizioni esser da prin-
cipio solamente, o quasi dol tutto, ad ossero, poscia
oziandio a poter essere, e ciò sempre più salendo
pe' vegetabili ai polipi, indi por le varie specie d'ani-
mali fino alla scimia e all'uomo salvatieo. e da queste
specie all' uomo. Nella cui parto che si chiama mo-
rale o spirituale troveremo, come ho dotto, che (3380)
la natura non ha posto di sua mano quasi veruna
qualità determinata, se non pochissimo, o queste sem-
plicissime: tutto il resto disposizioni, non solo ad es-
sere, ina a poter ossero tante cose, ed acquistare tanto
varie qualità, quanto nitro altro genere di enti a
noi noti. J£ per questa scala ascendendo, troveremo
colla medesima gradazione, che quanto minore in
ciascun genero o specie è il numero e il valore delle
qualità ingenite e naturali, quanto maggioro quello
delle disposizioni artrosi naturali, e quanto maggior-
mente queste disposizioni sono a potor essoro (ossia
divenire), tanto maggiore esattamente in ciascuno
(3380-3381-3382) p ensieri 35 ^
d' essi generi o specie, e noli' esistenza loro, e negli
effetti loro sopra se stessi e fuor di so stessi e il
numero e la grandezza de' disordini, delle irregola-
rità do' morbi, de' casi, degli accidenti, de' successi
non naturali, non voluti o espressamente disvoluti
dalla natura, contraili alle intenzioni e destinazioni
fatte dalla natura nel tonnare quei tali generi o spe-
cie, e nel cosi disporli com'essa li dispose, si rispetto
a se stessi, si riguardo agli altri generi o specie a
cui essi hanno relazione, ed all'intera (3381) univer-
sità dello coso. Tutto ciò troverassi nelle meteore,
ne' vegetabili, negli animali sopra tutto, e fra gli
animali, sopra tutti nell'uomo, ossia nel genero umano.
Perocché il vivonto è meno dell'altre cose tutto com-
posto di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra'vi-
vonti 1' uomo in massimo, grado. Nel quale è mag-
gior la vita che negli altri viventi; e la vita si può,
secondo lo fin qui dette considerazioni, definire una
maggiore o minore conformabilità, un numero e va-
lore di disposizioni naturali prevalente in certo modo
(più o mono) a quello delle ingenite qualità. Mas-
sime rispetto allo spirituale, all'intrinseco, a quello
che, propriamonte parlando, vive; a quello in che sta
propri amento e si esercita la vita, in che siede il
principio vitale e la facoltà dell' azione, sia interna
sia estorna, cioè la facoltà del pensiero e della sen-
sibile operazione ec. Nella qual facoltà consisto pro-
priamente la vita ec. (6-7 sottombro 1823). Por lo
contrario lo cose ohe meno partecipano della vita sono
quelle cho per natura hanno meno di qualità o più
di disposizione, cioè le meno conformabili natural-
mente. E so v' ha cosa che non sia punto conior-
mabile naturalmente, quella niente partecipa della
vita, ma solo esiste; quella è cho si dee propria-
mente (3382) chiamare semplicomonto e puramente
esistente ec. ec. ec (8 settembre, Natività di Maria
Stintissima, 1823).
Lkui-aum. — i'eiuim, V. « B
354
PENSIERI
(3382-3383)
* Alla p. 3343, margino. È da notare che tutti questi
nomi per etimologia non significano propriamente al-
tro elio misero , afflitto ec. o povero oc. o fatichevole
ec, ovvero miseria, calamità, povertà, laboriosità ec.
E che in processo di tempo molti di essi, e forso i
più. perduta o fatta men comune e antiquata o poe-
tica 60, questa significazione, non ritennero nell' uso
ordinario cho quella di ribaldo, cattivo, scellerato, mal-
vagità, nequìzia, ec, quasi fosse impossibile che il mi-
sero non forse malvagio. Probabilmcnto la distinzione
tra itóvvjpos mixer e itov/;pi; impTÒbus, e la diversa ac-
centazione non vien che da' grammatici greci, i quali
non considerarono i tanti altri esempi di voci si gre-
che , si forostioro cho riuniscono V una o l'altra si-
gnificazione , e non avvertirono che la seconda ó un
vero e mero traslato della prima (8 settembre, Nati-
vità di Maria Vorgino Santissima, 1823).
* E tanto mirabile quanto vero, che la poesia la
i] italo cerca per sua natura o proprietà il bollo, e la
filosofia ch'ossonzialmonto ricerca il vez - o, cioè la cosa
più contraria al bello; sieno le facoltà le (3383) più
atfinj tra loro, tanto cho il vero poeta è sommamente
disposto ad essor gran filosofo, e il vero filosofo ad
esser gran poeta , anzi né 1' uno né l'altro non può
esser nel gener suo né perfetto né grande, s' ei non
partecipa più che modiocromonto dell' altro genero ,
quanto all'indole primitiva dell' ingogno, alla dispo-
siziono naturale , alla forza dell' immaginazione. Di
ciò ho detto altrove. Le grandi verità, e massimo
noli' astratto e nel metafisico o nel psicologico oc.
non si scuoprono so non per un quasi entusiasmo
della ragione, né da altri che da chi è capace di questo
entusiasmo (eccetto eh' olle siono scoporto a poco
a poco, piuttosto dal tempo e dai secoli, cho dagli
nomini, in guisa cho a nessuno in particolare possa
attribuirsene il ritrovamento , il che spesso accado).
(3383-3384.-3385) pensi kui
La poesia, e la filosofia sono entrambe del pari, quasi
.le sommità dell'umano spirito, le più nobili o lo piti
difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano.
E malgrado di ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la
poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, si
la poesia (3384) come la filosofia sono del pari le pili
sfortunate e disgraziato di tutte le facoltà dolio spi-
rito. Tutto V altre dànno pano, molte di loro recano
onoro anche durante la vita, aprono P adito allo di-
gnità ec. : tutte l' altre, dico, fuorché queste, dallo
quali non v'è a sperar altro che gloria, e soltanto
dopo la morte. Povera e nuda vai, jilosnjìa. ') Della
sorte ordinaria de' poeti mentre vivono, non accade
pai-laro. Chi s'annunzia per medico, per legista, per ma-
tematico, por geometra, per idraulico, per filologo, per
antiquario, por linguista, per perito anche in una sola
lingua; il pittore oziandio e lo scultore c l'architetto,
il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti
questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati
nello conversazioni o nella vita civile con istima, ri-
cercati ancora, onorati, invitati, e quel ch'ò più pre-
miati, arricchiti, olovati alle cariche e dignità. Chi
s'annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch'egli
lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi
faccia caso di lui, non ottieno neppure eh' altri gli
parli con loggiero tostimonianzo di stima. La ragione
si è che tutti si credono esser filosofi, (3385) ed aver
quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero
metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acqui-
stalo e adoperare Laddove chi non è matematico,
pittore, musico ee. non si crede di esserlo, e riguarda
come suporiori per questo conto a lui ed al comune
degli uomini, quei che lo sono. TI genio, da cui prin-
cipalmente pende e nasce la facoltà poetica e la filo-
') Pbtuaiic*, 8on. Im gola, il tonno.
35(5 pensieri (3385-3386)
Sofloa, non si misura a palmi, corno ciò elio si ri-
chiedo a esser medico o geometra. Quindi nasco che
quello oh' ò più raro tra gli uomini tutti si erodano
possedorlo. E quindi è ohe le duo più nobili, più
diffìcili o più rare, anzi straordinario, facoltà, la poosìa
e la filosofia, tutti erodano possederle, o potorio acqui-
stare a lor voglia. Oltre ohe il gonio non può essere
né giudicato, né sentito, né conosciuto, né apergu
ohe dal genio. Del quale mancando quasi tutti, noi
sontono né se n'avveggono quand'ei lo trovano. E il
gustare, e potere anche mediocremente estimare il
valor delle opero di poesia o di filosofia , non è che
de' veri poeti e de' veri filosofi , a differenza delle
opore dell'altro facoltà oc. (338B)
E qui si consideri il divario fra gli antichi
e i inodorai tempi. Che fra gli antichi i filosofi, o
massimo i poeti, avevano senza contrasto il primo
luogo, se non nella fortuna (molti filosofi 1' ebbero an-
cora nella fortuna, corno Pitagora, Empedocle, Ar-
chita, Solone, Licurgo ed altri de' più antichi, che fu-
rono padroni dello rispettivo repubbliche), corto nella
ostimazion pubblica , non solo dopo morte , ma du-
rante la loro vita. E puro molti più erano allora che
oggidì quelli che potevano esser poeti, perché l' im-
maginazione era signora degli uomini ; e la dobole
filosofia di quo' tempi non distingueva gran fatto i
filosofi da' volgari, né molto si richiedeva per giun-
gere allo loro cognizioni e por salire alla loro al-
tezza. ■ — ec. ec. (8 settembre. Natalizio di Maria Ver-
gine Santissima, 1823).
* Alla p, 3205. Un suono dolce o penetrante, indi-
pendentemente dall' armonia o melodia cho può sem-
brare aver rapporto alle idee, gli odori, il tabacco ec.
influiscono sull' immaginazione massimamonte, e v'in-
fluiscono in modo al tutto fisico, cioè senz' alcun rap-
porto por se stossi alle idee. Laddove quegli oggetti
(3386-3387-3388) fensieui
357
olio agiscono sull' immaginazione (3387) e la risve-
gliano ec. per mezzo del senso della vista, lo fanno
eccitando certe idee apposite, legate a quei tali og-
getti o por la lbr propria forma, o per lo rimembranze
eli' ossi destano nolla memoria, o per immagini ade-
guato o analogho in qualunque modo a quella tal
vista ec. Niente di ciò accade noi suono semplico-
monto considerato, negli odori, nel tabacco ec. so non
accidentalmente, od anche fuori di tale accidente,
quello coso influiscono a dirittura sulla facoltà im-
maginativa. Cosi discorrasi anche della luce per so
stossa e indipondontemente dagli oggetti eh' ella ci
discuopre allo sguardo ; perocché ancho la luce por so
influisco e svoglia tìsicamente la facoltà immagina-
tiva, senza relaziono propria e particolare a veruna
idoa. Corto 1' immaginazione e visibilmonte sotto-
posti a millo cause totalmente flsicho, che la com-
muovono e scuotono, o l'assopiscono e intorpidiscono,
la sollovano o la deprimono, 1' eccitano o la ratìro-
nano, la scaldano o l'agghiacciano. Se dunque l'imma-
ginazione, (3388) perché non l'ingegno? mentre quella
è puro una facoltà tutta spirituale o tutta apparte-
nente a ciò che noli' uomo si considera come spinto ;
ò una parto o facoltà dell' animo solo, dello spinto ec.
e dello stosso ingegno (9 settembre 1823). Vedi p. 3552.
* Molti prosenti italiani che ripongono tutto il
pregio dolla poesia, anzi tutta la poosia, nollo stile, e
disprezzano affatto, anzi noppur concepiscono, la no-
vità do' pensieri, dello immagini, de' sentimenti ; o
non avendo né ponsieri, né immagini, né sentimenti,
tuttavia por riguardo dol loro stilo si credono poeti,
o poeti perfetti e classici : questi tali sarebbero forse
ben sorprosi se loro si dicesso, non solamonto che Ohi
non è buono allo immagini, ai sentimenti, ai pensieri
non è poeta, il che lo negherebbero schiettamento o ìm-
3. r i8
PENSIERI
(3388-3389-3390)
plicitamente ; 1 ) ma die chiunque non sa immaginare,
pensare, sentire, invontaro, non può né possodcro un
buono stilo poetico, né tenerne l' arto, né eaoguirlo,
né giudicarlo nelle opere proprio né nelle altrui; elio
1' arto o la facoltà e 1' uso doli' imnmginaziono o del-
l' invenzione è tanto indispensabile allo stile (3389)
poetico, quanto o torso ancor pili ch'ai ritrovamento, alla
scolta e alla disposiziono della materia, alle sentenze e a
tutte 1' altro parti della poesia ec. (vedi a tal propo-
sito la p. 3978-80). Onde non possa mai osser poeta
por lo stile chi non ó poeta por tutto il rosto, né
possa aver mai uno stilo veramente poetico clii non
ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudino, di sen-
timento, di pensiero, di fantasia, d'invenzione, in-
somma d'originalità nello scrivere (!) sottombro 1823.)
* La lingua spagnuola, secondo me, può ossero agli
scrittori italiani una sorgente di buona e bolla ed utile
novità ond'essi arricchiscano la nostra lingua, massi-
mamente di locuzioni e di modi.
1", Io penso che niuno possa pienamente di-
scorrere di niuna dolle cinque lingue elio compongono
la nostra famìglia, ciò sono greca, latina, italiana,
spagnuola e francese, s' egli non le conosce più che
mediocre monto tutto cinquo.
2", La lingua spagnuola è sorella carnalissima
della nostra. Or come sia ragionevole il dorivar (3390)
nuove ricchezzo nella lingua propria dallo lingue so-
relle, vedi, fra l'altre, p. 3192-6.
3", La potenza avuta dagli spaglinoli in Eu-
ropa, o in Italia nominatamente, al tempo appunto
che la lingua e letteratura nostra si formava o por-
fezionava, ciò fu nel cinquecento, 2 ) foco elio molti voci
') Puoi voiloro In piiRjr 5979-80 n 3717-50.
'> Vedi p. 3728.
3P>9
(3390-3391-3392) WBaM OD
o molte più locuzioni o forme spagnuolo fossore, non
solo dal volgo o nel discorso familiare, ma dai dotti
o dai lettorati nella lìngua scritta od illustre italiana,
introdotte o accettate in quel secolo e nel seguente
eziandio (dal Redi, dal Salvini, dal Dati oc.; vedi per
esempio la Crusca in albarotio, verdadiero. Dallo spa-
gnuolo viene f avverbio giacché o già che por poiché,
usatissimo appo i nostri migliori dol seicento). 1 e-
roeehé la lingua spagnuola era a quel tempo gene-
ralmente studiata, intesa, parlata, scritta, e lino stam-
pata, in Italia (vedi Speroni, Ovazioni m <>d<-, del
Bembo, nelle Orazioni Veneziane, 1596, p. 144; Uarp,
Lettere, voi. II, lett. 177). E questa è primieramente
un' ottima ragiono, perché dalla lingua spagnuola si
possa ancora (3391) attingere, dico l' essersene già
molto attinto. Oosi sempre accado nelle lingue. Il già
tolto d'altronde e naturalizzato prepara gli oreccln
o il gusto a quello elio si voglia ancor torre dallo
stesso luogo, appiana la strada, apparecchia quasi il
posto e il letto allo novità che dalla medesima fonte
si vogliano dedurre, e ne facilita l' introduzione. Il
canale è scavato, né fa di bisogno fabbricarlo ; sta
allo scrittore il dar corso per esso alle acque, giusta
la misura che gli paia opportuna. Aggiungasi a que-
sto che tale commercio, onde la lingua italiana 81
arricchì della spagnuola, fu, come ho dotto, nel secolo
in che la nostra lingua si formò e perfezionò, e prese
o determinò il suo carattere, cioè nel cinquecento ;
end' è beu naturale che molte parti della lingua spa-
gnola non ancora da noi ricevute convengano o con-
suonino colle proprietà della nostra lingua, poiché
Z poche forme e locuzioni, od anche non poche
voci spagnuolo e significazioni di voci, entrarono
nella compostone della nostra lingua appunto quan-
ti' ella ricevè la sua piena forma e perfezionamento e
ia distinta specifica impronta del suo (3392) carat-
tere Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri
3G0
PENSIERI
(3392-3393)
antichi non solo nel cinquecento , ma fin dal ducente
e dal trecento introdussero nella lingua nostra moltis-
sime voci, locuzioni o formo francesi elio ancora in
buona parte vi si conservano, queste, da tanto tempo
in qua, e similmente quello altro infinito cho i mo-
derni v'introdussero e v'introducono tuttavia, serbano
sempre, chi ben lo guarda, una sembianza e una iiso-
nomia di forestiero, massime lo locuzioni e formo. Lad-
dove le frasi e i modi, ed anche i vocaboli spaglinoli
introdotti nella nostra lingua, stanno o conversano in
essa colle nostre voci italiane cosi naturalmente che
paiono non vonuti ma nati, non ispagnuoli ma italiani,
quanto alcun altro mai possa essoro e quanto lo sono i
nostri proprii vocaboli. Anzi io so certo che pochissi-
mi, ma varamento pochissimi, sanno, o sapendo, av-
vertono questi tali esser modi o vocaboli o significati
d' origino spaglinola. Bon ne veggo assai sovonto dei
riputati e battezzati por purissimi italiani natii.') JSIé
me ne maraviglio, perocché in ossi la differenza del-
l'origino nulla si sonte, ed è possibile il saperla, ma
(3393) non il sentirla. E non voglio tacerò cho delle
tanto parole, frasi e formo francesi introdotte da' no-
stri antichi, sia ducentisti, sia trecentisti, sia cinque-
centisti, sia secentisti, nell'italiano, grandissima parte,
e forse la maggiore, è uscita dell' uso nostro ed an-
tiquata por modo che oggidì nemmeno il più sfron-
tato e impudente gallicista e parlatoro o scrittore di
francese maccheronico sarebbe ardito di usarle. E ciò,
quanto a quelle che furono tra noi usato nel ducento
o nel troconto, è accaduto da gran tempo in qua, cioè
lino dal cinquoconto, nel qual secolo lo anticho voci
francesi-italiane che oggi pin non s' usano, erano pa-
rimente quasi tutte dimenticato, bonchó dello altro se
ne introducessero. Ma dolle voci e maniero spagnuole
') Mngsimnmento modi o significati.
(3393-3394-3395) pensieri ^
introdotte fra noi, ljen poche o la minor parte, o corto
in assai minor numero cho delle francesi, si trovano
oc-n'idi esser caduto dell' uso nostro. Le altro han po-
sto da gran tompo saldissime radici nella lingua ita-
liana, corno quello che V hanno trovata esser terreno
proprio da loro, o tale che l'esservi osse stato (3394)
piuttosto trapiantate che prodotte spontaneamente e
primieramonto, sia piuttosto caso cho natura.
4° La lingua spagnuola è carnai sorella dell ita-
liana, non di famiglia solo o di nascita e di eredita,
ma di volto, di persona e di costumi. Né la lingua
francese so le può paragonare per questo conto, non
più elvella si possa comparare all' italiana o alla spa-
gnola per conto della somiglianza, sia esteriore eia
interiore, colla madre comune. La lingua spagnuola
è piuttosto altra che diversa dall'italiana M era ben
ragione che cosi fosse, perocché l'Italia, la Spagna e
la Grecia sono in Europa por natura di clima, di ter-
reno e di cielo le più conformi provincie meridionali )
Or tra queste, la Spagna e l'Italia avendo 1 una dato,
l'altra ricevuto una stessissima lingua, ora hen natu-
ralo cho in processo di tempo ambedue riuscissero
tanto o nientemeno conformi di linguaggio quanto a
duo separate nazioni è possibile il più. Laddove la
Francia che una medesima lingua riceve dall Italia
ancor essa, partecipando però del settentrionale, (3395)
c poi clima e per l'indole e per gli avvenimenti che
la storia descrive, settentrionali^ la sua ricevuta
lingua, o fecene un misto nuovo, suo proprio e bollo,
k L» a toriu offrir* molto prove di filli» dell» OÓBformltò tali' !»•
, , } , r it i ™i (o crocn) Fra V altee coes, 1' abuso pubblico o
^JHZ J^rt<M^* noli* Spagna, non ba nolla «torta
moderna «imo p» ~ làtltaslonì, logci, uat, 00-
52E£ ^ ffilo e* "Infloito U religion.. >o fc 3572-84,
atitnoi oc.
e maBeime tolti* 3675 ir poi.
802
russi uri
(3395-3396)
come altrove s' è detto. E intanto allontanandosi
da' suoni, dallo formo o dal gonio dulia lingua madre,
l'idioma francese col medesimo passo si divise ezian-
dio dall' indole, dallo spirito o dalla qualità de'suonj
dello lingue sorelle, che sempre alla madre si atten-
nero quanto comportarono i tempi e le circostanze ;
o elio quantunque inondate ancor esso dallo lingue
settentrionali, pure, por la totale diversità del clima
e doli' indolo dello loro regioni, se no mantennero cosi
pure, clie pervenute, per cosi diro, a seccarle, soltanto
pochissimo parole, niuna forma, ninna qualità appar-
tenente al genio ed all' indole si trovarono averne
contratto. Veramente la lingua spagnuola o por ca-
rattere e por forme o por costrutti e per suoni e per
che che sia, è cosi conforme all' italiana, cho altre
due lingue cólte cosi tra loro conformi non si trovano,
eh' io mi creda, né mai, eh' io sappia, si ritrovarono.
(3396) E più conformi sarebbero le suddetto due lin-
gue se la Spagna avesse avuto o po tosso vantare più
vasta, copiosa e varia, più lunga, e più perfetta let-
teratura, eh' ella non ebbe. Dico sarobbono pili con-
formi por ciò che tocca alla quantità, come dire alla
ricchezza, alla varietà e cose tali. Che per certo non
mancò alla lingua spagnuola so non quello che ho
detto, per essoro ancho in questo parti comparabile
alla lingua italiana; per esserlo cioè in tutto, anche
nella quantità, siccom' essa lo è nella qualità, eccetto
solamente che ancor nollo sue qualità oli' è mono per-
fetta dell' italiana. Del rimanente olla, quanto alla
qualità, non potrebbe quasi ossero più conforme alla
nostra di quel ch'ella sia.
5°, Né talo sarebbe se la letteratura spagnuola,
bonelié codondo d'assai all'italiana per la quantità,
non lo fosse pari del tutto nella qualità, salvo la mi-
noro perfezione di ciascun suo attributo. Lo stesse
cagioni, si naturali, si accidentali, che ci resero gli
spagnuoli cosi conformi di lingua, ce li fecero altrot-
(3396-3397-3398) r-ENSTEiti 368
tanto conformi (3397) nella letteratura. Né poteva os-
sero altrimenti, perché l'ima o l'altra vanno sempre
del pari. Corto è che nel cinquecento, secolo aureo e
principale non meno della lingua e letteratura spa-
gnola che della italiana, il commercio tra questo
due letterature fu strettissimo, e l' influenza reci-
proca; bensì maggioro d'assai quella dell'italiana
sulla spagnuola ohe viceversa, perché P italiana era
di gran lunga maggiore, o portata ad un alto grado già
molto prima, cioè nel trecento. Laonde, se imitazione
vi fu non -è dubbio ohe gli spagnuoli imitarono, e
gli scrittori italiani furono loro modelli. Ma senza più
stendersi in questo, egli ò certissimo ed evidente ohe
il buono e classico stile spagnuolo e lo stilo italiano
buono e classico, salvo che quello ò meno perfetto,
non sono onninamente che un solo. Ora quanta parte
abbia la lingua nello stilo, ') quanta influenza lo stile
nella lingua, come sovente sia difficile e quasi impos-
sibile il distinguerò questa da quello, e le proprietà
dell'una da quello dell'altro, o si parli di uno scrit-
tore e di una scrittura particolarmente, (3398) o di
un genere, o di una letteratura in universale; sono
coso da me altrove accennate più volte. Basti ora il
diro che non si è mai per ancora veduto in alcun se-
colo, appo nazione alcuna, stile corrotto o barbaro o
rozzo, o lingua pura o delicata, né viceversa, ma sem-
pre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la perfe-
zione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello
stilo si sono trovate in compagnia. 2 ) Che so ne no-
stri trecentisti la lingua è pura c lo stile sciocco,
1» lo stile non pecca, se non por difetto di virtù, per
inartifizio e mancanza d'arte o di coltura, ma niun
vizio ha e ninna qualità malvagia; sicché non può
chiamarsi corrotto; 2°, lo stile do' trecentisti e som-
') Vagasi tal l'altro la ]>. 2906, soffi.
■') Massime no' prosatori; quanto a'pooti vedi 1» p. 3419.
364
e
plico e nella semplicità energico, conio porta la na-
tura, e tale né più no meno è la lingua loro, la quale
generalmente non ha pregio nessuno so non questi, oh
sono pur pregi dello stilo, ma non sempre, e ohe non
bastano; 3°, elio ohe ne dicano i podanti, ogni volta che
lo stile do' trecentisti pecca di rozzo, ancho k lor
lingua è rozza; ogni volta ohe di barbaro, anello la lin-
gua è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità
ed inartifizio, anche la semplicità della (3399) lingua
passa i termini, com' è stato ben provato in questi
ultimi tempi; e finalmente se talvolta il loro stilo ó
tumido, falso, o insomma corrotto comunque (benché
tal corruzione in loro sia piuttosto fanciullesca e d'igno-
ranza, elio manifestante il cattivo gusto o la depra-
vazione, che in ossi non poteva aver luogo), allora
anche la lingua non è da noi chiamata pura se non
perché ed in quanto antica, secondo le osservazioni
da me fatte al trovo circa quollo cho si chiama purità
di lingua,
, Adunque lo stile, cho colla lingua e cosi stretta-
mente logato, è lo stosso nello spagnuolo e nell'italiano.
Dico quollo stile che dall'una e dall'altra nazione è
riconosciuto por classico. Ebbero anche i francesi noi
modosiino secolo del cinquoconto uno stile conforme o
quasi conforme allo spagnuolo e all' italiano, ma osso
non è riconosciuto oggidì per classico da quolla na-
zione, né per talo fu riconosciuto in quel secolo in che
la letteratura francese pigliò forma e carattere e poric-
zionossi, insomma nel secolo aureo che dà logge (3400)
o norma, goneralmonto parlando, alla lingua o lette-
ratura francese di qualunque secolo successivo. -E «e
pur quello stile talvolta è o fu riconosciuto per clas-
sico da' francesi (come in Amyot), ciò è corno un clas-
sico che essi non dobbono soguiro né imitare, un clas-
sico divorso da quello che è classico oggidì por loro
nelle scritture di questo socolo, un classico cho ih
questo scritture sarebbe vizio, anzi non si comporte-
■5(55
(3400-3401) vv.x*lBM L_
Ub^ anzi non senza fatica a' intenderebbe; una Un-
'uà, nsomma, e uno stile che, secondo confessano e si
medesimi ancorché bello e classico, non e più loro.
IT stile e la letteratura spaglinola forma vera-
mente (quanto alla sua indole) una sola famiglia collo
Se e letteratura greca, latina e italiana. Lo stile e
etterato francese per lo contrario apparso a
una famiglia ben distinta dalla suddetta La lettera-
W francese insieme con quelle eh' essa ha prodotte
£ sono la inglese del tempo della regina Anna, la
svedese! la russa (e credo eziandio 1' olandese) forma
in Europa, propriamente parlando, una terza dishn a
Smiglia un terzo genero di letteratura e di st.l
intendendo per seconda famiglia di et «nrM KM)
ourowe quelle di carattere settentrionale cioè 1 m
Sde'tmpi d'Ossian e di quelli «J*^
l la moderna oh' è una continuatone dx qOflata, la
tedesca l'antica scandinava, illirica e simili (sebbene
cantere scandinavo e illirico, si delle nazioni sr
dolio letterature, è distinto dal teutonico ec. Ma non
es te letteratura scandinava né illirica, se non antica
TZ nota, perché la presente letteratura ^vedose
danese, russa ec. non è che francese. StaeW prm
cìdìo dell' Alémagna. Como altrove ho detto della
Sa/ cosi della letteratura e dello stile francese
Sve diro. Essi tengono il mezzo tra il meridionale
e ilTttentriouale, tra il classico e il roman ice; essi
ormano una categoria propria, nientemeno diversa e
distinta da quella delle W^WjS
tino italiano classico, spagnuolo classico e dall in-
dole e spirito loro, di quel eh' ella Sia dalle lettera-
ture inglese moderna, tedesca o loro alhm o somigliti.
Quel carattere di nobiltà, di dignità, di ardu-o,
di semplicità, di naturalezza ec. ec. che distingue
') Vegga-* 1 1» !>■ 2989
S66
PXN8E0BI
(3402 3403)
(3402) gl'idiomi o gli stili, greco o latino, non si pos*
sono in alcuna lingua del mondo , né moderna nó
antica, esprimer meglio né più spontaneamente o
naturalmente che nella italiana e nella spagnuola, e
negli stili riconosciuti rispettivamente por classici
appo questo duo nazioni: né si potrebbero, assoluta-
mente parlando, esprimer moglio di quello che queste
duo lingue e questi duo stili possano fare. Dico pos-
sano fare, perché lo spagnuolo non lo ha forse ancora
mai fatto perfettamente, benché la sua indolo o lo
comporti e lo richiegga. Dico quel tal carattoro iden-
tico di nobiltà ec., proprio della lingua e stile groco
e latino. Lo qualità medosimo in genero, come la no-
biltà in gonore oc, possono essor proprio anche del
francese e del tedesco e d' ogni lingua cólta, ma quel
tal carattez-e individuale o identico di nobiltà ec.
elio distingue i suddetti stili greco o latino, non solo
non lo richieggono nó l'amano, ma in niun modo lo
comportano, gli stili francese, inglese ec. Questi pos-
sono ossor nobili, ma in altro modo; semplici, ma in
diversissimo (3403) modo ; naturali, ma tutt'altra natu-
ralezza, perch'ogli hanno tutt'altra natura, e tutt' al-
tro carattere hanno lo rispettive nazioni, e tutt' altro
per queste è naturale; arditi, ma la lingua francese
rispetto a se stossa solamonto, che rispetto all'altre,
e assolutamente parlando, è timidissima, al contrario
della greca e della latina, e della spagnuola e italiana
altresì: le restanti lingue o stili possono essere ar-
diti, anche più del greco e del latino, anche più dello
spagnnolo o dell'italiano, ma in tutt' altro modo.
E por recare un esempio; laddove la lingua e lo
stile spagnuolo c italiano si piegano naturalmente e
quasi da se al dignitoso, corno il greco e il latino
(che in qualunque genero e materia hanno sempre del
gravo o dell'elevato), lo stilo francese non ci si piega
per niun modo, ma sempre tira al familiare e al piano.
Contuttoeiò egli pure ottiono di staccarsi dal fami-
(3403-3*04-3+05)
PENSIERI 3tl7
Ce e dal volgo, di sostenersi, d'innalzarsi; ma come,
lon un copiosissimo uso d'immagini, pensieri ed
espressioni poetiche. (3404) E non mezzanamente, con-
fusamente o solo in parte poetiche, ma forte espressa
o totalmente. Senza ciò non ottiene mai dignità ed
elevazione, e sempre tira al basso e si accosta al di-
scorso ordinario, allo stile parlato, di conversazione ec
Ma ciò è ben diverso, e, in certo senso, contrarie . al
modo in che i greci e ! latini davano digniU od ele-
vatezza, al loro stile, in che gliene diedero 1 nostr
classici c gli spagnuoli, benché non sempre perfetti
11C 1 loro genere di stile, come avrebbero e potato c
dovuto essere, e come esigeva naturalmente esso ge-
nere di stile, e l'indole stessa della lingua ec. Si pos-
sono vedere le p. 34.3 segg. e 3561, segg. ec Vedi
quello che altrove ho detto sopra il poetico dello stilo
di Floro (vedi p. 3420) e quello che ho detto sopra
ciò, che la lingua francese, sempre prosaica ne verso,
è oggimai sempre poetica nella prosa; e altri tali
^Venendo alla conehiusione, ripeto che da una lin-
fe» cosi conforme alla nostra, come ho mostrato es-
sere la spaglinola per ogni verso, e per tante cagioni
naturali, accidentali, intrinseche, ^rinseche ec; da
una lingua sorella com> essa e all' italiana, da una
Sua L ec; molto bella ed utile novrtà possono
trarre gli scrittori italiani moderni, come ne tias-
Lro gif antichi e classici nostri. Ma voglio 10 perciò
Ledetti nella lingua italiana degli W^^j
ìanto come, consigliando (3405) di attingere da la-
tino, intendo consigliare che s ' introducano nell ita-
liano de' latinismi. <) Sono nel latino molte parole,
Uw)0 j, ^^XS.O.W el» una Hugo» g.»
perfezione, ben eUé w™™*^ ^ f „. <u ùo aeU«tìl aopra alemm
(lolla léUer*tuw eo;
368
PENSlEltl
(3405-3406)
nello spaglinolo alcune, noi greco, noi latino e nollo
spaglinolo moltissimi modi c forino di diro (o molte
significazioni di vocaboli o modi già fatti italiani), lo
quali tutte non por altro non sono italiano, so [non] per-
ché da veruno per anche non introdotto nolla nostra
lingua. Adoperandolo ncll' italiano, elle sarebbero cosi
bene intese, cadrebbero cosi beno o facilmente, parreb-
bero cosi spontaneo o naturali, sarebbero cosi lontano
da ogni sembianza d' affettato, che niuno s'accorge-
rebbe, non pur eh' olio fossero o grocho o latine o spa-
gnuole anzi, o più, che italiane, ma neppur sentirebbe
che fossero nuove nella nostra lingua, né se n'avve-
drebbe in altro modo che ricercandone osprossamonto
il vocabolario. 0 se vi sontisse della novità, no sen-
tirebbe quel tanto e non più, elio dà grazia, eloganza,
forza, nobiltà, bollozza allo stile e alla lingua, e divi-
dono l'una e l'altra dal popolo, il olio non pur è con-
cesso ma richiesto al nobile scrittore in qualunque
genere. Questo (3406) voci, frasi, forme, benché latine,
greche, spagnuole di origine ; benché non mai por
l' innanzi usato o sentite in italiano ; introdotte che
vi fossero, non sarebbero né latinismi, né grecismi,
né spagnolismi, perché non vi si conoscerebbe né la
latinità, né la grecità 60., o se vi si conoscerebbe, non
vi si sentirebbe, eh' è quel che importa ; né vi si co-
noscerebbe che per cagioni estrinseche e proprie del
lotterò, cioè por la cognizione che questi avrebbe di
quello lingue e dogli scrittori italiani oc; non per
cagioni intrinseche, cioè proprio di quella tale scrit-
tura, stilo oc. per le qualità di quolle tali voci,
frasi ce. rispetto alla lingua italiana e a quel tal ge-
nero o stile. Altro voci, frasi, formo, significazioni sono
in gran numero nelle detto linguo, elio si potrebbero
puro utilissimamente introdurre nella italiana, ma
non altrove che in certi luoghi, con certi contorni,
preparazioni ec, né senza molta avvertenza, arto, di-
screzione, giudizio dell'opportunità oc. Con lo quali
(3406-3407-3408) PBHstarflST
3G9
condizioni, né anche questo (che sono in molto mag-
gior numero dell'altre sopraddette) non riuscirebbero
né latinismi, né grecismi ec. por le stosse ragioni. (3407Ì
Ovunque si senta latinità, grecità, ec. o un sapore di
non nazionale, indipendontcìnente dalle cognizioni ec.
dol Ietterò, o per propria qualità della parola o frase,
o del modo in eh' ella è adoperata, quivi è latinismo,
grecismo oc, quivi barbarismo, quivi sempre vizio. E.
siccome nei contrarii casi suddetti, malgrado la vera
novità, niun vizio, anzi pregio vi sarebbe; cosi, in
questo caso, niun pregio sarebbevi, o sempre vizio,
quando ancho la novità non fosse vera, cioè quando
bene quella tal parola ec. avesso già esempio d'autor
classico nazionale, o n' avesse ancor molti ; sia che in
tutti quosti ella stesse parimente male, o oho stando
bono in questi, ella stesse male noi dato caso, perché
non intelligibile o difficile a intendere, perché malo
adoperata, e senza i debiti riguardi, e in occasione e
con circostanze non opportune ec. Similmente accade
e si dee discorrere intorno alle parolo antiquate. La
novità in una lingua o la rarità ec, insomma il pel-
legrino, da qualunque luogo sia tolto (o da forestieri
o dagli antichi classici nazionali ec), deve sompre
parere una (3408) pianta bensì nuova nel paese o rara,
ma nata noi terreno medesimo della lingua nazionale, e
non pur della nazionalo, ma della lingua di quel se-
colo, della lingua conveniente a quel genere a quello
stile a quel luogo della scrittura. Sempre eh' ella par
forestiera (e recata d'altronde) por qualunque ragione,
e in qualunque di quosti sensi, ella è cattiva. Nel caso
contrario è sempre buona.
Lo studio della lingua greca, latina, spagnuola,
applicato a quollo dell' italiana, non ci deve servire a
latinizzare, grecizzare oc. in niuna parte (sensibil-
mente) la nostra lingua. Esso ci deve servire e ci
serve mirabilmente a conoscere in quanti modi, ninno
por anche usato, si possa usare e rivolgoro questa lin-
Leoi'AIìiii. — Panticii, V. "21
370
PENSiKiu (3408-3409-3410)
gua italiana medosima che abbiam por lo inani, si
possano comporro insieme, o adoperare per se stesso,
lo sue parole, frasi ec. ') Noi dobbiamo pescare in osso
lingue, non latinismi, grecismi, oc. ma, por dir cosi,
voci o formo e frasi italiano non por anche usato;
dolio quali esse lingue abbondano. Studiandole (sic-
come strettissimamente affini alla nostra, alla sua
ìndole) oc., noi ci avveggiamo (3409) elio l'italiano
può adoperare un tal modo, forma, voce, significa-
zione eli' o' non ha mai adoporato ; là può adoporaro,
non perché latina, greca, spaglinola, ma perché con-
forme all' indole doli' italiano stosso, porche questa
lingua per so medesima, e tale qnal olla ò n' è ca-
paco ; perché appunto adoperata noli' italiano, non
parrà né latina, né groca, né spaglinola, ma parrà c
sarà subito italiana (cioè sarà intesa subito, cadrà
naturalmente o dovunque o in certi tali generi o luo-
ghi oc. oc). Fatta questa scoperta, o avvedutici di
questa verità, della quale sonza lo studio di quelle
lingue non avremmo avuto alcuna notizia, noi intro-
duciamo noli' italiano quolla tal fraso oc. da ninno
ancora usata , e che noi, so la lingua latina ce. non
co l'avosso mostrata, non avrommo potuto concepirò e
immaginare o inventare da noi medesimi o mediante
la sola cognizione della nostra lingua, so non per caso. ! )
Cosi quello lingno ci somministrano copiose novità.,
elio non sono né latinismi, né grecismi oc, ma italia-
nismi e nuovi o rari, o questi bellissimi e utilissimi,
e insomma degnissimi d' entrare in uso. Nello stesso
modo che sono italianismi, (3410) o degnissimi d' en-
trare in uso, infiniti vocaboli, locuzioni (significati)
e formo nuove, che L'abile e giudizioso o ben perito
') Questo vieno n psnoro, 90 posi vogllnnin nliiiimarlo, un latini xzare,
jroetaare 10. l'Italiano, ma affetto ttuenribilmante n Indtetlnjjnibtl-
tnente dall' ttollanlxiars; mi latlnlr.wiro non iIìtoiw dall' Itellanlarore co.
') Vndl p. 3738.
(34 1 0-34 1 1 ) PBHSIBM 37 1
Scrittore può inosauribilmonto o incessali temente de-
rivare, formare, comporre ee. dalle stosso radici, de<rli
stessi materiali, degli stossi capitali e fondi della
lingua nostra, profondamente conosciuti e perfetta-
mente posseduti, seguendo sempre e intieramente la
vora indolo o proprietà d'ossa lingua, e conforman-
dosi con tutto le suo qualità sieno intrinseche, eiefao
estrinseche oc. (9-10 sottombro 1823).
* (Ili uomini che vivono in solitudine sono incli-
nai issimi al metodo. Ma non (alilo (indili che nella
solitudine sono occupati, o elio porciò appunto vivono
in solitudine (no' quali, siecomo in tutti quelli che
sono molto occupati, il metodo o l'ordino dell'azioni
Sarebbe ragionevolissimo, porcile l' ordino cosi di luogo
come di tempo è sempre risparmio dell'uno o del-
l'altro, e il disordino al contrario) quanto in quelli
che nulla hanno da faro, conio malati cronici, carco-
rati, vecchi ritirati por cagionovolczza dcll'otà, per
dobolozza o por abito di pigrizia. Questi sogliono es-
ser metodici lino all'ultimo eccesso. Paro elio l'uomo
sia tanto più (3411) geloso di ordinavo la sua vita
quanto mono ha da occuparla, o quanto meno la oc-
cupa. ') Non potendo o non volendo impiogaro il tempo,
si occupa a regolarlo e partirlo o distinguerlo. L' or-
dinaro lo suo operazioni divione l'unica sua opera-
zione e occupazione (li settembre 1823). Io ho cono-
sciuto uno di questi elio dal capo al piò dolla giornata
non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi dolla.
brevità dol tompo, o che il giorno non bastava allo
sue occupazioni quotidiano; e perciò sopportava 'li
mala voglia qualunquo straordinaria distrazione o
altro, che gli Decapasse alcun poco di tompo (11 sot-
tombre 1823).
') Intanilo por occupazioni anche lo distrazioni, gli spassi oc,
372
(3411-3412-3413)
* Come altrove lio detto, la monarchia è il più, anzi
il solo, perfetto stato di società, perché il solo natu-
rale, il solo primitivo, il solo comune agli animali
elio hanno qualch'ombra di società, il solo che si trovi
rei cominoiamonto di tutte le nazioni (in qual modo
nascesse la monarchia, vedilo nel principio della Re-
pubblica di Aristotele, che benissimo lo spiega, pe-
rocché (3412) corto le nazioni o lo popolazioni non
convennero mai espressamente di ubbidirò ad alcuno,
né mai diedero in niun modo i loro suffragi por li
quali riuscisse eletto ad unanimità un monarca, che in
questa elezione fondasse di quindi innanzi il diritto
di comandarle). Da questo principio sogno che ogni
repubblica o stato franco, comunque antichissimo, co-
munque anteriore a quella civilizzazione eh' è affine
alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi
o di popoli affatto rozzi, od anche di tempi e popoli
eroici o virtuosi e magnanimi ec, sempre ch'osso si
trova in una sociotà già formata, già capaco di tal
nome (sia antica, sia moderna, sia civile, sia selvag-
gia), è indizio certo di corruzione di questa tal so-
cietà, od ò esso medesimo una corruzione del govorno;
il quale senza fallo, si sappia o non si sappia dalla
storia, prima fu monarchico ; ond' esso stato franco o
indubitatamente in essa società una sorta di governo
secondaria e non primitiva, ma sottentrata in luogo
della primitiva, e nata dalla corruziono di questa, o
certo della rospettiva società (11 settembre 1823).
Tedi p. 3517. (3413)
s Alla p. 2841. Sperone Speroni nell' Orazione in
marte del Cardinal Bembo, quinta dello Orazioni sue
stampate in Venezia, 1690, pag. 144-6, poco innanzi il
mezzo doli' orazione suddetta. J medesimi verbi colla
•stessa construtione (p. 115) usa il volgar poeta (il
poeta italiano), che suole usar l'oratore; onde non ì pur
Unge da queW errore, ove spesse, fiate veggiamo incorrere
(3413-3414) pensi kki
; Greci et qualche volta i Latini, cioè, a dire, che egli si
paia di favellare in un'altra lingua, che non l quella,
dell' oratore; anzi, i più lodati Toscani all' hova sperano
di parlar bene nelle lor prose, et -par quasi, che sene
vantino, quando al modo, che da' Poeti e tenuto hanno
affettalo di ragionare. Et chi questo non crede, vada
egli a leggere, il Decameron del Boccaccia, terso lume
di questa ' lingua, et troverawi per entro cento versi di
Dante cosi intieri, come li fece la sua Comedi». ') Non
parrebbe da questo parole elio l' Italia non avesse lin-
gua propriamente (3414) poetica, o certo ben poco
distinta dalla prosaica ? E non è d'altronde manifesto
eh' ella ha una lingua pootica pivi distinta dalla pro-
saica che non è quella di forse niun' altra lingua
vivente , e certo più che non è quella de' latini, in
quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad in-
tendere la prosa latina, intendiamo con poco pju stu-
dio la poesia (lo studio che ci vuole, ed il divario
tra il linguaggio della poesia latina e della prosa,
consiste principalmente nella diversità di molta parte
delle trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione
delle parole, eh' in parte ò diversa), ma uno straniero,
non perciò eh' egli ottimamente intendesse la nostra
moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto
apposito studio la poetica ? Tant' è. Nello stesso cin-
quecento l'Italia non aveva ancora una lingua cho
formalmente poetica, cioò la diversità del linguaggio
fra i poeti e gli oratori non era per anche se non
lieve, e male o insufficientemente dotorminata. Gli
scrittori prosaici che componevano con istudio e con
presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua
del Boccaccio e do' trecentisti, e questa ora similis-
sima alla lingua pootica, perché la lingua poetica del
trecento era quasi una colla prosaica. Gli scrittori poe-
tici cho, scostandosi dalla lingua del trecento, volevano
') Vedi p, 3S6I.
373
PENSIERI
(3415-3416)
(3415) accostarsi a quella del loro secolo, davano in
uno stile familiare, Bellissimo bensì, ina poco diverso
da quel della prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto
o l'Eneide dol Caro, i quali, a quello togliendo lo ri-
me, a questa la misura (oltre le immagini e la qua-
lità do' concetti ec), in clie eccedono o di elio mancano
cho non sieno una bellissima ed elegantissima prosa?
E paragonando il poema del Tasso (scritto nella pro-
pria lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quoll' età, poco divario vi si potrà scoprirò quanto alla
lingua. Di più i pooti italiani del cinquecento furono
soliti (massimo i lirici, clie sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Danto. Il carattere di
quosto stile riusci ed ò necossariamente familiare,
come lio detto altrove. Seguendo questo carattere, o
che i poeti del cinquecento l' esprimessero nella stossa
lingua di que' due, come moltissimi faceano, o nella
lingua del cinquecento, come altri; doveano necessaria-
monte dare al loro stile un carattere di familiare e poco
diverso da quel della prosa. E cosi generalmente ac-
cadde (il linguaggio del Casa non è familiare od è molto
(34 1 6) pili distinto dal prosaico, o cosi il suo stile. Ciò
perché ne'suoi versi egli non si propose il carattere né
del Petrarca né di Dante, ma un suo proprio. E quindi
quanto il carattere del suo linguaggio e stilo poetico
è distinto da quel della prosa, tanto egli è ancora di-
verso da quello del linguaggio e stile si di Danto e
Petrarca, si degli altri lirici e poeti, quali si voglia-
no , del suo tempo). La Coltivazione , le Api ec. sono
ben sovente bella prosa misurata quanto al linguaggio,
ed allo stile eziandio : e ciò quantunque l'uno e l'al-
tro poema sieno imitazioni, e l'itti niont' altro quasi
che traduzione dolle Georgiche , il capo d' opera dolio
stile il più poetico o il più soparato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dol-
Y Eneide dol Caro.
Insomma la lingua italiana non aveva ancora ba-
(34 1 6-34 1 7-34 1 8) l'BMSn&Ri _____
Lnte antichità, por potere avere abbastanza di quella
eleganza di cui qui s' intende parlare, e un linguaggio
ben propriamente poetico e ben disgiunto dal pro-
saico Le parole dello Speroni provano questa ventò,
o questa lo mie teorie a cui la prosento osservazione
S i riferisce. Il cui risultato è che dovunque non e
[ufficiente antichità di lingua cólta, quivi non può
ancora essere la detta eleganza di stile e àx lingua,
né linguaggio poetico distinto e proprio ec. (11 set-
tembre 1823). Ho già detto altrove (3417) che non
prima del passato secolo e del presente si è tonnato
pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi an-
che lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e lo
Stile poetico, non già la poesia); s' è
-ili ano. vero, perfetto e sovrano modello dello BUie
propriamente e totalmente e distintissimamente poetico;
ha perduto ogni aria di familiare; e si è con ben corti li-
miti o ben certo, né scarso, intervallo, distinto dal pro-
saico 0 vogliamo dir che il linguaggio prosaico si e di-
viso esso medesimo dal poetico. Il che propriamente
non sarebbe vero; ma e' s'è diviso dall' antico; e cosi
sempre accade che il linguaggio prosaico insieme
coli' ordinario uso della lingua parlata, al quale ei
non può fare a meno di somigliarsi, si vada di mano
in mano cambiando e allontanando dall' antichità. 1
poeti (fuorché in Francia) l ) serbano 1' antico più che
possono, perch' oi serve loro all' eleganza dignità ec
anzi hanno bisogno dell' antichità della lingua. E
cosi, contro quello (3418) che dee parere a prima giun-
ta i più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son
quelli che più lungamente e fedelmente conservano la
purità e l'antichità della lingua, e che più la tengon
ferma, mirando sempre e continuando il linguaggio
de' primi istitutori della poesia ec. Dalla quale anti-
chità la prosa, obbligata ad accostarsi ali uso corrente,
: ) Vedi |>. 3428.
376
PENSIERI
(3418-3419-3420}
so.rn.pro più s' allontana. Oud' ò che il linguaggio pro-
saico si scosti per vero dire esso stesso dal poetico
(piuttosto che questo da quello), ma non in quanto
poetico, solo in quanto seguace dell' antico, c fermò
((pianto più si può) all' antico, da cui il prosaico s'al-
lontana. Del resto, il linguaggio e lo stile dello poesie
di Parici, Aliìori, Monti, Foscolo è molto più propria-
mente e più perfettamente poetico e distinto dal pro-
saico, che non è quello di vorun altro de' nostri poeti,
inclusi nominatamente i più classici e sommi antichi.
Di modo che per quelli o por gli altri cho li somi-
gliano, e per l'uso de' poeti di questo e dell'ultimo
secolo, l' Italia ha oggidì una lingua poetica a parto
e distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua,
1' una prosaica, P altra (3419) poetica, non altrimenti
che l'avesse la Grecia, e più ohe i latini. Ed è stato
anche osservato (da Perticar! sulla fino del Trattato
degli Scrittori del Trecento) che nella universale cor-
ruzione della lingua e stile delle nostre prose o del
nostro familiar discorso accaduta noli' ultima motà
del passato secolo, e ancora continuante, la lingua
de' poeti si mantenne quasi pura e incorrotta, non solo
ne migliori o in chi pur segui un buono stile, ma no'pes-
siini eziandio, e negli stili falsi, tumidi, frondosissi-
mi, ridondanti, strani o imbecilli degli arcadici, de'fru-
goniani, bettinelliani oc. Cosi pure era accaduto ne'bar-
bari poeti del secento. .La cagione di ciò è facile a
raccorrò da queste mie osservazioni, lo quali sono ben
confermate da questi fatti. Laddove egli è pur certo
cho, riguardo alla prosa, lo stilo non si corrompo mai
ohe non si corrompa altrosi la lingua, né viceversa,
né v'ha prosatore alcuno di stile corrotto e lingua in-
corrotta : del che puoi vodore lo pagg. 3397-9 (12 set-
tembre 1823), (3420)
* Opinione de' greci, anche filosofi, o principali
filosofi, sul giusto e l' ingiusto creduto altro verso i
377
(3420-3421) _____ ™nsikiu
ereci altro verso i barbari, non accidentalmente, ma
naturalmente; sulla supposta inferiorità di natura di
onesti a quelli; sul supposto natotele diritto ne jpooi
li comandare a tutte l'altre nazioni, come per naWra
incapaci di governarsi da se né d> acquistare le fa-
coltà a ciò convenienti, sulla supposta servilità non
di circostanza, ma di natura ne' barbari (cioè no,
non greci), servilità creduta in essi cosi universale,
che Tesser molti di essi nella propria nazione servi,
era creduto irragionevole, perché ninno ne la loro ua-
Lne ora stimato aver dritto di comandarli essendo
tutta la nazione composta di soli servi por natura. \ odi
ET^Uta d'Aristotele, ediz. del Vettori, Firenze
Giunti 1586, libro I, p. 7, 31-82 libro ILI, p. 25 7 eie
note dol Vettori ai rispettivi luoghi , e Plutarco, t. IL,
E 329 B ec. (12 settembre 1823). Opinione rinnova-
tasi presso gli spagnuoli ec. quanto agli americani
indigeni , negri ec. oc
* Alla p. 3304. Quanto nel citato pensiero ho detto
dello stile di Ploro, si può, e meglio, applicare a quello
di Platone, riputato, si quanto allo stile e a conceti,,
si quanto alla dizione') esser (342!) quasi un poema
(vedi Fabricius, BibUothm Graeca, in Plat., §, -, «Ut.
vet voi II p 5)" e nondimeno sommo e portotio
esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soa-
vissima (non meno che gravissima: suavdale et gra-
vitate princeps Plato: Cicerone, m Oratore), amenis
sima ec, ma pur verissima prosa, e tale che a meno
poetica delle moderne prose francesi (e mi cent ent o di
parlare delle solo riconosciute per buone), è molto*»*
poetica di quella di Platone che tra le greche class -
che è di tutto la più poetica. Non altrimenti che
molto più poetiche della prosa platonica sono assais-
simo prose sacre e profane de' posteriori sofisti o
de' padri greci ec, la cui moltitudine avanza lorso e
! ) Vaai vedere la p. 3*23-
S78
PENSIMI! (3421-3422-3423)
bonza forse quella che ci rimane delle prose classiche
antiche. Ma per vero dire, né quelle son prose, né
lo moderne francesi lo sono , . ma solistumi l'uno e l'al-
tre,, quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile
(12 settembre 1823).
* Ohe i miracoli della musica, la sua naturai forza
sui nostri affetti; il piacere eh' ella (3422) natural-
mente ci reca, la sua virtù di svegliar 1' entusiasmo
e l' Immaginazione ec, consista e sia propria princi-
palmente del suono e della voco, in quanto suono o
voce grata, e dell' armonia do' suoni e delle voci, in
quanto mescolanza di suoni e voci naturalmente grata
agli orecchi; e non già della melodia; o che conse-
guentemente il principale della musica e la conside-
razione de' suoi offetti non appartenga alla teoria
del bello proprio, più di quello olio v' appartenga la
considerazione degli odori, sapori, colori assoluti ec,
perocché il diletto della musica, (pianto alla princi-
pale e più essenziale sua parto, non risulta dalla
convenienza; veggasi in questo, che non v' ha cosi
misera melodia che peri'ottamcnto eseguita da un
istrumonto o da ima voce gratissima non dilotti as-
saissimo; né v'ha, per lo contrario, cosi bolla melodia
eli' eseguita, per esempio con bacchette su d' una ta-
vola, o su dì pili tavole che rispondano a' diversi
tuoni, o in qualsivoglia istrumento o voce ingratis-
siina o niente grata, rechi quasi diletto alcuno, o ciò
quando ancho olla sia eseguita perfettamente rispetto
a (3423) se stossa. E ben gli uomini si sono potuti
accorgere delle suenuuciatc verità in questi ultimi
tempi, no' quali, per quello che se n J è detto, la sor-
prendente voce della Catalani ha rinnovato quasi
. negli uditori i miracolosi effetti della musica antica-
Certo questi effetti non nascevano né principalmente
uè essenzialmente nó quasi in parto alcuna dalle me-
lodie. Le quali, oltre che da mille altri potevano
'-S7')
(3423-3424-3425) PHNSIBB1 , ' a,g
Uor cantate, si sa poi ch'orano delle più triviali ed
insipide Tutto il diletto ora dunque originato dalla
voce della cantante, cioò dallo qualità d> ossa voce
ohe piacciono naturalmente agli orecchi umani, tutto
indipendenti dalla convenienza: straordinaria dol-
cezza, flessibilità, rapidità, estensione oc, voce canora,
sonora, chiara, pura, penetrante, oscillante, tintin-
nante, simile alle corde o ad altro istrumento musi-
cale artefatto ec. eo. ,
Con queste osservazioni non farà maraviglia che i
barbari e anche gli animali sieno tanto dilettati dalla
nostra musica, benché non assuefatti allo nostre me-
lodie, e quindi non capaci di conoscere ne di sont.ro
quello che noi chiamiamo il bello musicalo. Non sono
le melodie in se, né la loro novità, che producono in
ossi il (3424) diletto: sono gl' istrumenti e le voci,
ohe presso noi sono raffinato e perfetto, queste col-
V esercizio, coli' arto oc, quelli colle tante invenzioni
e perfezionamenti eo. Alla perfetta qualità da questi
organi unita l'arto di adoperarli perfettamente cioè di
trarne de' suoni più grati oc. ohe non ne trarrebbe chi
non avesse alcun' arte; unitavi di più l'arte di accor-
dare insieme questi organi nel modo eh' e natural-
mente il più grato agli orecchi (come l'arte di mesco-
lare e temperare i sapori); ne risulta una dolcezza ec.
6he a' barbari riesco affatto nuova, e che porc o
produce in essi un piacer sommo ed effetti mirabib,
piacere ed effetti che niente hanno da far col bello
nerché niente colla convenienza, so non con quo U
eh' è relativa alla naturale disposizione degli orecchi,
e che tanto appartiene al bello, quanto la . grate me-
scolanza de' sapori, ch'è una convenienza dello ste si -
Simo genere dell'armonia musicale. Con questo osser-
vazioni si spiegheranno ancor bene e meglio <d e n
alcun altro modo, moltissimi (3425) de' miracoli detta
musica antica, massime quelli che si raccontano delle
nazioni o de' tempi più rozzi, corno di Saulc e Da-
380
l'ENSlEKT
(3425-3426-3427)
vide oc. Essi miracoli non nascevano dallo qualità
delle melodie, corno si crede, ma dalle qualità naturali
o artificiali degl' istrumenti e delle voci, e del modo
di toccarli o adoperarlo, in quanto da tali qualità na-
scevano suoni, o armonie di suoni, straordinariamente
grate per se stosse all'orecchio; straordinariamente,
dico, rispetto a quelle nazioni o a quei tempi. L' ossei 1
da lungo intervallo dissuefatto dall'udir musiche, pro-
duceva anch' esso e produce tuttavia molti mirabili
ottetti; i quali s' attribuiscono alle melodie, ma non
nascono infatti principalmonte che dalla sensazione
di suoni grati ec. per so stessa, tornata ad essere
molto efficace per la dissuofazione. Se Alessandro, tutto
il di occupato nello cose militari, era a tavola mira-
bilmente affetto e dominato dalla musica (so non erro)
di Timoteo, ciò ai rechi alla suddetta cagione, oltre
al vino, cho (3426) naturalmente esalta l'animo, in un
corpo stanco massimamente, e dispone a provar vi-
vissime sensazioni per menomo cause ancora.
Osservisi che generalmente fa negli uomini molto
maggiore effetto la musica vocale che l'istrumentalo,
la voce di una donna in un uomo che quella di un
uomo, e nella donna viceversa; la voce di basso fa
l'orso nella donna maggior effetto che quella di te-
nore o contralto, e noli' uomo al contrario ec. Cosi
do' diversi istrumenti, quello fa in generale maggior
effetto, produce maggior piacere ec; questo meno.
Tutto ciò in jiarità di circostanze, e trattandosi, per
esempio, d' una medesima melodia ec. Or tali diffe-
rendo non hanno a far nulla colla convenienza, nulla
col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità dello
melodie, che sole spettano nella musica al discorso
del bello; appartengono alle qualità sole de' suoni ec;
sono della stessa categoria che le difforonze degli
odori e sapori ec. cho ninno s'avvisò di chiamai- belli
ne brutti, bensì più o meno piacevoli o disjùacevoli:
(3427) e ciò non per altro so non porche in essi non
noi
(3427-3428) pensieri ^
Wluogo, come non V ha nel nostro caso, il discorso
della convenienza ec. (12 settembre 1828).
• Delicatezza considerata presso le nazioni civili
eome parte assolutamente del bello. Statue greche
umano. L'Apollo, il Mercurio (già Antinoo) il Melea-
«rro ec In tutte queste le formo hanno della donna.
si è il carattere dello statue greche, quanto alle
forme umane e delle sculture e scuole di là provenute
antiche e moderne. Tra le statue di Roma tu ravvisi
subito una fattura greca al donnesco delle forme. Cosi
Canova II bello delle formo umane consiste dunquo
nòli' inclinare e partecipare al donnesco. Possiamo noi
credere che .le formo umane, secondo natura le pm
perfette, fossero o sieno di questa sorta? che di que-
ste sorta sia il bello umano concepito da' primitivi
Svagar ec? e non anzi l'opposto? che l'intenzione
lolla natura sia tale riguardo all'uomo, Cloe eh es-
sendo pe^tto (e ciò vuol dire quale ei dev esseie)
SS del donnesco, e non ne sia anzi remo =
Chi s' e mai avvisato tra' civili di pigliar lo torme
d'Ercole por modello di bellezza d'uomo *-™***T
rebbero esse veramente (3428) m natura? e tutta*!*
Pidea e la statua d' Ercole non è il preciso contrario
dell'idea o della statua d'Apollo? certo che ri quanto
alla forma virile e matura ec. (12 settembre 1823).
* Alla p 3417. In Francia, siccome la prosa segue
l'uso del parlar quotidiano assai più che altrove, e è
sempre assai più conforme, cosi i poeti non hanno cre-
duti potersi scostare gran fatto dall'uso medesimo e
dalla prosa, né lasciar di seguire da vicimss.mo e
e l'altra nelle continue mutazioni eh esso natui 1-
mento e inevitabilmente subiscono bi ne poeta che
ne'prosatori ciò nasce dalla natura di quella nazione e
di quella società. I poeti francesi non hanno dunque an-
, tieniti, di linguaggio da usare. Tutto e sempre di mano
382
VEKSrsmi (3428-3429-3430)
in mano nella lingua francese è moderno. E tutto è
ancor nazionale; percké guardigli il cielo dall' arric-
chire la loro lingua di qualche voce tolta nuovamente
dal latino, bonclió totalmente analoga o affine ad altre
voci francesi. La lingua loro è dunque in tutto e sem-
pre priva o incapace si doli' antico, (3429) si ancora
del pellegrino (se non di quello, che introdotto in una
lingua o usato da ano scrittore, è libertinaggio e bar-
bario, non eloganza o nobiltà ec.) Da ciò viene elio la
lingua francese non è capace di eleganza oc. (dol che
mi paro aver detto altrove), e che la Francia non ha
e non può avere lingua propria della poosia. E non
avendola, e però i termini tra questa e quella della
prosa non essondo certi, anzi non avendoveno alcuno,
perocché il campo dell'una e dell'altra ó un solo o
indiviso, la .Francia non ha noppur lingua propria es-
pressamente della prosa, e nella più impootica lingua
del mondo, qual è la francese, non si trova quasi prosa
che non sappia di poesia per lo stile, più o meno, ma
certo pili di tutte le classiche prose scritto nello più
poetiche lingue, come la greca e la latina. Dol che
veggasi la p. 3420-1. Del resto, è ben naturale che ovo
non è distinzion di lìngua (tra poesia o prosa) quivi
non possa essere vera distinzion di stile l ) (13 settem-
bre, 1823). (3430)
* Altronde per altrove, e indi fora' anche quasi ivi
o mia, delle quali cose ho dotto altrove Vedi Petrarca,
sonetto Io senfia dentr' al cor già venir meno (18 set-
tembre 1823).
* Natura insogna il curare o onorare i cadavori di
quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per san-
gue o por circostanze ec.) e 1' onorar quelli di chi fu
in vita onorato ec. Ma olla non insogna di seppel-
lirli uó di abbruciarli , né di tórceli in altro modo
') Secondo 11 dòtto a p. 3397-9 e 2906.
383
;3430-343l-3432)_
r „„i,i i'l Anzi a attesto la naturo ripugna,
quale, ancor morto, frmane. ea c . q
r ]a r™»^5^5t& ***** di
luogo di (3431) quoiia), baveri imtmtri-
lei. Ma d'altra parto il ItfUtf» »JJ™S volendo-
dire sopra terra e -Ho propi •» alnta^en,^.^ q
S0 li conservare dappresso e JfJJJV ti oU re
dannoso ai privati e alla ^^ 4^^.^
all'avere insognato die nella motte &opi«
stessi, ne il solo ne U pm jn _
tre, dico, di questo , insegnavo^ ,o che ^
rZ SÌ non f scoperti* di terra, pas-
mentre 1 loro corpi non r d Cosi ven-
sare al luogo destinatogli noli altio moi
nero a fare che il W^^JJ e necessario
a, viyi, eoa Binato d'amore verso i
dC1 t° ali che per Tsa "ebbe 1 stato segno di d,sa-
mort! quello <fj**2: che l'amore (3432) cosi con-
SgK^^rpoUe «.elio emesso medesimo
Veggi»! * <!««*<> ««^ 1»<, «" ra -
rt .,n ^^^ a ;^:i' M .i«>.pH«dp.<,
Ijlie, :i cut. no, ?• "> '''i' '
PENSIERI
(3432-3433)
naturalmeuto vietava; elio venisse ad essore secondo
natura o suggerito dall'amor naturale, quello che porse
aveva al tutto dello snaturato; e che fosse inumanità e
spietatezza il trascurar quello che senza ciò sarebbesi
tenuto per inumano o spiotato. Cosi gli antichi e primi
poeti e sapienti facevano servirò l' immaginazione
de' popoli e le invenzioni e favole proprie a' bisogni
e comodi della società, conformando quelle a questi;
e sì verifica il detto di Orazio nella Poetica ch'essi
furono gl'istitutori c i fondatori del viver cittadine-
sco o sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio
tenuti por fondatori di città. E cosi gli antichi diri-
gevano la roligione al ben pubblico e temporale, o se-
condo che quosto richiedeva la modellavano, o di que-
sto facevano la ragione e il principio e l'origino
de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove que-
sta si opponeva alle convenienze della vita sodalo, o
vincendo la natura fortissima, coli' opinione ancor più
forte, massimo l'opinion religiosa (15 sottembro 182i)).
Ohi riguarda come leggo naturale il seppellire o ab-
bruciare ec. i cadaveri, troverà l'orso in queste osser-
vai uni di che mutar sentenza.
* Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si gotta
al pericolo, anche doli a morte; di più sacrifica (3433)
de tenni natamente se stesso, danari, robba, comodità,
speranze ec. Ma ben pochi si trovano che per cagioni
anche gravi, anche per vivo passioni, por amore ar-
donte ec. si sottopongano o siono veramente capaci di
sottoporsi a un dolore corporale, ancho non grando.
S' incontra sposso e facilmente, a occhi veggenti e
volontariamente, il pericolo della morte, o quegli stossi
non son capaci d* incontrar volontariamente e scion-
tomonte un dolor corporale certo (15 sottoinbre 1823).
* Ohe il timore sia, come ho detto altrovo, più na-
turale all'uomo della speranza, e elio l'uomo inclini
più a questo che a quello, voggasi che qualora gli
(3433-3434-3435)^ _OTW________JL
„tBri«U, ordimmamente ne . tomo
o fancialh, ottetto ai cagw è cos i tome-
«paventoao. Or quando mal la ^J^^ p01 ,, ò
„ 5 Tìi uhi se V ignoranza, superstiaion» eu. ^
rana? Di P^fji ^ idi a pigliar qualch'ef-
anticamente (3434) 0 porta ,og «J^ ^ avv6 nire
lotto nuovo o sconosciuto per P 103 ^ 1 ^ one -
o per segno del presento ign*. -J»^ JLtì
sinistri. Lascio 1 econsai, i r . non
ventose naturalmente a f^ ^f'.Litivo spavento
pri ben esser nata ^ J onto s6 por si lungo
lOT0 81 ^ ;;ntto nlon , efe anche al di d'oggi,
tempo presso tutto lo buw , l'oscurazione
benché già si sapesse e si .appi* . ^ ^
n0 n era per ^*^"Z!X££> ti* * &
comete che cosa hanno di V* j a ttea^O.? E vo-
oh' altro corpo celeste, o ohe J*TO
bone ? ma non si tiove che
T° Sebi— *» £ T'
tutte erano stimate cat m ^m Co* «o-dee»
il ma ncare del cuore rf è por jero obe « * q
talvolta, come gli an ichi narrano (3435 o 1
cosi per errore... di ehi temere che
aegni ehe T uomo Più ^X^i ir^ole
a sperare; e che qWMJ? ben iu dì ra do ec
e P-ipHoso eome^^^^ * eg p ignoraIl ti
fne^^ — (15 cembro !8 2 a).
* L'immaginatone^» le
antichi erano governati, e 1 amoi i . B ^_
386 PENSIERI (3435-3436-3437)
loro bolliva, li facea sempre mirare alla posterità ed
all' eternità, e corcare in ogni loro opera la perpe-
tuità, o procurar sempre 1 1' immortalità loro e delle
opero loro. Volendo onoraro un defunto innalzavano
un monumento clie contrastasse coi secoli, c ohe ancor
dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo so-
vente nollo stesse occasioni quasi altrettanto in un
apparato funebre, che dopo il di dell' esequie si disfa,
e non ne rosta vestigio. La portentosa solidità dello an-
tiche fabbriche d'ogni genero, fabbriche che ancor
vivono, mentre le nostre, anche pubbliche, non saranno
certo vedute da postori molto lontani; le piramidi,
gli obelischi, gli archi di trionfo, (3436) la profon-
dissima impronta dello antiche medaglie e monete, che
passate por tante mani, dopo tante vicende, tanti se-
coli oc. ancor si veggono bolle e fresche, e si leggono,
dove i conii dello nostre monete di cent'anni fa son già
scancellati, tutte queste e tant' altre simili cose sono
opere, effetti e segni delle antiche illusioni e del-
l' antica forza e dominio d' immaginazione. So fabbri-
cavano per fasto, i monumenti del loro fasto dovevano
durare in eterno, e il loro orgoglio non si appagava
doli' ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo
dovevano esser testimoni della sua potenza e contri-
buirò a pascere la sua vanità: se per diletto, per
bellezza, ornamento ec, tutto questo s' aveva da pro-
pagare nel futuro in perpetuo; so per utile tutte le
generazioni avvenire avevano a partecipare di quella
utilità ; se il principe, se il comune, se i privati, se
per comodo, per onore, por vantaggio particolare o
pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o pri-
vati o pubblici ; se in ricompensa di virtii, di bollo
azioni, di benelicii pubblici o privati ; so in onor pri-
vato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimo-
nianza d'amore ec. ec, qualunque lino si proponessero,
qualunque (3437) effetto dovesse seguitare a quell'opera,
caso aveva ad essere eterno, s' aveva a stendere in
ì
QQ7
(3437-3438) i'ensieiu^ . °Z
tutto V avvenire, non aveva a cessar mai. Lo grandi
illusioni ondo gli antichi erano animati non pennot-
ovL loro di contentarsi di un effetto piccolo e nas-
o-ero, di procurare un effetto che avesse a durai
J2S labile, breve; di ^B^^J^
trotta a poco più che a quello cb' e«W cedevano.
L'immaginazione spingo sempre verso quello 6ȣ
cado sotto i sensi. Quindi verso il futuro c la posto
rità perocché il presente è limitato o nbn può con-
tarla, e mfcero ed arido, ed olla si pasco d> spe-
ranza e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il
SS per «na immaginatone gagliar ^ non
debbo aver limiti; altrimenti non a soddisfa. Dun-
que ella guarda e tira verso l'eternità. •
1 proprio carattere delle antiche opero manuali
ia durevolezza e la solidità, delle moderno la caduc a
e brevità. Ed è ben naturale in un età egoista ,EU è
egoista perché disingannata. Ora il ^inganno (3438)
come fa che l'uomo non pensi se non a 86 «£S iJa
che non pensi so non quasi al presento; di q^ltopoi
che sarà dopo di lui non si curi punto ne poco 0
Che l'egoista è vile, si per l'egoismo, si . per jOt»
nn-ti o cacioni E l'età moderna eh' è quella del de-
I S U, incruento e perfezionato, come
u° non ossero abbiettissima? Ora un animo basso non
"evat alto, né proporsi de' fini nobili ne cap
l'nrT™ dall'eternità in menti cosi anguste, ne uomo
sobcHtl in molte barbariche opere de' bassi tempi
S private, anzi per lo più tali) corto a paragone
dolio moderne. Chi può paragonare la solidità d que
* con quSa dogli celiai pubbli- o privati del cm-
388
PENSIERI (3438-3*39-3440)
quoconto, in Italia massimamente. In Roma, dove v'La
monumenti d' ogni etti dallo egiziano alla presento, si
può in questi (3439) considerava la sommità, la deca-
denza, il di struggimento dell'umana immaginazione e
illusioni; anzi pur le diverse sommità e deoadenzo ou.
delle medesimo; e le diverse età dell'immaginazione oc.,
e la storia delle nazioni non solo, ma in genere dello
spirito umano spiritualmente considerato, malgrado la
materialità degli oggetti. Si può cominciare dall' obe-
lisco di Piazza del Popolo, e finire, tornando poco di-
stante, da quello nel palazzo Lucernari elio ancor si
fabbrica. Quel denaro che da noi si spenda in tabac-
chiere., e in astucci, gli antichi lo spendevano in busti
e statue, e dove per una vittoria si fa ora giuncare, un
fuoco di artifizio, essi muravano un arco di trionfo.
ÀLOAitovn, Pensieri, pensiero l'ò. »)
Si possono applicare queste considerazioni anche
alla letteratura. Non s'usavano anticamente le brochu-
res, né gli opuscoli e foglietti volanti, né scritture
destinate a morire il di dopo nato. E quello ancora
che si scriveva per sola circostanza e per servire al
momento, scrivevasi in modo eh' e' potesso e dovesse
durare immortalmente. (3440)
Cicerone, dopo dato un consiglio al senato o al po-
polo, da mettersi in opera anche il di medesimo, dopo
perorata o conchiusa una causa, ancor di una piccola
eredità, si poneva a tavolino, e dagl' informi commen-
tari elio gli avovano servito a recitare, cavava, com-
poneva, limava, perfezionava un' orazione formata sulle
regole e i modelli eterni dell' arte più squisita, e, conio
talo, consognavala all'eternità. Cosi gli oratori attici,
cosi Demostene, di cui s ! ha e si legge dopo duemila
anni un' orazione por una causa di tre pecore: mentre
') Vedi ancora la Oorretpondanet «fu Prìnci Itoyal ito Prum et ito
Voltaire, dalia le« Oeuvre* eo'mpìètti du Roì ile Ptutse, 1790, t. X , letti'o
96 ilo Voltili», p. 122 et miiv.
389
(,3440-344 1 ) riMsrERi^_ —
lo orazioni fatto oggi a' parlamenti o da niuno si leg-
gono, o si dimenticano di là a due di, e ne son degno
„c ehi le disse pretese né bramò ne curò eh elle
avessero maggior durata (15 settembre 1823). )
* TI eiovane innanzi la propria esperienza, per qua-
hrtrae insegnamento udito o lotto, di persone starnato
dà lui o no, amate o disamato, credute o non cre-
dute ec, non si persuaderà mai efh cacameli te che
mondo non sia una bella cosa, ne deporrà 1 dosuh no
o la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e
de' piaceri sociali, né fintone
l'ondo del cuore (3441) fermissima del a possibil t i
anzi probabilità di esser felice pigliando parto alla
vita, all'azione eo. Perché? perché quest'opinione, de-
siderio, speranza, non è capriccio ma natura ne si
estirpa dall'animo, come le opinion! o passioni ae*-
dentali, né vai tenerezza e pieghevolezza e docilità e
d'età né d' indole a render queste cose estirpabili. Al-
trimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la qua e
ha provveduto di speranza alla fanciulle* za e , al J»
gioventù e agguagliato colla speranza il desiderio di
quelle otà (15 sottembre 1823).
* Altrove ho rassomigliato il piacere che reca la
lettura di Anaereonte (ed è nel principio di questi
pensieri a p. 30-.) a quello d' un' aura o£rffi»a«.
Allungo che siccome questa sensazione lascia grafi
tSdorfo e scontentezza, e si vorrebbe -chiamarhi
non si può; cosi la lettura di Anacroon te; la quale
Sscia desiderosissimi, ma rinnovando la lettura, come
por perfezionare il piacere (ch'egli par veramente bi-
sognoso d'esser perfezionato anche più che ispirai de-
sideri! d'esser continuato), niun piacere si prova, anzi
') Q.ib1 ohe si è aotto àell» durevolezza, fienai àncora detta gran,
ilnoii fi mngiiiflcciiMi ec.
390
(3441-3442-3443)
non si vocio (3442) né olio cosa 1' alibia prodotto da
principio, ne olio ragion ve ne possa ossero, né in che
cosa esso sia consistito; o più si cerca, più s'esamina,
più s' approfonda, inen si trova e si scopre, anzi si
perde di vista non pur la causa, ma la qualità stew.a
del piacoro provato, elio, volendo rimembrarlo, la me-
moria si confonde; o insomma, ponsando o corcando,
sempro più si diviene incapaci di provar piacere al-
cuno di quelle odi, e risentirne quell' effetto elio so
n' è sentito; od esse sempre più divengono quasi
stoppa e s ! inaridiscono o istoccliisoono fra lo mani
che le tastano e palpano por ispeeularle. Di qui si
raccolga quanto sia possibile il tradurrò in qualsiasi
lingua Ànacroonte (e cosi l' imitarlo appostatainonto,
e non a caso nò per natura, senza cercarlo), quando
il traduttore non potrebbe neanche rileggerlo per ben
conoscer la qualità dell'effetto ch'egli avesse a pro-
durre colla sua traduzione; e più che lo rileggesso o
considerasse, meno intenderebbe detta qualità e più
la perderobbo di vista; porooohé lo studio di Ana-
creonto ò non pure inutile per imitarlo o per meglio
(3443) gustarlo o per ben comprendere o per definire
la proprietà dell'effetto e de' sentimenti ch'esso pro-
duce, ina è piuttosto dannoso che utile; né la detta
proprietà si può definire altrimenti che chiamandola
indefinibile, od esprimendola nel modo eh' ho fatto io
con quella similitudino oc. JSfé eerto alla prima lettura
si può essore il traduttore, o l' imitatore, o vorun al-
tro, ben avveduto e chiarito e informato del proprio
ed intoro carattere di Anacreonte; dico chiarito, e
compresolo in modo oh'oi possa esattamente e data
opera esprimerlo, né" pur significarlo distintamente a
se stesso, né concepirne e formarne idea chiara e
precisa; che queste qualità della idea sono contrad-
dittorie o incompatibili colla natura di detto ottetto
e carattere (16 settombro 1823).
(3443-3+44-3445) pen sieri
391
* Quante volte diss' io Attor pieno di spavento, Costei,
por fermo nacque in paradiso. .Petkarca, Canz. Chiare,
fresche e dolci acque. K«rt T «Wt< 8' ' W iev- tò V&»
gÀèi* »v 8rh*ecw littóaoev. SAWTQ, ap. Lou S in., se-
ziono 10. È proprio dell' impressiono ohe fa la bel-
lezza (3444) (e cosi la grazia o 1' altre illecobro ma
la bellezza massimamente, perch' olla non ha Diso-
nno di tempo per faro impressiono, e come la causa
esiste tutta in un tempo, cosi l' effetto è istan-
taneo) è proprio, dico, della impressone ohe ta la
bellezza su quelli d'altro sesso che la vedono o
l'ascoltano, o l'avvicinano, lo spaventare; e questo si
è quasi il principale o il più sensibile offerto eh ella
produce a prima giunta, o quello che più Si distingue
e si nota e risalta". E lo spavento viono da questo, elio
allo spottatore o spettatrice, in quel momento paro
impossibile di star mai pili senza quol tale oggot.to e
nel tempo stesso gli paro impossibile di possederlo
oom'ei vorrebbe; porche noppure il possedimento car-
naio che in quel punto non gli si offre allatto al pen-
siero, anzi questo n' è propriamente alieno; ma nep-
pur questo possedimento gli parrebbe poter soddisiare
e riempiere il desiderio eh' egli concepisce di quel
tale oggetto, col quale oi vorrebbe diventare una cosa
stessa (corno profondamente, benché in modo scher-
zevole, osserva Aristofane noi Convito di Platone)
ora ei non vede che questo possa mai essere (3445)
La forza del desiderio oh'ei concepisce m quel punto
l'atterrisce per ciò ch'ei si rappresenta subito tutte
in un tratto, benché confusamente, al pensiero le pone
* che por questo desiderio dovrà soffrire; perocché il de-
siderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vi-
vissima e somma, e il desiderio perpetuo, o non mai
soddisfatto, è pena perpetua. Ora a lui pare e oh
quel desiderio non sarà mai soddisfa to (o non ne
vedo il come, e gli par cosa, troppo ardua e , diffide
e improbabile), e ch'esso non sarà mai per estinguevi
392
pensieri (3445-3446-3447)
da se medesimo, corno quando proviamo un dolor vi-
vissimo, ci pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo, e
che ne sia impossibile la consolazione, e che ninna
cosa mai lo condolerà. Tutto questo accado principal-
mente (ed oggtmai unicamente) ai giovani prima d'en-
trar nel mondo, a sul lor primo ingrosso (talvolta, e
non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più
suscettibili di vivezza d' impressione e di vivezza di
desiderio ec, e sono inesperti del quanto presto e fa-
cilmente l'amore (3446) o si dilegui o si soddisfaccia,
e del come, e che al mondo non v' ha cosa veramente
amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa
ch'ei brama da quegli oggetti eh' ei stima inaccessi-
bili ee. ec.
Del resto, generalizzando, è da osservare che il
primo concepimento d' un desiderio vivissimo di cosa
difficilo a ottenere, il qual concepimento non ha più
luogo se non se ne' fanciulli e nella prima gioventù,
è sempre accompagnato da spavento, e ciò si spiega
collo cagioni sopraddette. Massime so la cosa è o pare
impossibile ad ottonore; l'uno e l'altro de' quali casi
è bon frequente nelle suddetto età. Alle quali, poi-
queste ragioni, i desiderii come son penosissimi nella
•lor durata e nel loro corso, cosi riescono spaventosi
nella lor nascita (e più quel d'amore eh' ò più penoso,
perché più forte; massime negl'inesperti). E si dice
per ischerzo, ma non senza ragione di verità, che
bisogna soddisfare ai desiderii de' fanciulli per non
trovargli morti dietro allo porte (16 settembre 1823).
* Fermezza di carattere e facoltà di generalizzare
formano quelli cho si chiamano uomini superiori :
ossi sanno pensaro e sanno operare : (3447) dice M. Bay
ne' Cenni sugli uomini e la Sodata. Ma la fermezza
di carattere ó di due sorti, che nascono da principii
affatto contrarli, l' una da forza d' animo e da acu-
tezza d' ingegno ec, 1' altra da stupidità, di spirito,
393
(34*7-3*48)_ _ .
i^ità di denaro, di comprenderò «e ojmdi
pirlo ec. (16 settembre 1823).
»0M uomini straordinari, bene sposso e fo^il
pi* Llle voi*, non ^^^^0^.
„■ STSSm* nel comune degli uomini; msomma
.j. i; oltrn non sono stimati bdiwmiu
Slwutl oScalo splendore e nuoce alla
n -?' ffitltra scambievolmente. E spesse volte o
corto equilibrio e contrappeso e facendo eie ,
loro renda ^^.^^^7l, crm poche
n v::^:TZr^^ *** ° *~
o una sola cno sw o ^«briò e sbilancio, non
ordinaria, produce* do un sqm hbn
solo non nuoce alla i IP»™™ ' r accr0f , c6 (1G
né la rende minore, ma la produce eia
Sottembro 1823).
* TWedio o drammi di lieto fine.- L' effetto loro
«U adotti doll'uditoro m pieno
totale, si e di lasciai g drammi
394
KRtfsnBiu (3448-3449-3450)
litto, cioè di far cho gli uomini temano di pocearo.
Meglio sarebbe una predica dell' inferno o del purga-
torio; e meglio ancora una (3449) lettura del codice
ponalo che si facesse dalla scena. Il loro scopo si è
d'ispirare odio verso il dolitto. Questo è ciò elio lo leggi
non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio
di esse, ed esse sole il possono, o corto più e meglio
d'ogni altra cosa; eccetto forse l'esempio vivo de' ga-
stiglii, cioè l' effettiva esecuzione delle leggi penali.
Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo
scema, perché sottentra e con lui si mescola la com-
passione. Anzi lo distrugge, perché la vendetta spe-
gne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a lui con-
trarici, perché la compassione è contraria all' odio, e
sposso avviene che nel veder punito il delitto, questa
superi ogni altro sentimento, o gli sponga e resti
sola; e sposso la pena, benché giusta ed equa, par
piti grave del delitto; o spessissimo è odiosa, parto
per la piota, parte perché alcuni per viltà d' animo
e poca stima di so stossi, altri per cognizioni del-
l'uomo, si sentono, più o meno prossimamente o lon-
tanamente, capaci di peccare; e ninno ama di esser
punito, anzi tutti abborrono il gastigo in so stossi.
Il dramma (3450) di lieto fine coli' effetto di una sua
parte distrugge quello doli' altra. ') Voglio dire la
compassione (dell' odio verso la colpa , eh' è pur di-
strutto dalla catastrofe, ho già detto). Il giusto ec,
divenuto felice, per infelice che sia stato, non è più
compatito. Ognuno quasi si contenterebbe di arri-
vare per la stessa strada alla stessa sorto. L' oppresso
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltis-
sima il travagliare in un dramma ec. ad eccitare
un affetto che il dramma niodosimo debba diretta-
ìnonto spegnere, e che, non a caso, ma per inten-
zione dell' autore e por natura dell' opera, finita la
') Vngeriisi 1* p. 312?.
395
(3450-3451-3452) _ J?ENOTRt__^_ _ _ ' -
u Uttiira non deliba lasciare alcun
rappresentazione o la -JgW dobba e8Ber dura-
vestigio di se; un affetto che non u f _
bile, che durando S1 opponga ali «g^J do
U dall'autore ^«*SB
l'eccitar questo affetto, come la £ cho
mOT itevolmonte miche , è ijW ord \ naria -
l'autore e h dramma « P^^.^truggerlo nel
m ente accado), il farlo ™* durevole, il Mg» ,
suddetto modo, e te m ^
principale e non durevole pi" dramma «teseo,
^M^Se del dramma,
nrmexpale o non rxeiuu lim , severar6 né sino alla
6 e di Ind^ser prodotto dal
fine, né dopo la hno, e da nov iw dramma
dramma considerato nell' mter e; fri* di _
considerato nell'intero esser ^prodotto ™
verso, anzi contrario, a quello eh ex «W^r
Lopo principale. La f ^/j^ ^ S° <* 6
gliansa è maggiore assai ne , taW» . ^ fl
5» quelli di lieto g^f*^ oppro ssi, la
Sf'S \ sono ambedue di chi non le
felicita e 1 xxxteuoxia ha nome
r? ta - 0 M : vi SSiW
di buono, e viceveisa. -l mn . tra ji carattere o la
U malvagità f^^^Sg^m V* « Ua è
condotta morale do fehex e deg i| * ri)dio
V01 ,mente. ^K^^^Ji malvagi,
c il depresso «Xvtsa ^ la natura e
bonche felici e viceversa. iW a iaio e la
la verità delle cose, facendo so tu nato ^
virtù. (3452) È ben gmnde = ^ , pro _
d -f:d-o r i-i^ ; e a --^^
') Vflgsani In P- 3I2&-3133.
596 pensi Kit t (3452-3453)
tu pero, l' infamia, 1* indignazione, la piota, la stima,
la lode sono non piccoli, e certo i soli, gastighi e
compensi destinati in questo mondo al vizio o alla
virtù. Kon è poco il far che l'ima e l'altra gli otten-
gano, elio l'uno sia punito, l'altra premiata coni' am-
bedue possono esserlo, che la natura delle cose abbia
luogo, olio l'ordino stabilito allo cose umano o il do-
oreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e de-
creto nou è altro che questo: sieno i malvagi felici
od infami, i buoni infelici e gloriosi o compatiti. Or-
dine spiosso turbato, e decreto ben sovente trasgredito,
non quanto alla felicità ed infelicità, ma quanto al
biasimo e alla lodo all' odio ed all' amoro o compas-
siono. L' uditore, vedendo il vizio e il delitto rappre-
sentato con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera
fortemente di vederlo punito. E per lo contrario ve-
dendo la (3453) virtù o il merito oppressi e infelici,
e rendutigli con bella e viva pittura od artifizio ama-
bili e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di
vederli ristorati e premiati. Or se né l'imo né l'altro
fa il dramma stosso,*) cioè lascia il vizio impunito
anzi premiato, e la virtù non premiata anzi punita e
sfortunata; no seguono due bellissimi effetti, l' uno
morale, e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore,
appunto per lo sfortunato esito dolla virtù e il con-
trario del vizio, che se gli è rappresentato nel dram-
ma, si credo obbligato verso se stesso a cangiare
quanto è in lui lo sorti di quo' malvagi e di que vir-
tuosi, punendo gli uni col maggior possi bile odio od
ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore,
di compassione e di lode. E con questa disposizione
tutta di abbonamento e detestazione verso i malvagi
o di tenerezza e piotà verso i buoni, ogli parte dallo
spettacolo. La qual disposiziono quanto sia morale e
buona e desiderabile che si desti, chi ned vede? L
Veggasl la p. 3109-10
397
^453-3454-3455^ ^™iu______
"77„ 454ì i '» uic ° mod ° ai farcho
questo (3454) e . , ■ tì e passiona-
Auditore parto appas «O* gjj» * ,. ^ a
tacente n*mfco J^, J «>' ^ d ^
passile l'attor dell una e ^ loo» . gtata
cilissiW a conseguirsi ogga W e lobei
8MttF é difficile ad ^°f d »° Xa parto cosi utile
della moltitudine; ma co ^^^ amur6 , ó gi-
rile più non può darsi, pe.cn n 1 otì _
l'Odio ^-V n V:i"t^o inpas-
8 endo pura «jg-, e ■ « *g antic „ tc . L > effo tto
sione, quali furono n0 » f t0 lascia noi
P06tìCO d 5li udTtor? ^ Sii fa partoe col-
cuore degli uditoli un -Htato o commosso
l'animo agitato e -^ ^"o ^chetato, prima
ancora, non pinna corninolo e 1 fe
11 *T?5b2. ^'Sessione cuna passion viva
S^od^oZnTma la lascia il che non ,fa d
l i lieto foie; o l' effetto è durevole (3455) e
dramma di lièto in , lfl di Lma poe _
saldo. Or che altio n rics , e la9CÌate un
8ia; poeticamente par and ci >o pi od ^ ^ ^
sentimento torte e dui ovolo ^»
fosse d'altronde utile e morate, ^"JjJ^ 'he
Coito ben pochissime sono «l^lle poo 6 £
ottengano il detto scopo; e quelle qua unqu I
siniche l'ottengono, non sor > e no n pos « , q
■ che grandi, in»gm, famose ^ } yerB0
tato che il ^annna dopo a™ m osso , ^
il ^^Sl^of^Se dallo spettacolo col
punito, C0ffi0 no ? Qaal vostro
cuore in pienissima calma. * rimangon tutti
affetto resta ^ Sa -pol che Lia gli
in pienissimo ^ilibrlo, si
affetti d0 ' lett -\°;tr n effetto poetico? che altro
i tT^tLTt^ se non esser.
898
PENSIÈRI (3455-3456-3457;
quieti, o sonza tempesta né commozione alouna? e
qual altro è il proprio uffizio o scopo della poesia se
non il commuovere cosi o cosi, ma (3456) soni] irò
commuover gli affetti? ]i quanto all'equilibrio, ve-
dete: da una parto l'odio e l'ira elio avevate conce-
pita, dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e
l'altra; di qua il dosidorio, di là l'oggetto desiderato,
cioè il castigo del malvagio. Lo partito sono uguali ;
l' all'are è finito, il negozio è 1 erminato, gì' interessi
pareggiati, voi chiudete il vostro libro do' conti e non
ci pensate più. Infatti l'uditore si pai-te dal dramma
di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricovuto
un'offesa e fattane piena e tranquilla vendetta, o ne
sia stato pienamente soddisfatto, il quale torna a casa
e si corica colla stessa placidezza e coli' animo cosi ri-
posato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa,
o di quosta non serba pensiero alcuno. Bello effetto
di un dramma, di una rappresentazione, di una poesia,
lasciare di se tal vestigio negli animi dogli spettatori
o uditori o lettori, come s ; e' non l' avessero né veduta,
né \idita, né letta. Meglio varrebbe essero stato a uno
spettacolo di forze, di giuochi, cquostro, e che so io, i
quali pur lasciano (3457) nell'animo alcuna orma o
di maraviglia o di diletto o d' altro. Ma in verità in
quella parte dell'anima in cui il dramma e la poosia
deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia
alcun segno. So lascia alcuna traccia in altra parto
doli' anima, questo effetto o è alieno dalla poosia, o 1 e
secondario o estrinseco , accidentale, di circostanza,
parziale, cioè non prodotto dal totale della composi-
zione, forse proprio della decorazione, dell'azione ec.
dolio spettacolo più che del dramma, non poetico ec.
Or quanto all'effetto del dramma di lieto fino poetica-
mente considerato, esso è tale qnal si è mostrato, anzi
non è, perch'osso è nullo, e por ciò che spelta al totale,
il dramma di lieto fine non produce, poeticamento, al-
cun effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che
'ÌD9
(3457-3458-3459) J'Ensibsu J__
mCn l l r u( utor6 gli avrebbe dato nel cuor suo 1 na
~2 ^SS «
poeta, e non ^ , oit™, passione alcuna
dram^ senza n odio né ^g» quOMto di-
S£ irT^te civetta nel dramma «
il «a altresì circa quella che spetta ai buoni. .Ouj
derò queste osservazioni con un esempio d fatto n. i
a o„i da eia si trovo presente, Si «M»
lpgna pochi anni fa fJ^SSÌ
vivissimo interesse negli udito , « d aUa
«rìortunato e gl'innocenti restano oppressi qim
rvSe qneUoche possano leverò tragedie negli animi
avrebbero rappresentato 0«*^« > ued
. avrebbero veduto la morte di Egis to la g
dol teatro fremendo perche > ^J^J^
ancora impunito, e dicendo che pei q aluni 1
e-o «soluti 1 ^domanj i ^ £ il
di questo scellerato. E ljOtro tti 1 nQ ^
^OmSmT^— rehe si consideri
pova. 0 moraimonL j u ^ aà _
400 tknsi kri (3459-3460-3461)
od una passione cosi calda, un effetto cosi vivo, po-
tuto da loi produne e lasciare, per l'una e per l'altra
parte ai può vedere se le tragedie di lieto lino
sieno poco o utili o dilettevoli. E paragonando gli
effetti di questa con quelli doli' Oreste, elio eerto
furono molto minori e inon vivi (sebbene anche
questa seconda tragedia sia bellissima), si sarà po-
tuto notare da qualunquo mediocre osservatore se il
dramma di tristo, o quello di lieto fino, sia da profe-
rirsi, (3460) o qual de' due abbia maggior forza negli
animi, e sia d' effetto più teatrale o poetico, e più
inoralo ed utile. - - Si potrà applicare tutto il passato
discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi
ne' quali V infelicità de' buoni o degli immeritevoli
non vien da' cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal
fato o da circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle,
la Sofonisba d'Alfieri, e molto tragedie di varie età
e lingua, e molti drammi sentimentali moderni, ap-
presso vario nazioni. E similmente a quei drammi in
cui l'infelicità viene da colpa, ma o involontaria o
compassionevole oc. degli stessi infelici, come ap-
punto si può dire che sia l' Edipo re, la Fedra, e molti
drammi massimamente moderni, o tragedie ec. E dalle
stesse prodotto osservazioni si potrà raccogliere se
sia meglio che lo scioglimento di tali drammi sia fe-
lice o inf'olico, che la sorte de 1 protagonisti si muti
o si conservi la stessa, che di felice divenga infelice,
o che por lo contrario ec. (16-18 settembre 1823),
* lUhia.r spagnuolo, cioè riferire, raccontare, da
relatus di refero. Relater francese antico, vale il me-
desimo (18 settembre 1823. (3461)
* I poeti latini (e proporzionatamente gli altri scrit-
tori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia
greca, non per lo aver proso da' greci la loro lettera-
tura e poesia , ma perché, o da' greci o d' altronde
(3461-3462) ^^fessieei _ 401
Ch' e' rìceveseei-O la loro religione, essa mitologia alla
religion latina apparteneva niente meno che alla gre-
ea e nel Lazio non meno che in Groom era cosa po-
polare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella
Lola adoperata, accennata ee. dagli scrittori o poeti
Ì ìÌ fu Sa da' greci, o eh' ella fosse stata pnmie-
ramente o di netto inventata da qualche greco poeta,
o che in Grecia e non nel Lazio ella fosso sparsa ec,
non perciò segue che la mitologia dagU scrittori lati™
usata non fosse, cW ella fu, altrettanto latina che
e reca Perocché il fabbricare, per dir cosi, sul tonda,
fnonto delle opinioni popolari, fu sempre lecito ai
poeti, ansi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari na-
zionali o dell' altrui fabbriche si servano, o rami
stranieri innestarono sul tronco domestico, nrono di
E li doc riprendere. Né perciò (3462) essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nel a
Lione e farne materia di lor poesia; ne snpposmo
falsamente un genere, un sistema di <«^P«^
che nella nazione non esisteva, ma su di quel eh esi-
steva in effetto innestarono, fabbricarono, lavorarono
Similmente i greci, da qualunque luogo pigliassero a
loro mitologia, certo è che di là presero eziandio la
o o religione popolare, e che tra' greci t sistema
.reco religioso'* mitologico, quanto alla -stanza al a
natura, alla principal parte ed al generale, non fa
rL de' poeti che del popolo. E se i letterati greo,
ri giovarono, come si dice, delle letterature o d -
■ SiS ee. egizie, indiane o d'altre genti, non adotta,
ro io perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari e nazionali ec. le mitologie d'esse nazmm
L'aver noi dunque ereditato la letteratura greca o
latina, l'esser la nostra letteratura modellata su di
quella', anzi pure una continuazione, per cosi dire, di
Quella non vale perch'alia possa ragionevolmen
usare la mitologia greca né latina al modo che quegli
■ • v 215
Leopakol — Pennati* \ ■
402
pensieri (3462-3463-3464)
antichi l'adoperavano. Giacché non abbiamo già noi
colla (3463) letteratura ereditato eziandio la religiouo
greca e latina, né i latini, conio lio dotto, usarono la
mitologia groca perciò eh' essi avevano adottato la
groca letteratura ; né se la letteratura ebbero i greci
dalla Eonicia o donde si voglia., perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella
tal gente ; ma fu por le ragioni dette di sopra, e che
nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt' altro
sono le nostro opinioni popolari nazionali o moderne
da quelle de' greci e de' latini. E gli scrittori italiani
o moderni che usano le favole antiche alla maniera
dogli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta
imitazione. L' imitare non è copiare, né ragionevol-
mente s' imita so non quando l' imitazione è adattata
o conformata alle circostanze del luogo, del tempo,
delle persone ec. in cui e fra cui si trova 1' imita-
tore, e per li quali imita, e a' quali è destinata e
indirizzata l' imitatone. Questa può essere imitazione
nobile, degna di un uomo, e di un alto spirito o in-
gegno, (3464) degna di una letteratura, degna di esser
presentata a una nazione. E una letteratura fondata
comunque su tale imitazione può esser nazionale e
contemporanea e meritare il nome di letteratura.
Altrimenti l' imitazione è da scimmie, o una lettera-
tura fondata su di essa è indegna di questo nome, si
per la troppa viltà, essendo letteratura da scimmie,
si porche ima letteratura che tra' suoi è forestiera, e
a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per so,
ma al più solo una parto d' altra letteratura o una
copia da potersi guardare, se fosso poro perfetta (°n*
sempre l'opposto) collo stosso interesse con cui si
guarda una copia d'un quadro antico ec. e niente pia.
Veramente pare che i nostri poeti, usando le antiche
favole (come già i più antichi italiani e forestieri
scrivendo in latino), allottino di non essere italiani
ina forestieri, non moderni ma antichi, e so no prò-
( 3464- 34G 5-346 6) pensici! ^03
gino, e elio questo sia il debito della nostra poesia
0 letteratura, non esser né moderna, né nostra, ma
antica od altrui. Affettazione e finzione barbara, (3465,1
ripugnante alla ragione, e colla qual macchia una
poesia non è vera poesia, una letteratura non o vera
letteratura. Come non è né letteratura né lingua nò-
atra quella letteratura e quella lingua ohe oggidì usano
1 nostri pedanti, affettando e simulando di esser an-
tichi italiani, e dissimulando al possibile di essere
italiani moderni, di aver qualche idea che gl italiani
antichi non avessero, perché non poterono (cosi torse
foce Cicerone verso Catone antico eo. o Virgilio verso
Ennio ec. ?) ec. oc. Onde seguo che noi oggi non ab-
biamo letteratura né lingua, perché questa non es-
sendo moderna, benché italiana, non è nostra, ma
d' altri italiani, e perché non si dà né si diede mai
né può darsi letteratura che a' suoi tempi non sia
moderna : e dandosi, non ù letteratura.
Quel oh' io dico dell'uso delle favole an ti cho tatto
alla maniera antica (cioè mostrandone persuasione o
presentandole in qualunque modo a' lettori o uditori
come e' ne fossero persuasi, ché altrimenti il preva-
lersi della mitologia non ha peccato alcuno), latto,
dico da' poeti cristiani antichi o moderni (massime
italiani) scrivendo a' cristiani, si (3466) dee diro
dell' eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della mi-
tologia che fanno c fecoro i pittori e scultori oc. cri-
stiani, non d'Italia solo, ma d'ogni nazione, e monte
meno i forestieri che gl'italiani, «e sta ad essi a
scegliere il soggetto, potete esser sicuro massime
degli scultori, eh' o' non escirà della mitologia. Ed
anche grandissima parte de' soggetti eseguiti per com-
missione, essendo mitologici, seguo che il più dello
pitturo e massimamente delle sculture che si veg-
gono in Europa (fuor delle Chiese), sieno mitologiche.
Par cho tutto lo scopo che si propono uno scnltoro
(siccome un poeta) sia che la sua opera paia una
404
PEW1HKI
(3466-3467^3468)
statua antica (corno un pooma antico), dovondo sola»
mente cercare ch'ella sia tanto bolla quanto un'an-
tica, o più bolla ancora, quantunque, se si vuole, noi
genero del bollo antico (19 settembre 1823).
* Ces homm.es qui existent aitisi (lea Ohartreux de
Rome) SOttt pouriant ics mèmes à qui la guerre et tonte
san activité suffiraient à peine s'Us s'y étaient accou-
tumés. Cesi un sii jet inépui&able de réflexion que (3467)
Ics diffirenttis combinaisons de la destince humaine sur
la terre, liso passe dans V intcrieur de Vàme mille ac-
ddents, il se forme mille habitudes qui font de chaque
indìvidu un monde et non histoire. Connaìtre un autre
parfaiiement serali l't'tude d'une vie entière; qu'est-cc
donc qu'on entend par connaìtre Ics hommes? Ics tjou-
verner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu serti le
fait. Corinne, livre X, chap. 1, t. II, p. 114. Ciò vuol
diro elio l'uomo è sommamente e infinitamente o in-
determinatamente conformabilo, o non è possibilo co-
noscer mai tutti i modi e tutte le differenze in cui lo
spirito degl'individui, socondo la diversità delle circo-
stanze (eh' è infinita o indeterminabile), si conforma o
si può conformare; per la stessa ragione per cui non si
possono conoscerò tutte le circostanze possibili ad aver
luogo, elio possono influire sullo spirito dogi' indivi-
dui, né tutte quollo che hanno effettivamente influito
su talo o tale individuo determinato, né le loro com-
binazioni scambievoli, né le loro minute diversità
che producono non piccole differenze di carattere oc.
(3468) La maggior cognizione adunque cho si possa
avoro dell'uomo è quella di sapere perfettamente e
ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben
conoscere, perché 1' uomo è indefinitamente variabile
negl'individui, e l'individuo stesso per so. E il pia
certo segno di tal cognizione si è quello di non mara-
vigliarsi inai un punto, e di esser bone o ragionata-
mente e veramente disposto a non maravigliarsi di
(3488-3469)
PENSlEUl
qualunque strana e inaudita o nuova indole, carattere,
qualità, facoltà, aziono di qualunque individuo umano
noto o ignoto ci possa veniro agli orecchi o agli occhi,
ci accada o possa accader d' intendere o di vedere, in
bono o in male. Chi è voramento giunto a questa dispo-
sizione, e l'ha in so ben perfetta, radicata e costante,
ed efficace, può dire di conoscer l'uomo il più eh' ò
possibile all'uomo. E più infatti non può se non Dio,
come ben dice la Stacil, perché Dio solo può conoscere
e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si pos-
sono porfettamonte conoscere chi non conosca poco mon
che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura
e di questa terra (19 settembro 1823). (3469)
* Alla p. 2709. Quasi tutti gli antichi che scrissero
di politica (tranne Cicerone, de rep. e de leyibus), la
pigliarono puramente o principalmente dalla parte
speculativa, la vollero ridurre a sistema teorico e di
ragione, e disegnare una repubblica di lor fattura; e
questo si fu lo scopo, l' intenzione e il soggetto do'loro
libri. Ond' è che quantunque i moderni primiera-
mente abbiano fatto della politica il loro principale
studio, secondariamente, come privati che orano e
sono la più parte, e quindi inesporti del governo,
sieno stati obbligati a tenersi in ciò alla specula-
zione più che alla pratica, e per la medosima cagione
abbiano immaginato, sognato, delirato e spropositato
nolla politica più che in altra scienza ; nondimeno io
tengo per fermo che gli antichi, anzi i soli greci, aves-
sero più Utopie ') che tutti i moderni insieme non
hanno. Utopia è la repubblica di Platone, si quella di-
sognata nella Politica, si P altra ne' libri delle Leggi,
•l O piatemi di repubblica o dì legislazione, praticabili o non pra-
ticabili, ma certo non praticati, o nolo immaginati e oompoatl da' ri-
cpettlvl untori. Vedi Aristotele, PoWfa», 1. H, P- W» ITI , 179, fine, 116,
l, IV, p. 2SS»-a2 , p. 358, fine.
pENsnirti
diversa da quolla, come osserva Aristotele noi secondo
d» l PoMtici, p. ÌO(Ì-K). Utopie furono quelle di Filea
Calcedonio (Aristotele, Politic, L II, od. Viotorii, Elo-
rcnt., p. 117-20), e d'Ippodamo Milesio (ih., p. 127-35),
"Utopia ò quella d'Aristotele (vedi il Eabricio). 1 ) E senza
(3470) fallo Utopie furono ancora i libri politici e
pori noinon o nomoi di Teofrasto, di Cleante e d'altri
tali filosofi, mentovati dal Laerzio, e i perduti libri
pur politici e pori nomon dello stesso Aristotele, e
molti altri siffatti. 8 ) Aristotele spianta le repubbliche
degli altri, ma, né più né meno ohe in filosofia, si erodo
in obbligo di sostituire, o ci dà la sua repubblica o il
suo sistema. 3 ) E cosi gli altri. Ed è pur notabilo cho
gli antichi, e nominatamente i greci, o avevano o ave-
vano avuto in mano gli affari pubblici, o potevano averli,
o certo, ancorché stati sempre privati, erano pur parte
delle rispettivo repubbliche, e contribuivano insieme
col popolo al governo. E generalmente parlando, nello
antiche repubbliche, tutte libero, i privati, ancorché
dediti solo a filosofare e studiare, erano più al caso,
se non altro per li continui discorsi giornalieri, per
lo essersi trovati assai spesso alle concioni, perché i
negozi pubblici passavano tutti e succedevano sotto
gli occhi di tutti, e le cause degli avvenimenti erano
manifesto, o nulla v' avea di segreto; (3471) erano,
dico, al caso d'intendersi veramonto di politica, e di
poterne ragionare per pratica, molto più che i mo-
derni privati non sono, i quali si trovano e si son
trovati, por lo più, in circostanze tutte opposte, e
*) Para ohe anche Kiaclido Politico aorirease de optimo stata ciuit.atìs,
senza puro Eivor mai trattato lo cobo pubbliche Vedi Cicerone, ad Quìnt.
fralr,, III, ep. 5; Victor, ad Arisi, l'olii., p, 17i. Mours., t. V, p. 114,
li-C, t. VI, p, 271), V.
! ) Cosi lo iróXitefait ili Biogeno Cinico o di Zenone. Vedi il Laerzio
9 la prelazione (lei Vettori alla politica d 1 Aristotele, !>■ 3, verso il Uno.
(^na spetta ancora hi Uiropttdia. Vedi ivi, p. 5,
") Kd A natotelo ora pur do'pirt ilovoti all' osservazione, tra' filosofi
antichi.
(347 1-3+72)
VKNH1EIU
nemmeno fanno offottivamente parto della loro re-
pubblica e nazione, né d'altra veruna, se non di nomo.
E nondimeno essi seguono nella politica l 1 immagina-
zione e la speculazione molto manco, e l'esperienza
o i fatti molto più che gli antichi non fecero, e va-
neggiano o inventano ed errano molto meno (19 set-
tembre 1823).
AkistotSIìB, Potó., 1. II, ed. Victor.,
Fior., 1676, ap. Juntas, p. 131 (19 settembre 1823).
* Alla p. 2916. Questa uniformità di stilo in Eu-
ropa viene ancora da questo che tutto le moderno lette-
rature son venute in principio dalla Francia (anche quel
che v' ha nella letteratura e nello stile italiano e spa-
gnuolo di moderno) ; laonde e gli stili nelle diverso
lingue d' Europa sono conformi tra loro di genero,
perché tutti derivati da una stessa fonte ; e poca va-
rietà (3472) hanno ciascun d' essi stili verso se me-
desimo, perché tutti derivati originariamente da uno
stile che non ne ha veruna, e molti modifìcantisi tut-
tavia su di questo.
Del rimanente, egli è tanto certo che l'arte dello
stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi,
quanto che l'arto del pensare è propria esclusiva-
mente de' moderni. Gli antichi non solo facevano di
quell' arte uno studio infinitamente maggiore che noi
non facciamo ; non solo no possedevano e conoscevano
mille parti, mille mezzi, mille secreti che noi neppur
sospettiamo, e che appena e a gran fatica possiamo
intendere quando e' gli spiegano o ne parlano expro-
' fosso (come Cicerone, Quintil. eo.), non solo, insomma, la
detta arte era senza paragone più ampia, stesa, ricca,
varia, distinta, accurata, spocifìcata, particolarizzaf a
appo gli antichi che fra i moderni, ma essa era quasi
1' unico, e senza quasi il principale studio degli an-
PENS1EH1
(3472-3473-3474)
Udii elio pretendevano e aspiravano particolarmente
al nome di scrittori, e massime di letterati. Si osser-
vino sottilmente le opore d' Isocrate, di Senofonte e
di tali altri cento. Tutto parole in sostanza (3473)
senza più. Gli antichi letterari, se ben guardiamo,
non si proponevano in concliiusiono altro, che di dir
bone, correttamente, eultamente e artifìziosamento
quello che tutti già sapovano e pensavano o facilis-
simamente avrebbero potuto e saputo pensare da su,
ma poco sapevano in quel modo significare. E non per
altro in verità divenivano famosi che per questo (an-
corché forse né gli altri né essi so ne avvedessero, o
avessero avuta questa intenzione espressa e distinta o
a se medesimi manifesta), quando ottenevano il detto
effetto. E non parlo già qui de' sofisti, i quali, a diffe-
renza degli altri, avovano o professavano apertamente
la detta intenzione e la facevano vedere ; e questa si
era l' unica diversità roalo che passasse tra' più an-
tichi solisti e i classici, e il genero di scrittura di que-
sti e dj quelli. Gli uni affettavano di dir bene, e mo-
stravano di affettarlo, gli altri dicovano bene per arto,
ma non mostravano di procurarlo e ricercarlo, come però
facevano. Quanto allo stile, questi e quelli differivano
notabilmento. Quanto a' concetti, (3474) allo sontonze,
all' invenzione, alla condotta, all' ordine ec. non v' ò
divario alcuno. Si considerino attontamonto i due pre-
detti (nemici ambedue de'Sofisti), e tutti quelli che fra
gli antichi corcarono e ottennero l'ama di bene scri-
vere; ') e si vedrà elio no' loro concetti ec. tutto è
sofistico. No anche bisognerà molta attenzione ad av-
vedersene. In Senofonte, particolare odiator de' sofisti,
tanto perseguitati dal suo maestro (vodi la fine del
Cinegetici)) e a lui por se stesso abbominevoli; in Se-
nofonte, cosi candido e semplice e naturalo che par tutto
1' opposto possibilo del sofistico, in Senofonte il sofi-
') Aristotele, per esemplo, non hi corcò, ne TeofruBto «e.
(3474-3475-3476) pensieri J 1 ^
stico de' concetti dà subito iteli' occhio, tanto oh.' io
10 sentii notare con maraviglia a persona niente in-
tendente né di greco né di letteratura antica, che
avea non più che gittate 1? occhio su certa traduzione
di queir autore. E Socrate stesso, V amico del vero,
11 bello e casto parlatore, V odiator do' calamistri o
do' fuchi e d' ogni ornamento ascitizio e d'ogni affet-
tazione, che altro era ne' suoi concetti se non un so-
fista (3475) niente meno di quelli da lui derisi ? E
per (pianto poco gli antichi generalmente pensassero,
non è possibile a crederò che i pensieri e lo osser-
vazioni di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plu-
tarco (tanto più recento) e simili, non fossero, al tempo
di costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (siono
politici, filosofici, morali o qualunque), o eccedessero
la comune capacità di pensare, di trovare, di conce-
pire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimorh a
quel modo, come ho detto di sopra.
È cosa osservata che le anticho opere classicho,
non solo perdono moltissimo/, tradotto elio sieno, ma non
vaglion nulla, non paiono avere sostanza alcuna, non vi
si trova pregio che l'abbia potuto fare pur mediocre-
mente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che
non solo non accado allo opere classiche moderne, ma
molto di esse nulla perdono por la traduzione, e in
qualunque lingua si voglia sono sempre le medesime,
e tanto vagliouo quanto nella originalo. I pensieri di
Cicerone non sono certo cosi comuni come quelli de' so-
praddetti ec, né furono de' più (3476) comuni al suo
tempo, massime tra' romani. Nondimaneo io peno a
crederò eh' altri possa tollerar di leggere sino al fino
(o far ciò senza noia) qualunque è più concettosa
opera di Cicerone, tradotta in qual si sia lingua. Clio
vuol dir ciò, che vuol dir questa differenza di condi-
zione tra l' anticho o le moderne opere, tradotto ch'elio
sieno, se non che negli antichi, anche sommi, scrit-
tori, o tutto o il più son parole e stilo, tolte o can-
410
['UNNI KKI
giate le quali cose non resta quasi nulla , o le loro
sentenze scompagnate dal loro modo di significarle
paiono le più ordinarie, le pia trite, lo più popolari
cose del mondo. Veramente i pensieri degli antichi,
più o meno, son persone del volgo; detratta la vesto,
se le loro formo non appaiono rozze, certo paiono or-
dinario, e di quelle che per tutto occorrono, senza
nulla di peregrino, nulla clie inviti l'occhio a con-
templarle, anzi neppure a guardarlo, nulla insomma
né di singolare né di pregevole. Nelle opere moderne
all'opposto tutto è pensieri e persona; stile nulla;
vesti cosi dozzinali che pili non potrebbero essere'.
E perciò appunto è necessario che le opere classiche
antiche tradotto perdano -tutto o quasi tutto il loro
pregio, cioè quello dolio stile, perché i moderni non
hanno di gran lunga 1* arte dello stile che gli antichi
ebbero, né possono nelle loro traduzioni conservare ad
osso opere il detto pregio ec. Ma non conservando lor
questo, mimo altro gliene posson lasciare che vaglia
la pena (iella lettura, e che distingua gran fatto esse
opere dalle più volgari e mediocri, massime le mora-
li, filosofiche ec. So che la volgarità de' pensieri ne-
gli antichi da molti è considerata come relativa a
noi, che sappiam tanto di più; ma (3477) io dico
che si fa torto all'antichità, allo spirito e alla ra-
gione umana universale, se non si crede che questa
volgarità, almen quanto a grandissima parte d' essi
pensieri, non sia assoluta, o non fosse volgarità an-
che al tempo degli scrittori che gli esposoro (19 set-
tembre 1823).
* Sonito da sono cut, continuativo o frequentativo (so
perù non è dal nome sonitm), ma d' incorta lede. For-
cellini (20 settembre 1823).
Contentus a um (ondo contentare italiano, contenter
francese ec.) non è in origine che un participio bello e
(3477-3478-3479) pensieri _f
buono. Eppure a poco a poco ei divenne un aggettivo
Sémplicissimo, e tale egli è unicamente noli' italiano,
nel francese, nollo spagnuolo (20 settembre 182o). Losi
falsw ec., di' cui voggasi la p. 3488. Vedi p. 3620.
* Frivoli, frissonner,— brivido — <ff>i<;aa> (20 settem-
bre 1823).
*Allap. 3158. Si potrebbe aggiungere il nostro
Monti, noi (piale tutto è immaginaziono, e nulla parte
ha il sentimento, come n' ha grandissima nel più dello
poesie di Lord Byron (se però quel di Lord Byron o
ben significato (3478) col nomo di sentimento). Certo e
che il Monti, benché d'immaginazione senza alcun con-
fronto inferiore a quella di Lord Byron, o benché non
abbia di poetico cho l'immaginazione (si nelle cose si
nollo stile), si lascia leggere non senza piacere, ne
senza effetto poetico, e l' immaginoso in Ini comparisce
molto più spontanoo e men comandato che in Lord
l5yron. Ed è forse al contrario, perché Lord Byron e
veramente un uomo di caldissima fantasia naturale, e
Monti, qualch' egli sia per se stesso, nelle sue compo-
sizioni non è che un buono o valente traduttoro di
Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio od altri poeti antichi,
e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e
dogli altri nostri classici. Sicché Lord Byron tira le
immagini dal suo fondo, e Monti dall' altrui. E se Del-
l' uno ha doli' impoetico lo sforzo che [nel] suo poetare
appariscc,neH'altro è veramente impoetico l'imitare e il
copiare che però nella sua stessa poesia intrinsecamente
non si lascia scorgere. Ond' è cho le poesie di Lord
Byron sieno meno poetiche, considerate m so stosso,
che quelle di Monti. Mentre però questi è infinita-
mente meno poeta di quello. (3479) I si conchiude che
lo poesie dell'uno sieno impoetiche, e che l'altro non
•sia poeta. E l'effetto poetico delle poesie di Monti
spetta più agli antichi che a lui, ed è piuttosto come
412
PENSI E Iti
(3479-3480)
di poesia e d' immaginazione antica, olio di inodorila.
Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto socca
o provandocisi, il elio ogli fa ben di rado, non ci riesco
punto, come nel Bardo (20 settembre 1823).
* Il poeta dee mostrar di avere un fine pili serio elio
quello di destar delle immagini e di far dello descri-
zioni. E quando pur questo sia il suo intento princi-
pale, ei deve corcarlo in modo come s'e' non se ne cu-
rasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose
più gravi: ma descrivere fra tanto, e introdurre nel
suo poema le immagini, come cose a lui poco impor-
tanti che gli scorrano naturalmente dalla penna; e,
por dir cosi, descrivere e introdurre immagini, con gra-
vità, con serietà, senz' alcuna dimostrazione di com-
piacenza e di studio apposito, e di pensarci o badarci,
nó di volor che il lettore ci si fermi. Cosi fanno Omero
e Virgilio e (3480) Dante; i quali, pienissimi di vivis-
sime immagini e descrizioni, non mostrano pur d' ac-
corgersene, ma fanno vista di avore un fine molto più
serio elio stia loro unicamente a cuoro, ed al qual solo
fesUnent continuamente , cioè il racconto dell' azioni
e V evento o successo di esse. Al contrario fa Ovidio,
il quale non dissimula, non elio nasconda ; ma dimo-
stra e, per dir cosi, confessa quello che è; cioè a dir
oli' ei non ha maggioro intento nó più grave, anzi a
nuli' altro mira, che descrivere od eccitare e seminare
immagini e pitturino, e figurare e rappresentare con-
tinuamente (20 settembre 1823).
* Io notava un vecchio ributtantemente egoista
compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sa-
crifizi e sofferemo volontarie (vere o false ch'olle
fossero, e volontarie veramente o no), o farlo con una
certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime
a chi conoscesse il carattere della persona, lui essere
persuaso di l'aro e sostener cose eroicho, e che quoi
41 S
(3480-348 1 -3482) —
Sacrifid 6 patimenti dimostrassero in lui una gran
Loriorità d'animo, e rinuncia di se stesso e del suo
aX proFio. Egli aveva ben caro che co 8 i parere
S (ìm) altri, e a quarto fino ne parlava, ma dava
fio ( !J intendere chetale si ora sfatti a sua pro-
pria opinione. Tanto poteva m nn animo lì pA radi
ato nel più schietto e compioto egoismo, mtoUeraUt*
d'ogni mLomo incomedo, e capace
che che sia ad una sua menoma comodi U tanto
teva, dico, in un animo qual esso era mfattt,
totalmente inerte, solitario e segregai o * to dalla
società il desiderio di parere si agli occhi aitata, si
Sora a' mxoi propri, capace di ^.«^^
per oro all'amor proprio, il contrario di_ egei -ta od
Lemma eroe. E tanto è vero che non ai trova quasi
omo cosi impudentemente e perfettamente egoista
Ti atto, che non desideri
dmeno a se stesso, e non si persuada effettivamente,
non si compiaccia sommamente ^'opinione d s-
sere un eroe. Perocché a tutti e grato 1 ^starna
S se e si può esser certi che tutti, o m un modo o
11? altro si stimano, e grandemente, e cosi coutinua-
^Smo e" i amache vuol dir tuttafiata, =
TtervaUo alcuno, (3482) benché la jta»
feome anche l'amore, secondo che altrove a e aimo-
£o) 3551 ^ mededmo individuo ora il pi*
t^manco, secondo diverse circostante o cag on
Del resto puoi vedere la p. 124, 3108-9 e ditti ».
T" fanità o vogliamo dire **b« OC V^dx
l'Alfieri di sé che facea gli esercii militai, da pie
pen sieri (3482-3483)
colo (20 settembre, vigilia della festa di Maria San-
tissima Addolorata, 1823).
* Ne' tragici greci (cosi negli altri poeti o Borili
tori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella
particolare e distinta descrizione e sviluppo delle pas-
sioni o de' caratteri che è propria de' drammi (e cosi
degli altri poemi o componimenti) moderni, non solo
perché gli antichi orano molto inferiori a' moderni
nella cognizione del cuore umano, il che a tutti è
noto, ma perché gli antichi né valevano gran fatto
nel dottaglio, né lo curavano, anzi lo disprezzavano
e fuggivano, e tanto era impropria degli antichi
l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e ca-
i-atteri «tic a de' moderni. Ciò noi modo e per le ragioni
da me spiegate altrove.
Oltro di ciò i moderni no' drammi vogliono in-
teressare col mettere i lettori o uditori in relaziono
coi personaggi di quelli, col far che i lettori (3483)
ravvisino e contemplino so stessi, il proprio onoro, i
propri affetti, i proprii pensiori, le proprio sventuro,
i proprii casi, le proprie circostanze, i proprii senti-
menti, no' personaggi del dramma e nel loro cuore, af-
fetti, casi ec, quasi in un fedelissimo specchio. Si può
essor certi che l'intenzione de' greci tragici, massime
de' pili antichi, fu tutt' altra, e in eerto senso contra-
ria. Questo effetto era troppo debole, molle, intimo,
recondito, sottile, perché o i poeti antichissimi fos-
sero capaci di proporsolo, o i loro uditori di provarlo,
o provato, di compiacersene Secondo la natura do' po-
poli e de' tempi meno civili, gli spettatori cercavano
e i poeti si proponevano nel dramma un effetto molto
più forte e gagliardo ed éclatant, delle sensazioni
molto pili fiero, pili onergicho, più prononti-w. dolio
impressioni molto più grandi; ed al tempo stesso meno
interiori e spirituali, più materiali od estrinseche. I
tragici greci cercarono lo straordinario c il maravi-
(3483-3484-3485) pensieri 415
glioso dolle sventuro e delle passioni, appi-esso a poco
corno fa oggi Lord Byrou (con molta maggior cogni-
zione però dell'uno (3484) e dell'altre): tutto 1 op-
posto di quel ohe si richiedeva per metterle m rela-
zione, in conformità, o d'intelligenza con quelle degli
uditori. Sventure e casi orribili c singolari, delitti
atroci, caratteri unici, passioni contro natura, furono
i soggetti favoriti de' tragici greci. Tale per certo si
fu l'iatenzion loro, sebbene la scelta, l'invenzione,
l'immaginazione non sempre corrispondesso piena-
mente all'intento, e talor più talor meno, m ehi più
in chi mono. Ma, generalmente parlando, o massime,
torno a dire, i più antichi tragici greci, cercarono o
amarono di preferenza il sovrumano de' vizi e delle
virtù, delle colpe e delle hello t) valorose azioni,
de' casi, dello fortune: al contrario appunto de mo-
derni tragici ohe cercano in trito questo il più umano
che possono. Quindi coloro si rivolsero per lo più al
favoloso, quindi il corrispondente apparato della scena
o degli attori; quindi non solo il soggetto, ma il modo
di trattarlo, di condurre il dramma, d' intrecciarlo di
recare lo scioglimento dovettero corrispondere al fine
del poeta e dell'uditorio, che era in questo di rice-
vere in quello di produrre una sensazione delle più
vive, (3485) delle più poetiche ec; quindi anche gh
episodii dovettero corrispondere alla natura di ta o
scopo e di tal dramma; quindi le furie mtrodotte
nel teatro (nelle Kumenidi di Bachilo) che fecero
abortir le donne e agghiacciare i fanciulli (vedi .ba-
brioius, Bartheleiny ec); quindi i soggetti per lo pm
lontani o di tempo o di luogo, di costumi ec. dagli
spettatori, benché tanti soggetti poetici offrisse ai
tragici greci la storia, non pur nazionale, ma patria, e
non pur patria, ma contemporanea ec. ec; quindi le m-
verisimiglianze d'ogni genere, i salti, le improvvisato
(fatte por verità, con meno arto, varietà ec che non ia-
rebboro i moderni e che non si ta ne' moderni drammi
HQ PBStsmai (3485-3486-3487)
e romanzi d'intreccio), l'intervento si frequente dogli
Doi o somidoi oc, oc. I moderni drammatici, come gli
altri poeti, come i romanzieri ec, si propongono di
agir sul cuore, ma gli antichi tragici, non men che
gli altri antichi, sulla immaginazione. Questa osser-
vazione, che non si può negare, basta a far giudizio
quanto debbano essenzialmente differire i caratteri
dell'antico e del moderno dramma, con che diversi
canoni si debba giudicar dell'uno e dell' altro, quanto
sia assurdo il tirar le modorne poesie drammatiche a
parallelo d'arte ec. colle antiche, quasi appartenessero
a uno stesso genere, eh' è falsissimo. Gli antichi tra-
gici non vollero altro che por sotto gli occhi o l'imma-
ginazione degli spettatori quasi un volcano ardente o
altro (3486) tale terribile fenomeno o singolarità dolla
natura, che niente ha che fare con quelli che lo ri-
guardano. Essi rappresentavano cosi quello sciagure,
quelle colpo, quelle passioni, quelle prodezze, come
meteore spaventevoli che gli spettatori potessero con-
templare senza pericolo di nocumento, provando il pia-
cer dolla maraviglia o dello spaventoso, impotente a
nuocere, senza però trovare né dover trovare alcuna
conformità o somiglianza fra esso sciagure ec. o le lor
proprie, o quelle de' lor conoscenti, anzi neppur de loro
simili e degl'individui della loro specie.
Da questo osservazioni si dee raccogliere per
qual ragione non si trovi, e come sia vano il cercare,
e più il pretendere di trovare, nelle antiche tragedie,
qne' dettagli, quelle gradazioni quella esattezza nella
pittura o nello sviluppo e condotta delle passioni e
de' caratteri, che si trovano nelle moderne; anzi nep-
pur cosa alcuna di similo o di analogo.
Queste osservazioni possono in parte applicarsi
ancho allo antiche commedie, massimo a quella (3487)
che in Atene si usò da principio e che poi fu chiamata
propriamente antica, àpxaEa. Neppuro questa mirava a
mettere i personaggi in relazione cogli spettatori, so
(3487-3488) gfflràiBM ^ T
non coti alcuni in particolare, clic in essa erano
espressamente rappresentati in caricatura. Ancoressa
mirava ad agir sull'immaginazione, intento allatto
alieno dalla moderna commedia, od anello da quella
che fu chiamata in Grecia la commedia nuova vte, o
seconda tatC**, oh' ù del genere di Terenzio, tradut-
tor di Monandro, che no fu il principe. Quindi nel-
l'antica commedia lo invenzioni strane, non naturali,
poetiche, fantastiche; i personaggi allegorici corno la
Ricchezza ec.j lo rane, le nulli, gli uccelli; le mve-
. rfeimiglianze, le stravaganze, gli Dei, i miracoli oc.
Lo antiche commedie non erano propriamente azioni
(8wiu««), ma satire immaginoso, fantasie satiriche,
drammatizzate, ossia poste in dialogo; come quelle di
Luciano, conformi in tutto 'alle -antiche commedie,
so non quanto all'estensione, alla personalità ed al-
tre tali non qualità ma circostanze estrinseche, acci-
dentali, arbitrarie oc, che non toccano alla natura .del
genere ec. (20 settembre (3488) 1823, Vigilia di Ma-
ria SS. Addolorata).
* Alla p 2928, margine-fine. Da falsus di fallere
(fatto aggettivo) gli spagnuoli folto (seppur e' non
fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal
caso -li spagnuoli direbbero anzi faida da un jatuio),
e falla sostantivo per falsa, e cosi il francese fante,
cioè falle. E da fallo o da falla il verbo spagnuolo
fallar per falsare elio noi diciamo, e ohe si disse an-
cora in latino (vedi l'orcellini), e che i francesi di-
cono fausser; e per fallare o fallire italiano, fadln
francese, fallere latino. Fallar la palahra spagnuolo,
fausser sa parole francese, falsare la fede. Speroni,
Oraez., Ven., 1596, Oraz. 8 cantra le Cortegiane, par. Il,
p 195, ovvero fallire la -promessa, ib., p. 198, fino; fal-
seggiar V amore per mancar delle promesse fatte in amore,
abbandonando una donna per amare un'altra o amando
■un' altra insieme, malgrado delle parole date, bporom,
27
LeoI'audi. — Pensieri, V,
418 erosami (3488-3489-3490)
Dialogo I, Yen., 1596, p. 9, principio. Vedi p. 3772. <)
Vedi la Crusca o il glossario (21 settembre, Pesta di
Maria Santissima Addolorata, 1823).
* Molti sono timidi i quali sono insieme coraggio-
sissimi. Voglio dire che molti si pordono d'animo
nella società, i quali né fuggono né temono ed audio
volontariamente incontrano i pericoli (3489) e i danni
e le fatiche e le sofferenze ee.; e non sostengono gli
sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali
di cui sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minac-
cioso o Tamii nemiche in battaglia o in duello. La
timidità spetta, per così dire, ai mali dell' animo il
coraggio a quelli del corpo. .I/una temo do' danni e
dolio pene interno, l' altro brava i danni e le soffe-
renze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spiri-
tuale, l'altro al materiale. E tanto è lungi che la
timidità escluda il coraggio, che anzi ella piuttosto lo
favorisce, e da essa si può dedurre con verisimiglianza,
ohe l'uomo che n' è affetto sia coraggioso. Perocché
la timidità è abito di temer la vergogna, la quale as-
sai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i
pericoli. Ondo il temer la vergogna, eh' è male, per
cosi dire, interno e dell' animo, giacché nulla nuoce
al corpo né alle cose esteriori, ed opera sul pensiero
solo, od ai sensi non dà noia; fa che l'uomo non tema
l danni estoriori, e non fugga e, bisognando, affronti
il poncolo ed eziandio la certezza di soffrirli, prepo-
nendo i mali o i pericoli esterni e materiali agi' in-
terni e spirituali, (3490) e l'anima, per cosi dire, al
corpo; o volendo innanzi soffrire no' sensi, nella roba oc.
che nello spirito, e morire piuttosto olio patir la pena
della vergogna. Ohe in questo e non altro consiste
quel coraggio che viene da sentimento di onoro, e gli
offetti dol medesimo. Il qual coraggio ha origino e
') Eaompi iiniilnghi ili frasi vedili nuli' Allusi ti, In faillir.
(3490-3491) F EMSiEKi 4 19
fondamonto, anzi ò esso stesso una spezie di timidità
o corto una spezie di qualità contraria alla sfronta-
tezza, all'impudenza, all' inverecondi!» (21 f^mbre,
l'està della Beatissima Vergine Addolorata,
Vedi la pag. seguente.
*"Non si dà nella orazione, qualunque ella sia,
tratto veramonte sublime, in cui il lavoro non ceda
di grandissima lunga alla materia, cioè dove l'altezza
e il pregio del pensiero, dell' immagine e simili, non
vinca d'assaissimo la nobiltà, l'eleganza e il pregio
dell'espressione e dello stile. Una sola virtù del-
l'espressione può, e deve, in un luogo ch'abbia ad es-
ser sublimo, andar di pari coll'altezza del concotto, e
questa si è la semplicità, o vogliamo dir la natura-
lezza e l'apparenza della spazzatura (21 settem-
bre 1823). (3491)
iQéo&atto oi'M» km pi «#' «*w Wf sw (Isacco
Casaub. scrive ohìh; M pfo K«t Av^v*tv «èwJow ^àtoòc
ical Soxttv KoXfii? *»fo** v * t! f à P à viu,v * 0Vl KaUla ™ v
ttylff ^IvWal, «A f$o3< Poti * 0v0 « Sl ^ * «
(il medesimo legge "Ovo? 8' 8v<j, *««, &« 5
Kpicarmo comico dell'antica commedia, Coo di patria,
ma vissuto in Sicilia, contemporaneo di Gorone ti-
ranno. Frammento recato da Alcino appresso Dio-
gene Laerzio, in Piai, lib. HI, segm. 16, p. 175 ed.
Amsltel., 1692, Wetsten. (21 settembre, Testa di Maria
SS. Addolorata, 1823).
* Basito as da rado is-rasus, frequentativo. Il con-
tinuativo si trova in francese, cioè raser, che resta in
luo"0 del positivo, mancante in quella lingua (22 set-
tembre 1823). Vedi ancora nello spagnuolo arrasar.
* Alla pag. precedente. I timidi (cioè paurosi dolla
vergogna soggetti alla tomutCo, mawatiè hmte) non
solo sono capaci di non tornare né fuggire il pencolo,
420
pensieri (3491-3492-3493)
il danno, il sacrifizio, ma eziandio di corcarlo, di de-
siderarlo, di amarlo, di bramar la morto, di procu-
rarsela collo proprie mani. Lo stosse qualità morali o
tìsiche che portano sovente alla timidezza (ciò sono
fra l' altro la riflessione, la delicatezza (3492) e pro-
fondità di spirito oc, ') onde Rousseau era straboc-
chevolmente e invincibilinonte timido), portano an-
cora alla noia della vita, al disinganno, air infelicità,
e quindi alla disperazione È veramente mirabile e
tristo, non men che vero, come un uomo che non solo
non teme né fugge, ma desidera supromamento li
morte, un uomo eh' è disporato di se stosso, elio conta
già la vita e le cose umane per nulla, un uomo eh' è ri-
soluto eziandio di morire; tema ancor tuttavia l'aspetto
dogli uomini, si porda di coraggio nella società, si
spavonti dal rischio di essere ridicolo (liscino ch'egli
ha sempre davanti agli occhi, e il cui pensiero e ti-
more si è quollo che lo ronde timido), e non abbia
coraggio d' intraprender nulla per migliorare o ren-
der mono penosa la sua condiziono, e ciò per tema di
peggiorar quella vita, della quale egli non fa più caso
alcuno, della qualo ei dispera, che non può parergli
possibile a divenir peggioro, odiandola già egli tanto
da desiderar sommamente d'esserne liberato, o da vo-
lere determinatamente gittarla via. È mirabile òhe un
uomo desideroso o (3493) risoluto di morire, un uomo
che ripone il suo meglio nel non essere, ohe non trova
per lui miglior cosa che il rinunziare a ogni cosa;
stimi ancora di avor qualche cosa a perdere, e cosa
tanto importante, ch'egli tema sommamente di perderla;
e che questa opinione e questo timore gli renda im-
possibile la franchezza e il gittarsi disperatamente
nella vita ch'ei nulla stima; oh' egli ami meglio ri-
nunziare decisamente a ogni cosa e perdere ogni cosa,
che mettersi, com'ei si credo, al pericolo di pordere
') Toglisi lo pagg. 3I8G -9I.
(3493-3494-3495) i-bn siem
quella tal cosa, cioó quella riputazione e quella stima
altrui che l'uomo timido teme a ogni momento di
perdere, conversando nella società, e ch'egli sa poro
bene di non avere, o di perderla, mostrandosi timido;
ma contuttooiò lo rende incapace di franchezza il ti-
more continuo di perdere, e la continua e affannosa
cura di conservare, quello eh' ei comprende di non
possedere, quello ch'ei ben s'avvede o di perdere no-
cessanamente o di non mai potere acquetare se non
deponendo quel continuo ed eccessivo femore quella
SS ed eccessiva cura. Tutte queste misere e
So contraddizioni (3494) e tutti questi accidente
hanno luogo (proporzionatamente più o mone ec.) nelle
jTone thuide, e più quanto elle sono di spmto più
delicato co., delicatezza che bene spesso è la sola ^ ^
principal cagione della timidità. Ma quanto al tomolo
cola ta v^ogna desiderando la morte 0 e—
disposto di procurarsela, si spiega col vede re che _quel
cerando il qnal non nasce da cause fisiche, ne da
a tetlto naturalo 0 acquisito d' irriflessione ma
per lo contrario nasce da riflessione accompagnata col
sentimento d'onore e da delicatezza d'amino (non da
oomo quell-aluu) 1-1'onsce dativamente
l morte alla vergogna, e tanto è più pauroso di que-
sta che di quella, che ad occhi aperti e delibala
,mente scoglie in fatto la prima piuttosto che la
sccTdl, e antepone il non vivere alla pena di vergo-
gnarsi vivendo (22 settembre 1823).
* Si SU ol dire che gli antichi attribuivano agli
Dei le qualità ungane, perch'essi avevano troppo
ba sa idea della divinità. Ohe questa idea non fosse
a2 loro cosi alta come (3495) tra noi non posso
appo 101 u egsi attn t ramm o
«fandonie V aver essi degli uoiniiu e dello cose
un'io e di quaggiù troppo più alta idea che noi
422
PENSIERI
(3495-3496)
non abbiamo. E soggiungo elio, umanizzando gli Dei,
non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e
innalzar gli uomini ; o eh' ofìottivameuto non pivi in-
coro umana la divinità che divina l'umanità, si nolla
lor propria immaginazione e nolla stima popolare, si
nolla espressione ee. dell'una e dell'altra, nello l'avole,
nello invenzioni, ne' poemi, nelle costumanze, ne' riti,
nelle apoteosi, no' dogmi e nello disciplino religioso oc.
(22 sottombre 1823). Tanto grande idea ebbero gli an-
tichi dell' uomo e dolio coso umano, tanto poco inter-
vallo posoro fra quello e la divinità, fra queste e le
cose divino (non por abbassar l'uno, ma por elevar
l'altre, né per disistima dell'une, ma per altissimo
concotto dell'altro), eh' essi stimarono la divinità e
l'umanità potersi congiungero insieme in un solo sub-
bietto, formando una persona sola. Ondo immagina-
rono un intiero genero participanto (3496) dell' umano
e del divino, participazione che lor sombrò naturalis-
sima, o ciò furono i somidoi. E similmente i fauni,
lo ninfo, i pani ed altro tali divinità, anzi semidivi-
nità 4 ) terrestri, acquatiche, aeree, insomma sublunari,
reputato mortali, si possono ridurrò a questo genero di
2>artìcijpanti (vedi il Porcellini in Nympha) : sebben
olle erano inferiori ai semidei, comò Ercole (di cui
vedi .Luciano, Dialogo d' Ercole e Diogene, che fa molto
a proposito), cioè participanti forse di minor parto di
divinità e più d'umanità o mortalità : siccome gli
eroi, finob.' essi sono mortali, possono parere un grado
inferiori a' pani, ninfo oc, cioè mon divini (vodi ii'or-
cellini in Ileros, Indigetee, Semideus; e Platone nel
Convito, od. Astii, t. ìli, 498, D-500, E. che fa otti-
mamente al caso *), (ili antichi non trovarono mag-
gior dillìcoltà a comporre in un soggetto medesimo
*) (afflavi?, geiìii, larcs, pcnattf, ttHUMI Ci*. Vedi Porcellini in lutiti
qneatd voci.
! ) V<x1l li. 3544.
(3496-3497-3*98) pensieri
423
l'umanità o la divinità, di quel elio a comporre i due
sessi umani, il maschio e la femmina, uogl' immagi-
nari ermafroditi; quasi l'umano o il divino ibssoro,
non altrimenti cho il virile e il donnesco, duo di-
verso specie, por dir cosi, d'un genero istesso, né
maggior differenza o intervallo (3497) o distinziou
di natura fosso tra loro (22 settoml>re 1828).
:i: Lo speranze che dà all'uomo il cristianesimo
sono pur troppo poco atto a consolare l' infolico e il
travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo
di chi si trova impoditi quaggiù i suoi desidorii, ri-
buttato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli
uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, allo
utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna.
La promessa e l'aspettativa di una folicità grandis-
sima e somma ed intiera beasi; ma: 1", che l'uomo non
può comprendere, né immaginare, né pur concepire o
congotturaro, in uhm modo di che natura sia, nemmon
per approssimazione ; 2", eh' egli sa bene di non poter
mai né concepire, né immaginare, né avorno voruna
idea finché gli durerà questa vita ; 3°, eh' egli sa
espressamente esser di natura all'atto diversa od aliena
da quella che in questo mondo oi desidera, da quolla
che quaggiù gli è negata, da quolla il cui desiderio
e la cui privazione forma il soggetto e la causa dolla
sua infelicità; una tal promessa, dico, e una talo
(3498) ospottativa è lion poco atta a consolare in que-
sta vita l'infelice o lo sfortunato, a placaro o sospen-
dere i suoi desiderii, a compensare quaggiù lo sue
privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente de-
sidera è una folicità temporale, una felicità matorialo,
o da essere speri montata dai sensi o da questo nostro
animo tal qual ogli è presenteuionto o qual noi lo sen-
tiamo ; una felicità insomma di questa vita e di que-
sta osistenza, non di un'altra vita e di una esistenza
elio noi sappiamo dover ossero affatto da quosta di-
424
rEKSIERI
(3498-3499)
versa, e non sappiamo in niun modo concopiro di olio
qualità sia por essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici poroc-
clié esistiamo. Cosi chiunque vive. E chiaro adunque
che noi desideriamo di esser felici, non comunque si
voglia, ma felici, secondo il modo nel quale infatti
esistiamo. ') E chiaro che la nostra esistenza desi-
dera la perfezione e il fin suo, non già di un' altra
esistenza, e questa a lei inconcepibile La nostra esi-
stenza desidera dunque la sua propria felicità; ché
desiderando quella di un'altra esistonza, ancorch'ella
in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si
può dire, una felicità non propria, ma altrui, (3499) od
avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui,
il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia essere
in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero oc.
Laonde la felicità che l'uomo dosidora ò necessariamente
una felicità conveniente e propria al suo presente modo
di esistere, o della quale sia capace la sua presente
esistenza. Né egli può mai lasciar di desiderare
questa felicità per niuna ragione, né per niuna ra-
gione può mai desiderare altra felicità che questa. E
non è più possibile che l'uomo mortale desideri vera-
mente la felicità de' Boati, di quello che il cavallo la
felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale ; di
quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la
7~I? nomo non desidera In felicità assolatamente , insi la felicità
umana (cosi gli alni animali), né la felicita qualch'ella sin., ma. una tale,
benché non definibile, felioltà. Et la desidera somma e infinita, ma nel
suo genero, non Infinita in questo senso oVella comprenda la folìeità h i
Imo, della pianta, doli 1 Angelo o tutti i generi (11 felicità ad uno ad uno.
Infinita e realmente la sola felicità di Dio. Quanto all' infinità, 1' uomo
dosidora una felicità come la divina, ma quanto all' nitro qualità ed al
genere di ossa felicità, l 1 uomo non potrebbe già veramente deimlr-rare la
felicità di Dio. L'uomo che invidia al ano situilo un vestito, una vivanda,
un palagio, non è pfoprjamento mai ideco né da invidia ne da desiderio
doli' Lnùnensa o plana felicità di Dio, so non salo in quanto immensa, e
pili in quanto piena o perfetta. Veggasi la p. 3503, massime In margino.
425
sua natura o la carne di cui lo vegga cibarsi, al-
l'uomo il piacere degli studi e dello cognizioni, pia-
cere che l'animalo non può concepire, né che possa
esser piacere, né come, né qual piacerò sia : e cosi
discorrendo. È ben vero che né l'uomo, né forse l'ani-
male, né verun altro essere, può esattamente definire
né a se stesso né agli altri qual sia assolutamente e
in genorale la felicità eh' ei desidera ; perocché (3500)
ninno forso l' ha mai provata, né proveralla, e perché
infiniti altri nostri concetti, ancorché ordinarissimi e
giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli
che tengono pili della sensazione che dell' idea : che
nascono più dall'inclinazione e dall'appetito che dal-
l' intelletto, dalla ragiono, dalla scienza ; che sono
pili materiali che spirituali.' Le idee sono per lo più
definibili, ma i sentimenti quasi mai ; quelle si pos-
sono bono e chiaramente e distintamente compron-
doro ed abbracciare e precisar col pensiero, questi
assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, si
1! animalo che 1' uomo sa beno o comprendo, o corto
sente, che la felicità eh' ei desidera è cosa terrena.
Qaell' infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perché s'è dichiarato altrove), quel
medesimo è un infinito terreno, bendi' ei non possa
aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell' im-
maginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio
ed appetito de' viventi. Oltre di ciò ninno è che viva
senz' alcun desiderio determinato e chiaro o definibi-
lissimo, negativo o positivo, nel conseguimento (3501)
del quale o di più d' uno di loro ei ripone sempre o
osprossamente o confusamente, benché pur sempre
per errore, la sua felicità e il suo ben essere. Quel
trovarsi senz' alcun dosiderio al mondo, se non quello
di un non so che. quell' essere infelice senza man-
caro di nhm bene né patirò assolutamente niun male,
è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in quosto
caso, potova parergli che cosi fosse, ma s' ingannava;
42(1
rKNSiEKt (3501-3502)
e niuno mai si trovò veramente in tal caso né è por
trovarvisi, perché a niuno mai mancò né è per mancar
materia di qualche dosiderio determinato, pivi o men
vivo, o eli' esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa
che noi abbiamo o ci dispiaccia. Anzi a nessuno è per
mancar mai materia di molti e vìvi desidorii deter-
minati di questa specie. Or tutti questi desidera de-
terminati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e elio
non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose ter-
rone. Promettere all'uomo, promettere all'infelice tulft
felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore
sonza paragone alla terrona , o a' piccoli beni che
egli desidera, si è come a un che si muor di famo o
non può ottonoro un tozzo di pane, preparargli un letto
morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e bea-
tissimi odori. Con questo divario che l' affamato con-
cepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo
odorato da quella sensazione, (3502) e questo piacere
sarebbe dolla modesima natura di quello ch'ei desi-
dera e non ottiene, cioè materiale e sonsibilo corno
l' altro. Non cosi possiamo diro de' piaceri celesti pro-
messi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual
caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente
sempre, o l'infolico massimamente, benché tutti a ri-
gore sono infelici, e lo sono perché tutti e sempre si
trovano noi detto caso. Ora i piaceri celesti, al con-
trario di ciò che s' è detto qui sopra, son di natura
affatto diversi da quelli cho noi desideriamo e non
ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici: e que-
sta lor natura non può da noi por vorun modo mai
essere conceputa. Onde seguo che la consolazione che
può derivare dallo sperarli sia nulla in effotto; per-
ché a chi desidera una cosa si promette un' altra,
oh' è diversissima da quella; a chi è misero per un
desiderio non soddisfatto si promotto di soddisfare un
desiderio ch'ei non ha e non può per sua natura avoro
né formare; a chi brama un piacer noto, e si duole
(3502-3503-3504) pensieM
427
di un male noto, si promette un piacere e un bono
eh' ei non conosco nó può conoscere, e eli' ei non vedo
no può vedere come sia por essere bene, e corno possa
piacergli; (3503) a chi è misero in questa vita, e de-
sidera necessariamente hi felicità di questa esistenza,
ed altra esistenza non può concepire né desiderarne
la felicità, si promette la beatitudine di una tutt' al-
tra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dico,
eh' ella è sommamente o totaluionto e più. eh' ei non
può immaginare diversa dalla sua presente, e eh' ei
non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Como
1' uomo non può né collo intelletto né colla immagi-
nazione né con veruna facoltà né veruna sorta d' ideo
oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un' idea qualunque
di cosa non materiale, s'inganna del tutto; cosi egli
non può col desidorio passare d' un sol punto i limiti
della materia, né desiderar bene alcuno che non sia
di questa vita e di questa sorta di esistenza eh' ei
prova ; e s' ei crede desiderar cosa d' altra natura,
s'inganna, e non la desidera, ma gli paro di deside-
rarla. Come dunque oi non può dosiderar bene alcuno
d' altra natura, cosi la promessa e la speranza di tali
beni, non può per modo alcuno (3504) consolarlo real-
mente né de' mali di questa vita nó dolla mancanza
do' di lei beni, né (quando e' non fosse infelice) ral-
legrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza del-
l' aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al
suo contento. Di più, l' uomo si pasce por verità e si
sostieno o vivo grandissima parto della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorché lon-
tana, la qual è un piacere, ma come e perché? Per-
ché l'uomo va immaginando e contemplando seco
stesso a parte a parte il godimento ch'egli attendo
o spora, e prova diletto nel considerare e rappreson-
tarsi il modo in che egli no godrà, e le sue qualità
e condizioni e circostanze, anticipando ed anzi assa-
428
PBNSJBKi (3504-3505-3506)
porando effettivamente colla immaginazione mille volte
il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa
rappresentazione, guest' anticipazione, questo gusto o
assaggio, questo deliro o sogno oli e ci fa parerò e ci
rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei
noi sarà qiuindo si troverà presente in effetto (se egli
si troverà mai presente), come può aver luogo intorno
a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genero, di modo
che le nostre idee non hanno alcun potere di abbrac-
ciarne o di avvicinarne né pure una menoma parte?
Ooine ci può por verun deliro o veruno sforzo dell' im-
maginazione o dell' intelletto parer presente (3505)
quello a cui né l' immaginazione né l' intelletto non
si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare;
quello che non è fatto né per questa immaginazione
né por questo intelletto; quello eh' è di natura all'atto
diversa da ciò che l'immaginaziono o l'intelletto può
concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò
ch'egli è, s' a noi fosse possibile puro il congotturarlo;
quello ohe spotta a tutt' altra natura che la nostra
presente? Come può por alcun modo o in alcuna parto
entrar nella mento nostra una tutt' altra natura?
Certo l'uomo desidererà sempre di ossor liberato
dai dolori e dai mali ch'egli effettivamente prova, e
di conseguire quelli eh' oi crederà beni in quosta vita,
e di esser felice in questo mondo in eh' ogli vive. E
non potendo mai lasciare di desiderarlo niente più
ch'ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non sod-
disfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, né
promettendogli di soddisfarlo mai por niun modo, anzi
non dandogliene speranza alcuna, segue che lo spe-
ranze cristiane non sieno atte a consolare effettiva-?
mente (3506) il mortalo, né ad alleviare i suoi mali
ne i suoi dosiderii. E la felicità promossa dal cri-
stianesimo non può al mortale parer mai dosidorabilo,
se non in guanto infinita, anzi in quanto perfetta
(3506-3507)
429
(che infinita e non perfetta noi contenterebbe), e in
quanto felicità, astratta mente considerata, ma non già
in quanto tale qual ella è, e di quella natura di eh' ella
è. Ed oao dire che la felicità promessa dal pagane-
simo (e cosi da altre religioni), cosi misera o scarsa
com'clla è puro, doveva parere molto più desiderabile,
massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, c la
speranza di essa doveva essere molto più atta a con-
solare e ad acquietare, perché felicità concepibile e
materialo, e della natura di quella che necessaria-
mente si desidera in terra.
Osservisi che di due future vite, l'una promessa
l'altra minacciata dal cristianesimo, questa fa sul
mortale molto maggior effetto di quella. E perché?
perché ci s'insegna che nell'inferno (e cosi nel Purga-
torio) avrà luogo la pona del senso. Onde ci si rende
concepibile nel genere, benché non concepibile nel-
l'estensione, la pona che dee aver luogo in una vita
e in un modo di essere (3507) a noi d' altronde in-
concepibile non meno cho quello de' Beati del Para-
diso. E sebbene noi non possiamo concepire il modo
in cui questa pena possa aver luogo nell'altra vita e
nell' anime ignudo, pur ci si dico eh' ella ha luogo
niìris sed veris modis (S. Agostino), restando fermo
ch'ella è pona sensibile e materiale; onde noi non
sapendo né immaginando il corno, sappiamo però bene
e concepiamo il quale sia quella pena.
E perciò può dirsi con verità che il cristiane-
simo è più atto ad atterrire che a consolare, o a ral-
legrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è
cortissimo infatti che l' influenza da lui esercitata
sullo azioni dogli uomini è sempre stata ed è tut-
tavia come di religion minacciante assai più che come
di religion promettente; ch'egli ha indotto al beno e
allontanato dal male, e giovato alla società ed alla
inoralo assai più col timore che colla speranza; cho
i cristiani osservarono e osservano i precetti delia
4SI )
pensieri (3507-3508-3509;
religion loro più per rispetto dell' inferno e del Pur-
gatorio cho del Paradiso. E Dante che riesco a spa-
ventar dell'intorno, non riesce, né ancko poeticamente
parlando, a invogliar punto del Paradiso; (3508) e
ciò non per mancanza d'arte né d'invenzione eo.
(anzi ambo in lui son somme ec), ma per natura
de' suoi subbiotti e degli uomini (similmente, con
proporzione, si può discorrere doli' Eliso e dell' in-
ferno degli antichi, questo molto più terribile che
quello non è amabile; dello stato de' reprobi e della
felicità de' buoni di Platone ec).
E anche certo che siccome il cristianesimo senza
il suo inferno e il suo Purgatorio, e col solo suo Para-
diso, non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e
sui costumi degli uomini quella influenza eh' egli ebbe
ed ha, cosi non l'avrebbe avuta, o minore assai, se
e' non avesse minacciato noli' inforno e nel Purgatorio
una pena di qualità concepibile, e s'egli avesso solo
minacciata la pena del danno eh' è di qualità incon-
cepibile, e di natura diversa dalle pene di questo
mondo; benché non tanto, quanto la beatitudine ce-
leste dallo terreno; perché noi concepiamo pure e sen-
tiamo per esperienza come ci possa fare infelici la
privazione e il dosiderio di beni non mai provati,
mal conosciuti, ed anche non definibili; dei desideri!
vaghi ec. Onde anche non concependo il bone del
Paradiso, possiamo in qualche modo concepire corno
la privazione irreparabilo e il desiderio continuo ed
eterno di osso possa fare infelici , massime chi sa di
non poter esser mai soddisfatto, (3509) o pur sempre
dosidera, e sa d' aver sempro a desiderare, e chi ò
certo di penar sempro allo stesso modo, e di essere
eternamente infelice senza riparo, e senza sollievo
alcuno ec. Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi
secondari a monte, come possa esser causa di somma
infelicità, benché non possiamo concepirlo primaria-
mente, cioè la qualità di quel bone cho nell'inferno oc.
(3509-3510) pensieri
si desidera, e la cui privazione o desiderio fa info-
liei i dannati ec. (23 settembre 1823).
* Niente d' assoluto. — Voggasi il pensiero antece r
dento, in particolare p. 3498-9, margine, nel qualo si
dimostra òlio né 1» uomo né alcun vivente non desi-
dera neppur la felicità assolutamente, ma relativa-
mente, e solo s' ella conviene alla di lui propria
natura, ed è richiesta dal di lui modo particolare di
ossero oc. e in quanto ella sia tale ec. Né perché una
cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, ne si
compiace nello sperarla, quando ella non convenga al
suo modo di essere ec. Si può poro dire por un lato,
che l'uomo desidera la felicità assolatamente, Veggasi
la p. 3506. Ei non desidera tale o> tale felicità, s'a lui
non conviene : e dovendo desiderare una tale felici-
tà ei non può desiderar se non la conformo e propria
al' suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente
e indeterminatamente considerata, e s' ei cosi la con-
sidera, ei non può non bramarla, cioè in quanto feli-
cità semplicemente. — Di qual cosa par che si possa
ragionare più assolutamente che dolla lunghezza o
estensione di ima data porzione di tempo? la qualo
si misura esattamente coll'oriuolo, e si divide (3510)
perfettamente in parti anche minutissime, non col
pensiero solo, ma con gì' istrumenti da ciò, e come
fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si
raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza
ohe dà V aritmetica. Ora egli è cortissimo che la lun-
ghezza di una medesima quantità di tempo ad altri
è veramente maggiore ad altri minore, e ad un me-
desimo individuo può ossero, ed è, quando maggiore
quando minore. Onde può dirsi con verità che una
medesima data proporzione di tempo or dura più or
meno ad un medesimo individuo, ed a chi più a chi
mono. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, an-
noiato, incomodato, addolorato e simili, riesce e si
432
i'ensiimu (3510-3511-35)2)
sente esser più lungo ohe quel medesimo o altret-
tanto spazio di tempo occupato , dilettevole, passato
in distrazione e simili ; ') e ciò ad un medesimo in-
dividuo, o a diversi individui d' una sola specie in
un tempo medesimo, o in tempi diversi. Lasciando
questo, si osservi che agli animali i quali vivono
meno dell' uomo per lor natura, a quelli clic vivono
al più trentanni, venti, dieci, cinqu' anni, (3511) uitì
anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni
soltanto (che egli v' ha effettivamente animali che ri-
spondano a tutte queste differenze di durata, e a conto
e mill! altre intermedie) ; a questi animali, dico, una
data porzione di tempo è veramente più lunga e dura
più cho all'uomo, o tanto più quanto la lor vita natu-
ralo è più corta ; e l' idea che ciascun d' essi si forma
ed acquista naturalmento della durata e quantità di
una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente
maggiore di quella che l'uomo concepisce; e maggioro
in ragione esattamente inversa della lunghczza°ordi-
naria del viver loro. E s' ogli è vero, corno dicono, che
nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti,
tra i quali, quei, i quali essendo nati il mattino muo-
iono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di
figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo (Ge-
novesi, Meditazioni filosofiche .sulla lìctigione e sulla
Morale. Meditazione I. Piacere dell' esistenza, §. o, arti-
colo 12, Bassano, Eemondini, 1783, p. 26. Vedilo dal-
l' articolo 11, a l fine della Meditazione); (3512) se
questo, dico, è vero (che ben può ossere, 2 ) e se non
bollii rimembranza e molto volto il contrarlo, cho più coito paro
il tempo passato sonza occupazione o uniformemente, porcini allora natia
niomorla 1' una ora o 1' un di ni confonde e quasi sovrappone coli' altro,
in morto che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro né
moltitudine di azioni o passioni cho si possa nnmeraro, l' idea dolla miai
molUtnaine si e quella che produco l' idea della, lunghezza del tempo,
massime passata no. Ma di questo pensiero altrove s'è scritto.
-) Se non e, può essere, e al nostro caso tonto 6 il poter ossere
quanto l'essere in fatto, Immaginiamo, se non è, ohe sia. e corno di
nh ipotesi (Iiscorrmino quello che neceBanriamentc tegnlroblia so cosi
(3512-3513)
PENSIERI
433
d'essi animaletti, d'altri, visibili o invisibili ; e so no,
discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di
certo si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo
che P idea che questi animaletti si formano e natural-
mento acquistano (iella durata e quantità, per esom-
pio di una mezz' ora di tempo, è tanto maggioro (iella
nostra idea, che noi non possiamo pur concepirò il
quanto. E veramcnto una mezz' ora dura per essi in-
definibilmente più che per noi , stante la rapidità
delle loro azioni, sensazioni, passioni ed eventi ; il
velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri ;
la inconcepibile prontezza del loro sviluppo ; la rapi-
dità, per cosi dire, della lor vita ed esistenza: e
stante eh' essi in una mezz' ora, in un minuto, vivono
ed esistono, si può ben dire, assai più che noi né gli
altri più macrobii animali, in quel medesimo spazio,
non fanno ; e la loro esistenza in un minuto ò vera-
mente di quantità e d'intensità ce. maggioro che la
nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non pos-
siamo pure immaginare. In contrario senso ragionisi
dell' idea elio dovettero aver gli nomini naturalmente
della durata e quantità di una data porzione di tem-
po, quando la (3513) lor vita naturale era straboc-
chevolmente pili lunga della presente, e proporziona-
tamente dell' idea che debbono averne le nazioni (se
ve n' ha) che vivono ordinariamente più di noi (sic-
come v'ha corto di quelle oho vivono mono, e pre-
stissimo giungono alla maturità, e ciò ne' climi caldi,
come nell'Amorica meridionale, ove le donne si ma-
ritano di dieci o dodici anni. ') e tra gli orientali ec; e
vedi a questo proposito P Indica di Arriano, c. IX,
sect. 1-8 e Plinio so ha nulla ee.) ; e dell' idea clic
foeae. Kaaoudo l' Ipotesi possibilissima e Biffiiliwima al vovo, V argomento
avrii la medesima l'orza, o tanto noi cubo predente varrà a proverà l'Ini-
macinazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e Vlm.
maftimito quanto il vero ort effettive.
') Vedi p. 3898.
Leopardi. — Tentieri, V. 28
434
PJSHSIERI
(3513-3514)
n'hanno gli animali pili longevi dell'uomo, come l'ele-
fante, il cervo, la cornice, la tartaruga, alla quale, pi-
grissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura
diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico
nonlunghissima vita, perch'ella, stante la tardità de'suoi
movimenti ed azioni, alla quale corrisponde quella del
suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la
sua natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo
assai meno che 1' uomo in altrettanto spazio non fa.
E cosi proporzionatamente gli altri animali più lon-
gevi di noi. E dalle suddetto osservazioni si raccoglie
che la somma o quantità della vita, e però la (3514)
durata e lunghezza della medesima, è generalmente
e appresso a poco altrettanta in effetto negli animali
ed esseri bracMbiotati, che ne' macrobiotati e negl'in-
termedii, e niente minore, e cosi viceversa. Onde la
durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente
e genoralmento e costantemente, salve le varie circo-
stanze della vita di una stessa specie e individuo, ac-
cennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che va-
riano l' idea e '1 sentimento della durata ec, sempre
però dentro i limiti e la proporzione e in rispetto del-
l'idea d'essa durata, propria particolarmente dello spe-
cie per sua natura oc, por gli uni maggiore per gli
altri minoro oc e non si può determinare ec. né giu-
dicarne assolutamente corno noi facciamo ce (24 set-
tembre 1823).
* Transito as, da transeo-transìtus. Vedi il Porcel-
lini in Transitanti. Oggi questo verbo ei ò connine, e
lo trovo ancora nello .spaglinolo moderno, e ini par
eziandio nel francese. Ma in tutte tre queste lingue
egli è piuttosto termine di gazzetta (inutilissimo),
che voce degna della lingua oc (25 settoinbre 1823).
* Alla p. 2984. Vìeil da veculus come ceil da oculus,
orinile da auvicula o aurccula (corrottamente) ec, ver-
(3514-3515-3516) pensieri 435
meil, vermiglio, vermejd da vermimhà o vermccuhis ec.
Sommìl è certamente un sornnìculus diminutivo, proso
in senso positivo, come somme da somnus. Resta però
il senso diminutivo (3515) a nommciller che vion da
somnieulara, come il nostro sonnacchiare, e che serve
a confermar la derivazione di sommili da somniculus.
Apparati, apparecchio, apparecchiare, sparecchio eo.,
aparejo, aparejar dimostrano un diminutivo positi-
vato appariculare per apparare (corno mÌ80ulare por
miscere, di cui altrove), appariculus per apparutusi )
voci ignote del buon latino, ma comuni alle tre lin-
gue figlie. Vedi glossario oc. (25 settembre 1S23).
* A quello che altrove ho dotto di occhio e di ojo
formati regolarmente da oeutys, non da ocm, come po-
trebbe parere, aggiungasi che anche ce.il viene mani-
festamente da oculus (vedi la pag. qui dietro), e non po-
trebbe venire da ocus. Aggiungi ancora, a quello che
ho detto in tal proposito, che da somniculosus abbiam
fatto oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonno-
gUoso e sonniglioso, mutato il cui in gli, come in vermì-
glio da vermiculus, di cui vedi pur la pag. antecedente,
e in periglio da periculum, e in coniglio (conejo) da
cuniculns. Quindi i diminutivi spagnuoli in ilio, da
iculus (25 settembre 1823). Abbiamo anello xormoloso.
(3516)
* Axilla era voce antiquata fin dal tempo di Cice-
rone e sostituitavi ala (vedi porcellini in Axilla, in
X eo) Antiquata nel parlare e nello scriver cólto. Ora
il volgo conservala sempre, tanto che la trasmise a
noi, i quali usiamo ancora volgarmente e tuttodì que-
i) Parecchi, pardi, onda apparHllor, sono da partaiUu co. Vedi
a L «, • «««io (cioè- par) parejura oc. FeUtja, pOUjo, pelUoo; pOr
JL. Pinolo 'JZJ velli!, da pria* eo. Lo w»otó
tó^aohfn poS & •** Oxaiite d, oviouta co., come
43G
PENSIERI
(3516-3517)
sta voce latina che al tempo di Cicerone era già di-
susata. Ancella, aìssellc. Cosi dito di maxilla (mascella,
mexilla), che pur si trova usata da scrittori posteriori,
ina ciò dovette essor con poca eleganza. Ala o mala
che al tempo di Cicerone in questi significati erano
più recenti e più usate di quell'altro, oggi, restando
queste, sono esse affatto perdute in tali significazioni
(25 settembre 1823). Al contrario pahts è riinasto,
paxilhts perduto ; velum è rimasto, vexìUum non è per
noi che voce poetica ec. (25 settembre 1823).
* Testa si dice ancho per ogni genere di coccia,
come di quella de' pesci, onde la tartaruga è detta
testitelo ec. Quindi si conforma la congettura da ino
fatta altrove sopra 1' origine del dir te.sta, cioè coccia,
per capo. Si Gomineiò a dar quel nome al cranio, ed è
metafora o metonimia ec. molto naturale. Vedi Por-
cellini (25 settembre 1823). (3517)
* Alla p. 3412, fine. Altrettanto però è certo che
una società capace di repubblica durevole non può
ossoro che leggermente o mezzanamente corrotta; che
una società pienamente corrotta (come la moderna)
non è assolutamente capace d'altro stato durevole che
del monarchico quasi assoluto; e che il non essere
assolutamente capace se non di assoluta monarchia,
e l' essere incapace di durevole stato franco è certo
segno di società pienamente corrotta. Cosi apparen-
temente si ravvicinano i due estremi, di società pri-
mitiva, di cui non ò proprio altro stato che la mo-
narchia; e di società totalmente guasta, di cui non è
propria che l' assoluta monarchia. Colla differenza che
questa società non è onninamente capace di altro stato
durevole, , quella si; e che in questa non può durar
che una monarchia assoluta, cioè dispotica, in quella
una tal monarchia non poteva assolutamente durare;
ma l'era propria una monarchia piena bensì ed intera,
PENSIERI
437
ma non assolutane dispotica; una monarchia dove il
ré era padron di tutto, e il suddito niente manco li-
boro. Del resto, s'egli è (3518) proprio carattere si
della società primitiva come della più corrotta l'es-
sere ambedue per natura monarchiche di governo, non
ò questo il solo capo in cui si veda che lo cose limane
ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo er-
rore ai loro principii, e giunte (corno or pare che
siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto
a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo
in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo
luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa car-
riera. Bensì per cagioni ben diverse e contrarie a
quello d'allora; onde questi effetti e questo stato sono
ben peggiori ritornando, che allora lion furono; e se
e dove furon buoni e convenienti all'umana sociotà
ed alla felicità sociale nel principio, son pessimi nel
ritorno e nel fine ec. (25 settembre 1823).
FINE DSL VOLUME QUINTO.